Hamas, Fatah, l’ANP, l’OLP: il difficile tentativo di riconciliazione per il futuro della Palestina
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Le dimissioni di Mohammed Shtayyeh erano già nell’aria da giorni. Erano implicite anche nelle affermazioni del primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) alla Conferenza per la Sicurezza di Monaco di Baviera. “Siamo pronti a impegnarci – aveva detto Shtayyeh -. Se Hamas non è pronta, questa è un’altra storia. Abbiamo bisogno dell’unità palestinese”. A margine, l’economista ex rettore della più importante università palestinese, Birzeit, aveva poi confermato una riunione tra le fazioni palestinesi a Mosca, in programma per il 26 febbraio. E proprio ieri Mohammed Shtayyeh ha rassegnato le dimissioni sue e del suo governo, in carica dal 2019, rimettendo poi il mandato nelle mani del presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas.
Le ragioni delle dimissioni risiedono, appunto, nella necessità di riformulare una governance palestinese. Assurdo a dirlo, o anche solo a immaginarlo, visto che il futuro è a distanza siderale dal presente in atto a Gaza, dove i bombardamenti israeliani si spostano dal centro sino al sud della Striscia. Persino fino a Rafah, ultima stazione per un milione e mezzo di palestinesi stretti in un fazzoletto di terra di poche decine di chilometri quadrati. La fame sta già mietendo vittime: il risultato atteso e tragico del mancato ingresso dei camion di aiuti umanitari fermi dall’altra parte del confine, migliaia di camion in fila in attesa del benestare delle autorità israeliane.
La prossima fase, ha infatti detto Shtayyeh, "richiederà nuovi accordi governativi e politici che tengano conto della realtà che emerge nella Striscia di Gaza, dei colloqui di unità nazionale e dell'urgente necessità di un consenso interpalestinese". Nel mezzo della guerra su Gaza, alla fine di febbraio del 2024, la questione dell’unità politica palestinese è ancora ferma al processo di riconciliazione: un processo che dura dal 2007, tra incontri, accordi, governi di unità nazionale (l’ultimo è stato costituito nel 2014, ed è durato appena un anno). Ora però sulla testa di Fatah e Hamas, i due più importanti competitor, pende una guerra che ha già distrutto Gaza e che bussa alle porte della Cisgiordania, mentre l’approssimarsi del ramadan, che inizierà tra una decina di giorni, rende estremamente tesa la situazione a Gerusalemme.
Il senso di urgenza è palpabile, ma non è detto che porti frutti, almeno a breve termine. Shtayyeh ha sì rimesso il mandato nelle mani del presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas, ma rimarrà primo ministro per gli affari ordinari. Nel frattempo, si fa già il nome del suo successore, Mohammed Mustafa, anche lui economista, come Shtayyeh e come, oltre quindici anni fa, Salam Fayyad, il tecnocrate che avrebbe dovuto risollevare le sorti dell’ANP. La formula degli economisti tecnocrati al governo di Ramallah, però, non è riuscita a riunificare i palestinesi, nonostante in molti si dicano favorevoli a un governo tecnico per uscire dal pantano.
Lo dice anche Hamas, per bocca di alcuni tra i suoi più importanti leader fuori dal Territorio Palestinese Occupato. L’ultimo ad averlo detto, in ordine di tempo, è stato Mussa Abu Marzuq, l’uomo che nei momenti decisivi della sua storia si dice abbia salvato il Movimento di Resistenza Islamico. Secondo Abu Marzuq, Hamas sostiene un governo che regga la Striscia di Gaza “composto da esponenti palestinesi competenti”. E lo ha detto ad al Ghad tv, l’emittente emiratina che trasmette dal Cairo e che è la longa manus comunicativa di Mohammed Dahlan, nemico di Mahmoud Abbas ed ex nemico di Hamas, nativo di Gaza dove mantiene la sua grande influenza grazie anche a una rete capillare di beneficenza. Di Gaza come Mussa Abu Marzuq, di Khan Younis come il compagno di giochi di infanzia Yahya Sinwar. In esilio negli Emirati Arabi Uniti, dove ha fatto la sua fortuna anche politica, come possibile deus ex machina guardato con interesse anche negli USA.
