Sea Watch: perché le critiche all’ordinanza del Gip non reggono e le responsabilità dell’Italia
21 min letturaAggiornamento 23 dicembre 2021: "Carola Rackete ha agito nell'adempimento del dovere di salvataggio previsto dal diritto nazionale e internazionale del mare, perché non si poteva considerare luogo sicuro il porto di Tripoli". Con questa motivazione il Gip del tribunale di Agrigento ha archiviato su richiesta dei pubblici ministeri l'inchiesta a carico della comandante tedesca accusata di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina dopo che il 26 giugno 2019 era entrata senza autorizzazione nelle acque italiane con la nave Sea Watch 3, che ospitava da oltre 10 giorni 42 naufraghi soccorsi in mare nella zona SAR (search and rescue) libica.
Lo scorso maggio, Rackete era stata già definitivamente prosciolta dall'accusa di resistenza a pubblico ufficiale e violenza a nave da guerra, legate al presunto speronamento di una motovedetta della Guardia di finanza quando la nave decise di forzare il blocco nel porto di Lampedusa il 29 giugno, riporta il Fatto quotidiano.
Aggiornamento 20 febbraio 2020: A sette mesi di distanza la Cassazione chiude definitivamente la vicenda relativa all’arresto della comandante Rackete. Secondo il provvedimento della Suprema Corte la comandante ha adempiuto alle disposizioni sul salvataggio in mare (SAR, Search and rescue) come stabilito dalle Convenzioni internazionali (vincolanti per l’Italia) e quindi è corretta la decisione del Gip di Agrigento che il 2 luglio 2019 non convalidava l’arresto della comandante della Sea Watch.
Secondo la Cassazione “l'obbligo di prestare soccorso non si esaurisce nell'atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l'obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro”. Cioè la nave è solo il tramite temporaneo del soccorso, che non può dirsi completo se non con lo sbarco in un luogo sicuro (POS, Place of safety). La nozione di "luogo sicuro" non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali, tra i quali il diritto di presentare domanda di protezione internazionale secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, operazione che non può certo essere effettuata sulla nave.
La Corte ha quindi rigettato il ricorso della Procura e ha superato anche la questione della “nave da guerra”, specificando che “le navi della guardia di finanza sono certamente navi militari, ma non possono essere automaticamente ritenute anche navi da guerra”, cosa che avviene se al comando vi è un ufficiale della Marina militare (nel caso specifico era invece un maresciallo della Finanza). In conclusione, Rackete ha agito in maniera “giustificata” dal rischio di pericolo per le vite dei naufraghi a bordo della sua nave.
I fatti salienti
12 giugno del 2019
La nave Sea Watch 3, battente bandiera olandese, effettua il soccorso di 53 persone nella zona SAR (search and rescue) libica. Una segnalazione dell’aereo Colibri avvertiva di una potenziale situazione di pericolo. La Sea Watch, più vicina al punto di evento SAR, soccorreva i naufraghi, informando i centri di coordinamento dei soccorsi di: Italia, Olanda, Malta, e Libia. La Libia dichiarava di assumere il controllo dell’evento SAR, ma la motovedetta libica, una volta raggiunto il punto, si allontanava senza dare alcuna indicazione alla Sea Watch. Quest’ultima, quindi, procedeva a richiedere alle autorità di Italia, Malta, Olanda e Libia, l’indicazione del POS (place of safety). La Libia assegnava il POS al porto di Tripoli, la Sea Watch rispondeva che la Libia non è considerata “punto di soccorso sicuro”, quindi richiedeva un diverso POS, o il trasbordo su altra unità. L’Italia, invece, rispondeva di non essere l’autorità competente, senza però indicare alcun POS. La Sea Watch si dirigeva, quindi, verso nord.
13 giugno
Il Ministero dell’interno italiano inviava una comunicazione alla Sea Watch intimando di non entrare in acque italiane, perché l’ingresso sarebbe stato considerato “non inoffensivo”. La Sea Watch si avvicinava a Lampedusa pur rimanendo in acque internazionali con manovra “up and down”.
14 giugno
Veniva pubblicato in G.U. il decreto legge 53/2019 (decreto sicurezza bis) che modificava il T.U. in materia di immigrazione (D.Lgs 286/1998), inasprendo le sanzioni per alcune fattispecie delittuose legate all’immigrazione clandestina. In particolare l’art. 1 recita: “Il Ministro dell'interno, Autorità nazionale di pubblica sicurezza ai sensi dell'articolo 1 della legge 1° aprile 1981, n. 121, nell'esercizio delle funzioni di coordinamento di cui al comma 1-bis e nel rispetto degli obblighi internazionali dell'Italia, può limitare o vietare l'ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all'articolo 19, comma 2, lettera g), limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, ratificata dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689. Il provvedimento e' adottato di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, secondo le rispettive competenze, informandone il Presidente del Consiglio dei ministri”.
