Il futuro della Palestina
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Un accordo importante tra tutte le fazioni che compongono il mosaico politico palestinese, lo scorso luglio a Pechino. E, molto più di recente, un incontro durato giorni al Cairo tra i massimi dirigenti di Hamas e Fatah per costruire un Comitato di sostegno sociale per Gaza, e cercare di governare la possibile ricostruzione della Striscia. Niente di più, a prima vista. La riconciliazione palestinese ha partorito poco, in questi ultimi sei mesi, per ricucire una frattura che ha superato i diciassette anni di esistenza e da allora, dal giugno 2007, è in stallo.
D’altro canto, è un esercizio ben difficile pensare al ‘futuro della Palestina’, mentre la frattura riguarda non solo le anime politiche, ma soprattutto la terra. Se Gaza è ormai distrutta nelle sue infrastrutture e nella vita dei suoi abitanti, come mostrato in tutto il suo orrore in quello che Forensic Architecture ha chiamato A Cartography of a Genocide, la Cisgiordania vive nell’attesa di essere il nuovo capro espiatorio, e che la ‘dottrina Gaza’ delle forze armate israeliane si applichi sui campi profughi della West Bank. Come, peraltro, sta già succedendo da mesi in proporzioni sempre crescenti, e nell’assoluta indifferenza della comunità internazionale.
In questo limbo le fazioni palestinesi si muovono in due direzioni. La prima, più stringente, è quella della governance. La seconda è quella della riconciliazione propriamente detta sotto l’ombrello dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Riguardo al primo punto, quello della governance, si tratta di una parola sostanzialmente vuota, vista la mancanza di qualsiasi potere effettivo sul Territorio Palestinese Occupato. La governance entra, però, a pieno titolo nei tavoli negoziali che continuano comunque ad andare avanti, mentre imperversano i bombardamenti israeliani su tutta la Striscia, e in particolare nel nord di Gaza. Perché? Perché la governance è legata a doppio filo al braccio di ferro su quello che Israele vuole fare a Gaza: occupazione militare e nuove colonie, come hanno già detto a chiare lettere i ministri dell’estrema destra sionista messianica. Se i paesi che gestiscono il tavolo interpalestinese della governance e della riconciliazione (in primis l’Egitto) vogliono opporre qualcosa sul futuro di Gaza che contrasti il disegno israeliano, la politica palestinese deve di nuovo presentarsi unita.
Unità. Una parola difficile, quasi impossibile quando si tratta della politica delle fazioni. La strada della riconciliazione, infatti, è segnata dagli accordi rimasti solo sulla carta, divenuti carta straccia, falliti nel giro di pochi mesi. La ragione è una: nessuno vuole cedere il potere, soprattutto quando si tratta di sicurezza e controllo del territorio. Nessuno, il che significa nessuno dei due principali attori, Hamas da un lato, e dall’altra Fatah nel triplo ruolo di partito, puntello fondamentale dell’Autorità Nazionale Palestinese e anche dell’OLP.
Il punto centrale è che Hamas vorrebbe entrare in una Organizzazione per la Liberazione della Palestina riformata. Ci prova dal 2005, dagli accordi del Cairo che aprirono la strada alle elezioni politiche dell’anno dopo e alla vittoria di Hamas. L’ingresso di Hamas nell’OLP è stato l’obiettivo chiaro di Khaled Meshaal per buona parte della sua dirigenza, a capo per circa vent’anni del politburo del movimento islamista. Un tentativo necessario, nella visione di Meshaal, per legittimare Hamas dentro la politica palestinese e soprattutto sul piano internazionale. L’OLP è, infatti, il legittimo rappresentate del popolo palestinese, l’organo che ha consentito allo Stato di Palestina di essere accolto nell’ONU. Un tentativo, però, senza successo, perché l’OLP rimane ancora sotto il governo di Mahmoud Abbas. Ed è la figura di Mahmoud Abbas a rimanere centrale, e spesso ostacolo alla riconciliazione. Abu Mazen, questo il suo nom de guerre, assomma infatti nella sua figura di leader troppo anziano un doppio ruolo: capo dell’OLP e presidente dell’ANP, peraltro non più legittimato dalle elezioni (non ci sono più state da quando è stato eletto nel 2005).
