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Osaka, Biles, Williams e il tabù infranto della salute mentale: un messaggio dirompente che va oltre il mondo dello sport

20 Settembre 2021 13 min lettura

Osaka, Biles, Williams e il tabù infranto della salute mentale: un messaggio dirompente che va oltre il mondo dello sport

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"Tutti noi affrontiamo le sfide della salute mentale derivanti dalle inevitabili battute d'arresto e incertezze della vita. Viviamo anche in una cultura che glorifica l'essere maniaci del lavoro, dove i rischi di burnout sono spesso ignorati e dove, ammettiamolo, che tu sia dentro o fuori dal campo, vincere è tutto”. Sono le parole con cui la campionessa di tennis Venus Williams, dal New York Times dell’11 settembre, ha annunciato di volersi impegnare per destigmatizzare la sofferenza mentale. Seguendo e ammirando gli esempi di Naomi Osaka, Simone Biles, Michael Phelps e altri atleti, Williams ha rinforzato l’importanza di parlare delle difficoltà psicologiche che si vivono in determinati periodi o lungo il corso della vita. Comprendendo che “ammettere di essere vulnerabili non è uno scherzo", ha esortato a chiedere aiuto, e, se è frustrante constatare che molte persone non riescano a raggiungerlo, diventa necessario agire per rendere più diffusi e accessibili i servizi di supporto e cura.

L’intervento di Venus Williams è l’ultimo in ordine di tempo quest’anno e arriva da un’atleta d’élite che non sta rinunciando a impegni di carriera a causa di problemi psicologici, che, tuttavia, riconosce la pervasività dello stigma sulla salute mentale e sceglie di impegnarsi attivamente per aumentare la consapevolezza sulla sofferenza psicologica e l'attenzione da parte della collettività.

Il tabù infranto dagli atleti

È in atto anche un cambiamento culturale all'interno del mondo sportivo, se pensiamo agli atleti che negli ultimi anni hanno raccontato le loro storie di disturbi mentali per contribuire alla destigmatizzazione di questa componente della salute ancora trascurata. Michael Phelps nel nuoto, Kevin Love nella pallacanestro, Brandon Marshall nel football americano, Mardy Fish nel tennis, hanno parlato di ansia, depressione, disturbo borderline di personalità, di stigma e di come le loro vite sportive e personali siano state condizionate, legittimando il discorso sulla salute mentale e incoraggiando alla richiesta di aiuto le tante persone e i fan che possono identificarsi in loro.

Non si tratta soltanto di rivelare le proprie diagnosi di disturbi mentali ma di reclamare spazio affinché diventi socialmente accettabile parlare di salute psicologica, a partire dal mondo sportivo, dove la costruzione del mito dell’eroe comporta la degradazione di chi non vi si conforma.

Il documentario "The Weight of Gold", diretto da Brett Rapkin e prodotto in collaborazione con Michael Phelps, rivela i gravi rischi per la salute mentale a cui sono esposti gli atleti olimpici, partendo dai loro racconti, in qualche caso postumi. Come apprendiamo da Rapkin, il documentario non è ancora distribuito in Europa.

Le nuove direzioni sulla salute mentale nello sport

Occuparsi della salute mentale degli atleti è una priorità sulla quale sono intervenute di recente diverse società internazionali di medicina dello sport, istituzioni e organizzazioni governative. Il tema è arrivato quest’anno al grande pubblico solo dopo le rinunce di Naomi Osaka agli Open di tennis in Francia e di Simone Biles alla maggior parte delle gare alle Olimpiadi di Tokyo. Tali rinunce hanno scatenato reazioni scomposte sui nostri media e un’interpretazione pressoché unanimemente superficiale. Quando è andata bene, il discorso è stato limitato a descrivere la sfera individuale di ciascuna atleta con un linguaggio talvolta offensivo, ma più spesso si è ritenuto di doversi esprimere sull’opportunità di ritiri ritenuti pretestuosi, sulla legittimità di prendersi cura dei problemi psicologici, sulla necessità di rispettare i doveri che una posizione elitaria prevede. È stato del tutto trascurato il richiamo a cambiare il sistema di norme e consuetudini affinché anche i fattori psicologici e cognitivi siano inclusi nella promozione della salute e della sicurezza degli atleti durante le competizioni e nei rapporti tra atleti e media.

