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Pakhshan Azizi e le altre detenute, ma anche i nuovi negoziati con l’Occidente. Dopo Cecilia Sala, chi e cosa resta in Iran

13 Gennaio 2025 11 min lettura

Pakhshan Azizi e le altre detenute, ma anche i nuovi negoziati con l’Occidente. Dopo Cecilia Sala, chi e cosa resta in Iran

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Se Cecilia Sala è libera, nel carcere di Evin e nelle altre prigioni dell’Iran sono rimaste molte altre persone, arrestate per ragioni politiche o per essere usate come ostaggi, da scambiare con il rilascio di iraniani detenuti all’estero o altre contropartite. Lo sapeva bene, la giornalista di Chora Media e del Foglio, quando trascorreva le sue giornate nel nulla della sua ristretta cella di isolamento, pareti bianche e luce sempre accesa anche di notte, neanche un libro con cui distrarsi dai propri angosciati pensieri. Come ha poi raccontato lei stessa, in particolare nell’ultimo podcast delle sue Stories, Cecilia Sala sapeva bene che, per gli stranieri come lei, l’arresto poteva essere solo l’inizio di un lungo tunnel di attesa, se non una trappola senza uscita. Ma sapeva anche che agli iraniani può andare ancora peggio.

Liberata l’8 gennaio, dopo 21 giorni dall’arresto e prima delle più ottimistiche previsioni, le si è stretto il cuore per dover lasciare indietro Farzaneh, con cui aveva condiviso la cella nell’ultima fase della detenzione. Ma proprio quando lei era stata liberata - grazie all’azione del governo e dell’intelligence italiani,  ma forse anche alle buone  relazioni con Teheran che Roma ha coltivato per decenni – si è diffusa la notizia della conferma, da parte della Corte  suprema, della condanna a morte di Pakhshan Azizi, attivista per i diritti delle donne e assistente sociale. Azizi era stata condannata da una corte rivoluzionaria di Teheran il 24 luglio con l’accusa di, fra l’altro, «ribellione armata contro lo Stato». Appartiene al gruppo etnico dei curdi, di cui la Repubblica Islamica teme le tentazioni autonomistiche se non separatistiche, ed era stata arrestata nell’estate del 2023 dopo aver lavorato in un campo di rifugiati nel nord della Siria. Di lei scrive su Instagram il Premio Nobel Narges Mohammadi - detenuta a Evin, ma temporaneamente a casa per motivi di salute – invitando le organizzazioni internazionali per i diritti umani e le Nazioni unite a “unirsi contro la politica delle esecuzioni”. 

Allarme esecuzioni, in Iran aumentano e riguardano più donne 

Per Iran Human Rights, organizzazione basata a Oslo e diretta da Mahmood Amiry-Moghaddam, la sentenza contro l’attivista curda rientra nella strategia di impaurire il movimento Donna Vita Libertà, ma anche in un trend di “aumento senza precedenti delle esecuzioni, in particolare di donne”.  Ne sarebbero infatti state giustiziate almeno 31 nel 2024, il numero annuale più alto dal primo rapporto della Ong, nel 2008. Quattro di loro sono state giustiziate per accuse legate alla sicurezza, come moharebeh (guerra contro Dio) e ifsad-fil-arz (corruzione sulla terra), e due erano curde. Ma anche donne provenienti da un’altra provincia emarginata, il Sistan e Baluchistan, “erano rappresentate in modo sproporzionato tra le esecuzioni legate alla droga”. La maggior parte delle donne giustiziate era stata condannata per l’uccisione del marito, in contesti di violenza domestica. Per l’Onu, nel 2024 le esecuzioni totali in Iran sono salite a 901, contro le 853 dell’anno precedente 