15 giugno
In attuazione della nuova formulazione dell’art. 1 del decreto sicurezza bis, veniva emanato il Provvedimento interministeriale a firma del Ministro dell’Interno, di concerto col Ministro della Difesa e quello delle Infrastrutture e Trasporti, col quale veniva disposto il divieto di ingresso, transito e sosta della nave Sea Watch 3 nel mare territoriale nazionale.
Veniva predisposto un sopralluogo sulla Sea Watch, e nei giorni successivi alcuni naufraghi sbarcavano per motivi sanitari. La comandante della Sea Watch reiterava più volte la richiesta all’Italia di assegnazione di un POS, allegando rapporti dettagliati sulla situazione dei naufraghi a bordo. L’Italia perseguiva nel non indicare alcun POS.
26 giugno
La Sea Watch si dirigeva verso le acque territoriali, e due motovedette della G.d.F. le intimavano l’alt, ordinando di uscire dalle acque territoriali in base al provvedimento interministeriale di cui sopra. La Sea Watch non ottemperava e si fermava solo in vicinanza del porto di Lampedusa, chiedendo dove ormeggiare. La G.d.F. saliva a bordo per controlli ed acquisizioni documentali, invitando la nave ad attendere disposizioni.
28 giugno
Veniva aperto fascicolo di indagini a carico della comandante Carola Rackete da parte della procura di Agrigento.
29 giugno
La Sea Watch avviava i motori e si dirigeva verso Lampedusa. Giunta all’ormeggio, un’unità della G.d.F. si frapponeva fra la banchina e la motonave nel tentativo di impedire l'attracco, comunque la Sea Watch ormeggiava urtando la nave della GDF, che però riusciva a sfilarsi e ad allontanarsi. La comandante veniva arrestata dalla GDF e posta agli arresti domiciliari.
L’ordinanza del Gip
La Procura della Repubblica di Agrigento chiede la convalida dell’arresto della comandante della Sea Watch, e l’applicazione del divieto di dimora in Agrigento. Con l’ordinanza emessa il 2 luglio 2019, il Giudice per le indagini preliminari di Agrigento, invece, non convalidando l’arresto ordina la scarcerazione della comandante. Ovviamente si tratta di un provvedimento interlocutorio, limitato all’applicazione della misura cautelare richiesta e non riguardante il merito dell'accusa.
I reati contestati sono:
- Il delitto di cui all’art. 1100 del codice della navigazione, perché “compiva atti di violenza nei confronti della nave da guerra” della GDF. Il riferimento è al mancato rispetto dell’ordine di fermarsi e non entrare nel porto di Lampedusa, e di aver urtato la motovedetta della GDF.
- E il delitto di cui all’art. 337 c.p. perché “usava violenza per opporsi ai pubblici ufficiali presenti a bordo della vedetta” della GDF, mentre compivano atti di polizia marittima. Il riferimento è alle stesse condotte di cui all’art. precedente.
La motivazione richiama implicitamente un altro provvedimento del tribunale di Agrigento (sentenza del 7 ottobre 2009, caso Cap Anamur), riprendendone degli stralci. Si tratta di una vicenda con molte analogie con quella della Sea Watch, anche se i reati contestati erano differenti. Il comandante della nave Cap Anamur e l'equipaggio erano imputati di aver compiuto attività diretta a favorire l’ingresso clandestino nel territorio nazionale di migranti (che non avevano i requisiti per l’ingresso nel territorio italiano). La vicenda è del 2004, e nel 2010 gli imputati sono stati tutti assolti per “adempimento di un dovere”, cioè il fatto, pur commesso, non costituisce reato.
Allo stesso modo anche il Gip di Agrigento conclude nel senso che il comportamento della comandante della Sea Watch è scriminato dall’adempimento di un dovere imposto da una norma di diritto internazionale.
Il quadro normativo
Per comprendere la decisione del Gip occorre ricostruire il quadro normativo in materia di soccorso in mare. In particolare occorre evidenziare che lo Stato italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. Sono norme derivanti da varie fonti, come ad esempio fonti comunitarie (Unione europea), oppure trattati o convenzione internazionali. Tali norme sono richiamate a livello costituzionale dall’art. 10.
Art. 10. L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
L’art. 10 si riferisce appunto alle norme di diritto internazionale sancendone l'obbligatorietà all’interno dell’ordinamento italiano. È emanazione del fondamentale principio pacta sunt servanda (cioè i patti vanno rispettati), come da art. 26 della Convenzione sul diritto dei trattati di Vienna (1969): “Ogni trattato in vigore vincola le parti e deve essere da esse eseguito in buona fede”. Tali accordi assumono un carattere sovraordinato rispetto alle norme interne, come previsto dall’art. 117 Cost. (livello subcostituzionale). Il diritto internazionale, infatti, si basa sulla fiducia tra gli Stati e il mancato rispetto di accordi firmati e ratificati ha sempre delle conseguenze importanti per lo Stato in violazione.
Art. 117 Cost. La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali
La fonte primaria del diritto del mare è la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare di Montego Bay (UNCLOS 1982), ratificata da 164 Stati, compreso l’Italia nel 1994. L’art. 98 è la norma principale in materia, pienamente sussunta nell’ordinamento italiano.