A febbraio 2020, la società statunitense di Medicina dello Sport (American Medical Society for Sports Medicine, AMSSM) ha pubblicato una dichiarazione di consenso elaborata allo scopo di “fornire un documento di buone pratiche basate sull'evidenza per assistere i medici di medicina dello sport e gli altri membri della rete di assistenza sportiva nell'individuazione, nel trattamento e nella prevenzione dei problemi di salute mentale negli atleti competitivi”.

Il documento approfondisce i fattori psicologici individuali, inclusi gli aspetti di personalità e le reazioni agli infortuni e alle malattie che possono essere diverse da atleta a atleta. Inoltre, analizza i fattori ambientali generali e quelli intrinseci alla cultura sportiva che hanno un impatto accertato sulla salute mentale, tra i quali le discriminazioni, il bullismo, le molestie, la transizione di carriera, il rientro da una competizione di alto livello. L’interazione tra questi fattori determina l’innesco o l’esacerbazione di disturbi specifici negli atleti, che devono essere identificati con tempestività, affrontati con competenza dagli staff tecnici e prevenuti attraverso l’implementazione delle misure necessarie. Secondo il documento, che sottolinea l’esigenza di ampliare le ricerche della medicina e della psicologia dello sport e fornisce una serie di raccomandazioni derivanti dalle evidenze attuali, è importante che la rete di tecnici sia sensibilizzata sui fattori di rischio per i disturbi mentali e monitori gli ambienti sportivi che possono predisporre o accentuare i problemi psicologici degli atleti.

Nel 2019, il Comitato Olimpico Internazionale (International Olympic Committee, IOC), ha pubblicato un documento in cui afferma che “la salute mentale non può essere separata dalla salute fisica” e che i disturbi mentali sono comuni tra gli atleti d'élite, possono avere caratteristiche specifiche rispetto alla popolazione generale, possono compromettere le prestazioni, aumentano il rischio di lesioni fisiche e ne ritardano il recupero. Le strategie di intervento, secondo il documento, devono essere rivolte sia ai singoli atleti con una presa in carico biopsicosociale sia agli ambienti in cui essi si allenano e competono.

Altre organizzazioni sportive, come le associazioni statunitensi di atleti (National Collegiate Athletic Association, NCAA) e giocatori di football (National Football League, NFL), hanno promosso iniziative e raccomandazioni per sensibilizzare sulla salute mentale degli sportivi, per sostenere le richieste di aiuto, per includere gli psicologi dello sport negli staff tecnici e per migliorare l’assistenza sanitaria agli atleti.

Il coraggio di Naomi Osaka

Non a tutti sono possibili azioni risolute, che non sono esenti da conseguenze anche se a compierle sono atlete d’élite. Quest’anno sono giovani donne nere ad averle compiute.

“Ho imparato un paio di lezioni chiave”, ha scritto Naomi Osaka l'8 luglio su Time dopo gli scossoni mediatici che si sono propagati da un continente all’altro per il suo ritiro dal Roland Garros a fine maggio.

“Lezione uno: non puoi mai accontentare tutti. […] Questioni che per me sono così ovvie a prima vista, come indossare una mascherina durante una pandemia [il riferimento è alle sette mascherine che aveva indossato durante gli US Open 2020 per ricordare sette vittime nere dell’ingiustizia razzista] o inginocchiarsi per mostrare sostegno all'antirazzismo, sono ferocemente contestate. Dico, wow. Quindi, quando ho annunciato che rinunciavo alle conferenze stampa degli Open di Francia per prendermi cura di me stessa mentalmente, avrei dovuto essere preparata a quello che è successo.