Quanti sono i detenuti rimasti indietro, difficili le stime

Pur nell’abbondanza di dati e testimonianze sulle violazioni dei diritti umani e delle regole del giusto processo nella Repubblica Islamica - abbondanza frutto della maturità della società civile iraniana, ma anche della grande attenzione (con relativi investimenti di risorse umane e finanziarie) rivolta dall’estero a quel paese – è difficile avere statistiche precise sul numero delle detenzioni e delle condanne relative. Ma sempre Iran Human Rights ha calcolato che nel 2023 almeno 150 persone – tra avvocati, insegnanti, giornalisti, ambientalisti, artisti e attivisti per i diritti delle minoranze, delle donne, dei lavoratori e per i diritti civili - sono state prese di mira per la loro attività. E sono state condannate, nel loro insieme, a oltre 541 anni di prigione e 577 frustate. Quanto ai giornalisti, le proteste per la morte di Jina Mahsa Amini, il 16 settembre 2022, hanno provocato un’impennata di arresti: il Committee to Protect Journalists ne calcolava un centinaio solo cinque mesi dopo, e al primo dicembre 2023 ne registrava 17 in carcere. Ma è presumibile che queste cifre siano come punte di un iceberg, considerato che le fonti ufficiali forniscono notizie in modo selettivo, e queste giungono spesso dai legali o dai familiari delle persone arrestate. 

Analogamente accade anche per i cittadini stranieri o con doppia nazionalità: in vari casi sono i governi dei paesi di provenienza a scegliere il silenzio nella speranza di favorire un pronto rilascio, come accaduto nella prima settimana dopo l’arresto di Cecilia Sala. Secondo la Reuters sono una ventina gli “ostaggi” europei nelle carceri di Teheran: l’occasione per dirlo, nei giorni scorsi, il fatto che la Francia ha alzato la voce contro l’Iran per chiedere conto dei suoi tre cittadini in carcere, le cui condizioni di detenzione sono state definite “simili alla tortura”.  Le autorità francesi – ricorda l’agenzia britannica - hanno indurito i toni nei confronti dell'Iran nelle ultime settimane su questioni come il suo programma nucleare, le politiche regionali e la detenzione di cittadini europei. E “affermano che le condizioni per i progressi nei colloqui con l'Iran su questioni bilaterali o multilaterali dipenderanno dal rilascio degli ostaggi”. Il riferimento è all’incontro, programmato per il 13-14 gennaio a Ginevra, tra diplomatici francesi, britannici e tedeschi e le controparti iraniane, sul futuro dei colloqui sul nucleare. Ma, appunto, non solo. Insomma, come con Cecilia Sala e altre volte in passato, sugli ostaggi il campo della contrattazione ha contorni ampi e non sempre riconoscibili. 

Anche i “falchi” dell’United Against Nuclear Iran (Uani) - al cui advisory board partecipa anche il nostro ex ministro degli Esteri e ora senatore di Fratelli d’Italia Giulio Terzi di Sant’Agata – hanno fatto un censimento degli occidentali ostaggi  in Iran: nel  novembre 2024 ne risultavano dodici ancora in carcere, tre dei quali americani, su un totale di 46 che avevano subito lo stesso destino. Fra gli europei figura da quasi nove anni anche Ahmadreza Djalali, 53 anni, cittadino irano-svedese esperto in medicina d'urgenza in caso di catastrofi,  che aveva lavorato anche all'Università del Piemonte Orientale a Novara: fu arrestato il 24 aprile 2016 a Teheran, dove era stato invitato dall’Università della capitale. Gli ostaggi già rilasciati, calcola ancora lo Uani fornendo di ciascuno un dettagliato profilo, sono 31, mentre tre sono morti: uno nel 2020 dopo 13 anni di detenzione, e due giustiziati: Jamshid Sharmand, cittadino tedesco impiccato nell’ottobre scorso, e il giornalista dissidente Rouhollah Zam, rifugiato in Francia, sequestrato dalle Guardie della rivoluzione nel 2019 in Iraq e finito sul patibolo un anno dopo. È morto invece in questi giorni in carcere un cittadino svizzero di 64 anni, arrestato il 10 dicembre per spionaggio mentre, per le autorità elvetiche, viaggiava per turismo. Secondo la magistratura di Semnan si sarebbe suicidato. 

Dopo Cecilia Sala, andare o non andare da giornalisti in Iran?  