Quello che è successo, anche negli ultimi mesi, è che il processo di riconciliazione non si è interrotto dal punto di vista formale, ma Abbas si è sempre riservato il diritto di essere l’ultima voce in capitolo. Voce che poteva e può ribaltare persino gli accordi messi faticosamente in piedi da tutte le fazioni politiche che partecipano ai colloqui. Come gli accordi di Pechino, firmati lo scorso 23 luglio da quattordici fazioni palestinesi, ivi comprese Fatah e Hamas rappresentate ai massimi livelli, sotto la benedizione del ministro degli esteri cinese Wang Yi.
La decisione della Cina, di entrare in un processo così magmatico come la riconciliazione palestinese, ha ragioni evidenti. La prima, determinante: si inserisce in un profilo sempre più marcato di Pechino come una delle potenze che contano e parlano all’interno della regione araba e dell’Asia occidentale. Ci sono gli interessi energetici ed economici della Cina nell’area, ed è importante – dunque – sostenerne la stabilità. La conferma è nel ruolo che Pechino ha avuto nella normalizzazione tra Arabia Saudita e Iran, sancita nel marzo del 2023 e rinsaldata in questo anno e mezzo, cioè nel periodo peggiore che sta vivendo la regione da decenni.
Gaza, dunque, è parte della necessità della Cina di fermare la guerra, le guerre, e riportare stabilità. La riconciliazione palestinese è di conseguenza altrettanto necessaria, e Pechino ha una libertà di manovra che gli Stati Uniti non hanno, visto che hanno inserito Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche. La Cina può dunque ospitare le fazioni palestinesi a Pechino, compresa Hamas e il Jihad islamico, usare i suoi buoni uffici diplomatici e arrivare a un accordo come quello dello scorso luglio. Accordo benedetto anche dai rappresentanti di Egitto, Algeria, Arabia Saudita, Qatar, Giordania, Siria, Libano, Russia and Turchia, senza dunque la presenza di alcun paesi occidentale.
L’intesa prevedeva l’unità politica palestinese, e la creazione di un governo ad interim di riconciliazione nazionale concentrato sul cessate il fuoco e sulla ricostruzione di Gaza dopo la fine della guerra. Nulla di tutto questo è stato realizzato, ma l’accordo non è mai stato né smentito né superato. Ed è probabilmente servito a creare un’intesa sulla governance, un terreno buono per il tavolo ospitato dagli egiziani che, però, non è riuscito a superare gli ostacoli frapposti da Mahmoud Abbas. L’idea sul tavolo, quella di un comitato formato da 15 esponenti locali (cioè di Gaza) lontani dai partiti che si occupi di una possibile gestione della ricostruzione di Gaza, rischia di mettere da canto il potere dell’Anp. E questo, per Abbas, è inaccettabile. È di nuovo impasse, e sempre per lo stesso motivo: la gestione del potere.
Sugli ostacoli storici si aggiunge la decisione della Corte Penale Internazionale: l’emissione dei mandati di cattura nei confronti degli israeliani Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant, e il palestinese Mohammed Deif. Due esponenti politici, da un lato, e dall’altro il capo delle Brigate Ezzedine al Qassam, l’ala militare di Hamas. Gli altri esponenti di Hamas, politici in questo caso, indicati a maggio da Karim Khan, il procuratore generale del Tribunale Penale Internazionale, sono stati uccisi da Israele. Può sembrare paradossale, ma la scomparsa di Ismail Haniyeh e Yahya Sinwar potrebbe consentire a Hamas di continuare a essere parte della riconciliazione. A meno che l’emissione di un mandato di cattura nei confronti di un esponente di Hamas non spinga gli altri protagonisti della riconciliazione palestinese a prendere tempo, e rinviare sine die l’ingresso del movimento islamista nell’OLP.
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