La lezione due è stata forse più arricchente. Mi è diventato evidente che letteralmente tutti soffrono di problemi legati alla loro salute mentale o conoscono qualcuno che ne soffre. Il numero di messaggi che ho ricevuto da uno spaccato così vasto di persone lo conferma. Penso che possiamo essere quasi universalmente d'accordo che ognuno di noi è un essere umano e soggetto a sentimenti ed emozioni”.

Osaka, tennista giapponese-haitiana e numero tre al mondo, si era ritirata dal secondo turno degli Open di Francia dello scorso maggio dopo aver ricevuto una multa di 15.000 dollari per la decisione di non prendere parte a una conferenza stampa successiva alla sua vittoria al primo turno. Gli organizzatori l’avevano avvertita che se avesse continuato a non presentarsi ai media avrebbero adottato sanzioni più severe.

Come aveva spiegato pubblicamente la tennista, alla quale è dedicata una miniserie omonima che racconta anche il suo attivismo contro il razzismo, “qui a Parigi mi sentivo già vulnerabile e ansiosa quindi ho pensato che fosse meglio preservarmi e saltare le conferenze stampa. L’ho annunciato preventivamente perché mi sembra che le regole siano in parte abbastanza obsolete e ho voluto sottolinearlo. Ho scritto in privato al torneo per scusarmi e per spiegare che sarei stata più che felice di parlare con loro dopo il torneo”. Erano seguite ulteriori pressioni dagli organizzatori e da qui la decisione di Osaka di rinunciare al secondo turno. Si è trattato di una scelta coraggiosa che ha fatto scattare ondate di messaggi di disprezzo e innumerevoli manifestazioni di supporto, tra le quali quelle di Michael Phelps, Michelle Obama, Lewis Hamilton (che sta scuotendo la Formula 1 con le sue azioni di denuncia del razzismo e di impulso ad aumentare la diversità nel mondo dei motori) e della regista e scrittrice Ava DuVernay ("Abbi cura di te come Naomi Osaka").

Tuttavia, l’intento di Osaka non è stato solo quello di prendersi del tempo per occuparsi della propria salute ma di portare l’attenzione generale sul fatto che, nel tennis, la rinuncia di un’atleta a una conferenza stampa viene punita duramente e i suoi problemi vengono esposti al pubblico.

“In qualsiasi altro tipo di lavoro”, prosegue la tennista nell’articolo sul Time, si ha diritto a dei giorni di malattia e non sei costretta a “divulgare i tuoi sintomi più personali”. E aggiunge “gli atleti sono esseri umani” e dovrebbero avere in alcune occasioni “il diritto di prendersi una pausa mentale dal controllo dei media senza essere soggetti a sanzioni severe”. La conclusione dell'articolo è poi dedicata a tutte le persone che affrontano problemi di salute mentale e che hanno potuto identificarsi nel suo messaggio “va bene non stare bene e va bene parlarne. Ci sono persone che possono dare aiuto […] Michael Phelps mi ha detto che parlando pubblicamente avrei potuto salvare una vita. Se è vero, ne è valsa la pena”.

Dopo le sconfitte alle Olimpiadi, Osaka ha alternato messaggi di rassicurazione a espressioni di sconforto e crollo, fino all'annuncio, agli inizi di settembre, di voler rimanere lontana dalle gare per un periodo, a seguito dell'uscita dagli US Open di tennis, sconfitta inaspettatamente dalla giovanissima canadese Leylah Annie Fernandez. "Di recente, quando vinco non mi sento felice – ha raccontato – e poi quando perdo mi sento molto triste. Non credo sia normale".

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Il monito di Simone Biles

Oltre alla solita indignazione, una diffusa identificazione e un immediato riconoscimento sono seguiti anche alle motivazioni fornite da Simone Biles riguardo alla decisione di ritirarsi da molte gare alle ultime Olimpiadi, per salvaguardare la propria salute mentale e fisica. Numerose ginnaste si sono ritrovate in quei disturbi della propriocezione, diventati noti come “twisties” o, più in generale “yips”, che sono sperimentati anche da altri atleti ma che nella ginnastica possono avere le conseguenze più gravi.