Il consenso sul governo tecnocratico, almeno a parole, dovrebbe dunque essere diffuso. I problemi cominciano, però, quando si riflette sulla parola stessa, sul “consenso”. Chi deciderà i nomi “competenti”? E le figure tecniche cosa dovranno gestire? Lo ha detto chiaro uno degli storici portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, che alla Reuters ha spiegato che “le dimissioni del governo Shtayyeh hanno senso solo se si inseriscono nel contesto di un consenso nazionale riguardante le intese per la fase successiva”.
Un governo di unità attraverso le figure dei tecnici sarà possibile solo se si chiariranno i termini di una (possibile e necessaria) riconciliazione tra Fatah e Hamas. È per questo che sia Fatah sia Hamas sono le pedine che si muovono su una scacchiera composta dalle capitali in cui arrivano per partecipare a incontri e colloqui, e ricevere pressioni di diverso colore. Dal Cairo, la sede storica di tutti i negoziati interpalestinesi, sino a Doha. E da Riyadh e Ankara sino a Mosca, dove Mikhail Bogdanov, il responsabile della politica mediorientale del regime guidato da Vladimir Putin, ha confermato che si ritroveranno tutte le fazioni palestinesi per discutere di unità nazionale. E un così alto numero di presenze, che va oltre quelle di Fatah e di Hamas, significa una sola cosa: significa che l’unità palestinese non si può fare solo con l’ANP, ma che prende sempre più piede l’idea di passare attraverso l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).
L’OLP rappresenta tutto il popolo palestinese, ne è legittimo rappresentante anche per l’ONU. L’Autorità Nazionale Palestinese è il prodotto di Oslo nato come primo passo per lo Stato di Palestina su Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. Ora che Gaza è distrutta al 70%, ora che Gerusalemme est è separata dal resto della Cisgiordania, ora che la stessa Cisgiordania vive sotto una occupazione sempre più affidata alle forze armate israeliane, l’ANP non ha la capacità di formare un governo effettivo. Solo il simulacro di un governo che dovrebbe, forse, gestire le macerie di Gaza e la frammentazione della Cisgiordania. L’OLP riporterebbe in campo anche l’altra parte dei palestinesi che l’ANP non rappresenta, e cioè il rifugio, i milioni di profughi del 1948 e del 1967 che sono in Libano, Siria e Giordania.
C’è un interesse preciso da parte di Hamas verso l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Hamas non ne fa parte, ma dal 2005 aveva deciso di entrare in una OLP riformata. Obiettivo mai realizzato, nonostante l’ex capo del politburo, Khaled Meshaal, lo avesse fatto suo, cercando di mettere assieme la riconciliazione tra Fatah e Hamas e, appunto, l’ingresso nell’organismo che avrebbe definitivamente sdoganato e legittimato il Movimento di Resistenza Islamico. Ora più che mai, dopo il 7 ottobre, la leadership di Hamas all’estero ha bisogno di una ri-legittimazione a Gaza, e di guadagnare sul consenso più ampio che sembra avere fuori da Gaza, tra la Cisgiordania e il mondo del rifugio.
Ora la riconciliazione sembra l’unico strumento per mettere insieme tutti i protagonisti deboli di questo capitolo tragico della storia palestinese: Hamas, Fatah, l’ANP, l’OLP. Non sembra, però, che Mahmoud Abbas voglia cedere, sia lo scettro, sia la sua opposizione evidente a una riconciliazione che non passi attraverso la sua ultima parola. La diplomazia regionale, quella che segna l’agenda dei politici palestinesi in viaggio continuo da una capitale all’altra, non è ancora riuscita a risolvere il nodo della legittimità di Abbas, presidente da 19 anni senza mai una nuova elezione dal 2005. In mezzo, tra la diplomazia regionale e le fazioni palestinesi, sta un popolo in Cisgiordania che negli ultimi sondaggi ha espresso nella sua quasi totalità sfiducia verso l’ANP, e un popolo a Gaza disperato, sotto i bombardamenti e alla fame. Il tempo non c’è più, per il processo di riconciliazione. C’è, a malapena, il tempo per un accordo.
Immagine in anteprima: frame video Guardian via YouTube