L’interrogativo è legittimo, considerato che nel paese restano i rischi in cui è incorsa Cecilia Sala. Tanto che se lo pone anche Kouroush Ziabari, giornalista e ricercatore basato a New York, che in un articolo su Unherd interpella l’accademica britannico-australiana, Kylie Moore-Gilbert, arrestata a Teheran nel 2018 e incarcerata come ostaggio per oltre due anni. Nonostante la terribile esperienza, lei non ha dubbi: "Non c'è alternativa a una copertura approfondita e sul campo. Non credo che alcun giornalista possa davvero comprendere un Paese o la sua gente se si limita a riferire dall'estero”. A nostro avviso, le conseguenze di un’assenza dei giornalisti stranieri le pagherebbero in effetti anche gli iraniani, e in particolare quella società civile che lavora per un cambiamento dall’interno, e che non può essere esclusa da un’adeguata copertura mediatica. Altrimenti, a fare informazione sull’Iran rischiano di essere solo le fonti ufficiali della Repubblica Islamica o le diverse componenti dell’opposizione della diaspora, che spesso hanno una propria agenda politica per il futuro del paese. “Penso vi sia un rischio reale – rileva ancora da parte sua Kylie Moore-Gilbert - che l'effetto deterrente degli arresti di Cecilia Sala e di altri giornalisti porterà a una copertura meno informata su questo paese, in un momento critico per la sua situazione politica interna e nel mondo".

D’altronde, nello stesso periodo in cui la giornalista italiana era in carcere e poi veniva liberata c’erano almeno altri due giornalisti italiani a Teheran: uno era Francesco De Leo, che dal 20 al 27 dicembre – ignaro dell’arresto della collega -  lavorava a un reportage sui primi quattro mesi del governo Pezeshkian per la rivista dell’Istituto Affari Internazionali; l’altro era Giovanni Porzio, inviato di Repubblica per altri reportage. Inoltre, per quanto lunare possa sembrare, proprio nel giorno della liberazione di Cecilia Sala l’agenzia governativa Irna riportava un comunicato del ministero cui fanno riferimento i corrispondenti e gli inviati stranieri a Teheran: “La politica del Ministero della Cultura e dell'Orientamento Islamico è sempre stata basata sull'accoglienza dei viaggi e delle attività legali dei giornalisti internazionali, sull'aumento della presenza dei media stranieri nel paese e sulla protezione dei loro diritti legali, e questo approccio viene seguito seriamente anche nel quattordicesimo governo" , quello di Masoud Pezeshkian. Un comunicato che, nella sua paradossalità, apre al tema della pluralità dei poteri e dei centri decisionali in Iran.

Ostaggi e prigionieri persi nei labirinti iraniani del potere 

La scarsa trasparenza dell’informazione su detenuti stranieri usati come ostaggi, o anche sugli iraniani arrestati ma della cui sorte i familiari vengono spesso tenuti all’oscuro, rivelano che gli standard della magistratura e delle forze di sicurezza iraniani sono ben lontani da quello che consideriamo propri di uno stato di diritto. Formalmente in Iran il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario sono indipendenti come nei paesi occidentali, in forza di quella componente repubblicana (di ispirazione francese) che si esprime nella Costituzione del 1979. A questa componente si aggiunge però quella islamica, da cui discendono la figura della Guida suprema, e altri organi a legittimazione religiosa: in particolare, il consiglio dei Guardiani (quello che seleziona i candidati per la presidenza e il parlamento e valuta la costituzionalità delle leggi, per intenderci). Inoltre, se il potere giudiziario è autonomo, al tempo stesso deve agire in conformità con la legge islamica e il suo capo è nominato dalla Guida. 

Quest’ultimo aspetto spiega non solo come la magistratura possa agire all’insaputa del governo, ma anche perché molti sforzi di liberalizzazione e di riforma, da parte di presidenti o maggioranze parlamentari di orientamento riformista, siano stati reiteratamente ostacolati e vanificati dalla magistratura, i cui ranghi sono dominati da tradizionalisti e ultraconservatori.

A questo si è aggiunto nei decenni il crescente potere delle Guardie della rivoluzione (Irgc), una forza militare che si è guadagnata nel tempo un’enorme influenza sull’economia, la politica e la gestione dell’ordine pubblico all’interno del paese. E che ha avuto un ruolo decisivo, tramite in particolare la forza Qods a lungo guidata dal generale Qassem Soleimani (ucciso il 3 gennaio 2020 dall’amministrazione Trump), nelle strategie militari e di influenza in altri Paesi vicini, come Libano, Iraq, Siria, Gaza e – in anni più recenti – Yemen. I Pasdaran hanno inoltre propri servizi di intelligence, distinti da quelli del governo, che possono agire anch’essi in piena autonomia.