Dopo la gara di ginnastica artistica a squadre del 27 luglio scorso nella quale aveva dovuto riadattarsi ad alcuni errori commessi nel suo esercizio, Biles aveva annunciato di volersi ritirare dalla finale: “Non mi fido di me stessa tanto quanto prima. Forse è per l’età. Sono più nervosa quando faccio ginnastica, e sento anche di non divertirmi più così tanto. Non lo sto più facendo per me, quanto per altre persone”. E aveva aggiunto: “Dobbiamo proteggere le nostre menti e i nostri corpi e non limitarci a uscire e fare ciò che il mondo vuole che facciamo. Non siamo solo atleti. Siamo persone alla fine della giornata e a volte devi solo fare un passo indietro. Non vogliamo che ci portino via in barella”. Non si è trattato di fragilità ma di consapevolezza dei rischi che si possono correre quando si verificano disturbi propriocettivi, in cui si perde la sincronia tra mente e corpo: “Non volevo uscire e fare qualcosa di stupido e farmi male, molti atleti che ne parlano apertamente sono stati davvero d’aiuto” aveva concluso Biles.

La propriocezione è la capacità del nostro cervello di percepire la posizione del nostro corpo nello spazio. Tale percezione ci permette di adattare i movimenti ai segnali che arrivano dai recettori presenti nei muscoli, nei tendini, nei legamenti e di compiere più movimenti simultaneamente senza focalizzarci su ciascuno di essi. Ad esempio, la propriocezione ci consente di correre senza guardare i nostri piedi e di continuare a farlo anche quando cambia la consistenza del suolo o se incontriamo delle scale, senza dover pensare a come ricalibrare ogni appoggio. Gli atleti, perfezionandola con gli allenamenti, arrivano a un’acuità propriocettiva molto elevata. La perdita anche temporanea di propriocezione durante un’azione complessa genera errori che, nel caso di altri sport, possono compromettere un tiro, una schiacciata o un lancio ma nella ginnastica, data la velocità, l’equilibrio e l’altezza che ne caratterizzano i movimenti, può causare un infortunio sugli attrezzi o una caduta nell’uscita. La ginnasta può sentirsi disorientata per non riuscire a percepire la propria posizione rispetto al suolo e per non essere in grado di attivare l’atterraggio pianificato. I “twisties” possono essere causati da fattori fisici e psicologici e manifestarsi per alcuni giorni o per periodi più lunghi.

Esserne consapevoli e prendersi lo spazio per superarli preserva dagli infortuni anche molto gravi a cui possono andare incontro le ginnaste. La rivelazione di Simone Biles ha trovato vasta eco nel mondo della ginnastica: nei giorni successivi al suo annuncio si sono susseguiti i racconti delle esperienze, talvolta atterrite, di disturbi propriocettivi. Ad esempio, si può leggere che “la britannica Claudia Fragapane è finita in ospedale in primavera mentre si stava preparando per i Giochi. La svizzera Giulia Steingruber, bronzo al volteggio a Rio 2016 e presente a Tokyo 2021, ne ha parlato nella sua biografia e si è sempre sentita soffocare da questa criticità. La statunitense Lauren Hernandez, argento alla trave a Rio 2016, ne ha parlato in maniera terrorizzata, definendolo soprattutto come un problema da volteggio e corpo libero”.

Una volta spenti i riflettori su di lei, Simone Biles, a Tokyo, ha continuato ad allenarsi e ad affrontare i “twisties” per tornare nella gara individuale alla trave dove il 3 agosto ha vinto la medaglia di bronzo. “Non mi aspettavo di andare via con una medaglia”, ha commentato. “Ero solo felice di essere in grado di esibirmi, indipendentemente dal risultato” e ha aggiunto “l'ho fatto per me e solo per me. Ho appena finito e mi sono divertita”.