La vicenda di Cecilia Sala (come degli altri stranieri usati come ostaggi) va dunque inserita in questo contesto. Come osserva l’analista geopolitico Nicola Pedde, il caso della collega “è il risultato di profondi dissidi interni alla Repubblica islamica. È inverosimile che l’arresto della giornalista sia stata un’iniziativa del governo iraniano, mentre è verosimile che sia stata un’iniziativa dell’apparato di sicurezza e della magistratura, che hanno scavalcato le istituzioni del governo e hanno determinato una crisi diplomatica gravissima, che ha messo in forte imbarazzo” l’esecutivo iraniano.

La sua incarcerazione sarebbe stata dunque sì decisa “per ottenere risultati pratici, nel rapporto diplomatico con l’Italia”, sulla questione dell’ingegnere iraniano Mohammad Abedini Najafabadi, arrestato il 16 dicembre a Milano su richiesta Usa e liberato il 12 gennaio. Ma va anche vista come mossa per “indebolire la capacità negoziale del presidente riformista Masoud Pezeshkian”, rendendolo “impresentabile” nei consessi internazionali in cui questi vuole mettere in atto il suo intento programmatico di riaprire i canali negoziali con gli Usa e l’Occidente. 

Non si tratta soltanto della ben nota divisione tra conservatori e riformisti. Oltre a questa infatti – prosegue Pedde – vi sono profonde spaccature interne a quegli stessi due fronti, e in particolare a quello dei conservatori. Segnati, questi ultimi, dalla transizione tra la prima e seconda generazione (con la seconda più oltranzista della prima), ma anche dai seri colpi subiti sul piano militare dall’azione di Israele contro Hamas, Hezbollah e le stesse postazioni militari iraniane sul proprio territorio nazionale. Questo indebolimento sta rimettendo in discussione anche le scelte precedenti su un tema cruciale come quello del nucleare, con una parte della classe politica ormai orientata a dotare il paese anche della deterrenza di un arsenale atomico, ritenuta più sicura di quella delle armi convenzionali e delle milizie alleate nella regione. 

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“Da una parte – sottolinea il direttore dell’Institute of Global Studies - ci sono il governo e la Guida che ribadiscono come la politica nucleare del Paese non sia cambiata e non cambierà, e dunque non ci sarà lo sviluppo dell’arma nucleare. Dall’altra parte ci sono una serie di movimenti politici e mediatici che vanno in direzione opposta”. Se dunque Pezeshkian e i soggetti di prima generazione ritengono che vi sia l’opportunità di un accordo con la nuova presidenza americana, l’apparato militare e la componente di seconda generazione non nutrono  aspettative in un simile accordo. Al contrario, temono che includa non solo un ridimensionamento del nucleare, ma anche il programma missilistico e dei droni, “comportando di fatto una resa incondizionata”. Pezeshkian sa dunque che in qualsiasi momento – conclude Pedde - potrebbero avvenire incidenti come l’arresto di Cecilia Sala, tali da poter arrestare le trattative negoziali con l’Occidente. Ma, aggiungiamo noi, potrebbe esservi anche una nuova azione da parte di Israele, diretta o indiretta che sia, capace di fermare gli ingranaggi dei colloqui. 

Anche Abedini è libero, una nuova partita si apre a Ginevra

Mentre il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha dato inaspettatamente già ieri il via libera alla scarcerazione di Abedini, ci si continua a interrogare su quali altre contropartite il nostro governo abbia assicurato, per favorire la liberazione di Cecilia Sala, sia a Teheran che agli Usa del presidente eletto Trump.  Ma se fra queste vi fosse anche l’impegno dell’Italia a favorire – con i suoi buoni uffici diplomatici – una mediazione con Bruxelles o un accordo tra la Repubblica Islamica e l’amministrazione Trump, visti gli amichevoli rapporti  della premier Giorgia Meloni e il nuovo presidente, forse si potrebbe pensare che non tutto il male venga per nuocere. Oggi e domani a Ginevra si svolge il nuovo round negoziale tra Teheran e i governi di Londra, Parigi e Berlino, i tre partner europei che parteciparono all’accordo sul nucleare del 2015. Vedremo se è anche dagli esiti di questa partita in Svizzera, che parte libera dall’ingombro di un altro ostaggio europeo in Iran, che deriverà un ruolo per l’Italia. Passati i giorni delle indiscrezioni e delle ipotesi, arrivano quelli dei fatti.

Immagine in anteprima via Facebook

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