L’ex ginnasta e ora allenatrice Dominique Moceanu, come molti altri atleti, ha elogiato la decisione di Biles di fare un passo indietro dicendo: "Non vale la pena rischiare il tuo corpo e la tua mente" e raccontando la propria esperienza senza possibilità di scelta. Prima delle Olimpiadi del 1996, allora quattordicenne, Moceanu era svenuta in palestra dopo un periodo in cui aveva dovuto continuare ad allenarsi, nonostante il dolore provocato da una frattura da stress alla tibia: "Non mi è stato permesso di dire che soffrivo fino a quando non sono crollata". L’ex ginnasta ricorda che allora, "l'unico modo in cui potevi riposarti era un fermo totale o qualcosa per cui non potevi camminare. Altrimenti ci si aspettava che ti allenassi a pieno regime", e che era "terrorizzata da quello che [la controversa allenatrice] Márta Károlyi mi avrebbe fatto dopo. Non mi importava nemmeno del mio benessere, a dire il vero, perché non importava mai a nessuno”.

Erano gli anni degli abusi e delle violenze sessuali di Larry Nassar, medico della nazionale statunitense di ginnastica artistica dal 1996 fino al 2017, che nel 2018, dopo le accuse di oltre 150 donne e ragazze è stato pluricondannato al carcere a vita. I processi hanno scoperchiato un sistema di soprusi e molestie perpetrati o taciuti in tutta la nazionale di ginnastica statunitense che, travolta dallo scandalo, ha cambiato repentinamente la propria organizzazione e i propri membri. Gli arresti hanno coinvolto anche l'allora CEO Steve Penny, che ha lasciato la nazionale USA Gymnastics in una situazione di connivenze, complicità e omertà non ancora del tutto smantellate.

Il documentario Atleta A ricostruisce i fatti drammatici rivelati grazie al coraggio delle prime giovanissime ginnaste statunitensi che dal 2015 hanno denunciato le molestie sessuali e al credito che hanno ricevuto dai giornalisti del quotidiano di Indianapolis IndyStar.

Simone Biles, che ha subito gli abusi di Nassar, ha fatto della sua stessa presenza alle Olimpiadi di Tokyo un’azione di denuncia e di rottura rispetto agli anni precedenti. Ad aprile aveva detto di aver sentito "come se dopo tutto quello che è successo, dovessi tornare allo sport per essere una voce, per far accadere il cambiamento. Perché sento che se non fosse rimasta una sopravvissuta in questo sport, avrebbero semplicemente messo tutto da parte".

Quella voce rimasta ferma nel dolore e nella tensione dell'audizione del 15 settembre alla Commissione Giustizia del Senato degli Stati Uniti che sta esaminando le indulgenze dell'FBI nel condurre le indagini sugli abusi perpetrati da Nassar su centinaia di bambine e ragazze. Davanti alla Commissione Biles ha dichiarato: "Non voglio che un'altra giovane ginnasta, atleta olimpica o qualsiasi individuo sperimenti l'orrore che io e centinaia di altre abbiamo sopportato". Ha ripreso fiato, fermando le lacrime e rassicurando i capelli dietro l'orecchio, poi ha aggiunto, leggendo il suo intervento: "Per essere chiara, incolpo Larry Nassar e incolpo un intero sistema che ha permesso e perpetrato i suoi abusi. I comitati di USA Gymnastics e delle nazionali Olimpica e Paralimpica sapevano che venivo abusata. Nassar è dove deve essere ma chi lo ha abilitato deve darne conto. Se così non fosse, sono convinta che tutto questo continuerà ad accadere nello sport olimpico".

Ridurre le decisioni di Simone Biles e di Naomi Osaka a una questione di fragilità individuale vuol dire non vedere la loro spinta a ridefinire dei modelli di sport che hanno soppresso o compromesso le vite di molte persone.

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L'articolo di Venus Williams rafforza l'accusa a un sistema culturale minato da rischi per la salute mentale e incita ad assumersi la responsabilità di indurre cambiamenti strutturali e a mettere la propria visibilità al servizio della promozione della salute, quella fisica e mentale, non c'è l'una senza l'altra.

Un messaggio che si propaga dentro e fuori il mondo sportivo.

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Immagine anteprima: Naomi Osaka - si.robi, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons; Simone Biles - Agência Brasil Fotografias, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

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