Articolo 98 Convenzione Montego Bay - Obbligo di prestare soccorso
1. Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l'equipaggio o i passeggeri:
a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo;
b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa;
c) presti soccorso, in caso di abbordo, all'altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all'altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa è immatricolata, e qual'è il porto più vicino presso cui farà scalo.
2. Ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali.
L’art. 98, quindi, impone ad ogni comandante di prestare soccorso alle persone in pericolo in mare nel modo più veloce possibile. Il secondo comma prevede che gli Stati creino un servizio permanente di ricerca e soccorso (SAR) in mare, e che collaborino con gli Stati adiacenti. Tale norma è espressione del principio fondamentale della “solidarietà in mare”, come sancito dalla medesima Convenzione, e rientra tra le norme che non possono essere derogate da accordi tra gli Stati. L’art. 311 dispone che sono salvi soltanto gli altri accordi internazionali compatibili con la Convenzione stessa.
A tale Convenzione si affiancano altre norme internazionali, come la Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo (Convenzione di Amburgo o SAR), entrata in vigore nel 1985, che asserisce che “Tutti i soggetti, pubblici o privati informati di avaria o difficoltà per imbarcazioni o persone in mare, devono intervenire quando ci siano vite in pericolo”. Tale convenzione si basa sul principio della cooperazione internazionale e stabilisce che il riparto delle zone SAR avvenga d’intesa con gli Stati interessati. Anche la Convenzione SAR impone uno specifico obbligo di soccorso e assistenza alle persona in mare, “indipendentemente dalla nazionalità dallo stato di tale persona o dalle circostanze in cui la persona si trova”, quindi senza alcuna distinzione, nemmeno di stato giuridico, imponendo altresì il dovere di sbarcare i naufraghi in un “luogo sicuro”.
Al punto 3.1.9 la Convenzione SAR dispone: “Le Parti (cioè gli Stati, nda) devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile”.
È da notare che all’epoca l’Italia fu il primo paese del Mediterraneo a stipulare accordi con i paesi frontisti.
La Convenzione SAR trova corrispondenza negli articoli 68 e 70 del Codice della navigazione.
Art. 69. (Soccorso a navi in pericolo e a naufraghi). L'Autorità marittima, che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio o di altro sinistro, deve immediatamente provvedere al soccorso, e, quando non abbia a disposizione ne' possa procurarsi i mezzi necessari, deve darne avviso alle altre autorità che possano utilmente intervenire.
Art. 70. (Impiego di navi per il soccorso). Ai fini dell'articolo precedente, l'autorità marittima o, in mancanza, quella comunale possono ordinare che le navi che si trovano nel porto o nelle vicinanze siano messe a loro disposizione con i relativi equipaggi.
Poi c’è la Convenzione di Londra (SOLAS) firmata nel 1974 e resa esecutiva in Italia nel 1980, che impone al comandante di una nave di prestare soccorso alle persone in pericolo in mare.
Il quadro normativo, che il Gip ricostruisce solo sinteticamente, evidenzia, quindi, un obbligo positivo in capo agli Stati di predisporre tutte le misure e di adottare tutte le prassi per garantire una salvaguardia effettiva della vita umana in mare. I comandanti delle navi, indipendentemente dalla bandiera della stessa, che entrino in contatto con persone che si trovino in pericolo o che ricevano chiamate di soccorso sono obbligati ad intervenire, e chi si rifiuta si rende colpevole di omissione di soccorso (art. 1158 Cod. Nav.).
La conclusione pacifica è che il comandante della Sea Watch aveva un doppio obbligo:
- L’obbligo di ricercare le persone in pericolo segnalate in mare, e di prestare loro soccorso, indipendentemente dal fatto che siano migranti o meno (dal loro status giuridico), nel momento in cui gli viene segnalata la situazione di pericolo o comunque ne viene a conoscenza.
- L’obbligo di condurre i naufragi in una località che sia davvero sicura.
Solo in tal modo il comandante viene sollevato dalle responsabilità giuridiche derivanti dalle norme internazionali e interne.
Questo è chiarito anche nella relativa pagina della Guardia Costiera: “L'obbligo di prestare soccorso dettato dalla convenzione internazionale di Amburgo, non si esaurisce nell'atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta anche l'obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. "place of safety")”. Lo Stato deve coadiuvare al massimo il comandante della nave, non ostacolarlo.
Place of safety
L'Organizzazione marittima internazionale (IMO, dall'inglese International Maritime Organization) è l'istituto della Nazioni Unite che si occupa di sviluppare i principi e le tecniche della navigazione marittima internazionale al fine di promuovere la progettazione e lo sviluppo del trasporto marittimo internazionale rendendolo più sicuro ed ordinato. L’IMO, ad esempio, definisce i protocolli per le indagini sugli incidenti marittimi, gli standard per gli abbordi in mare, per le dotazioni e le impiantistiche di sopravvivenza e salvataggio (SOLAS). L’IMO emana linee guida e emendamenti alle Convenzioni internazionali che sono vincolanti.
Con le linee guida della IMO (e gli emendamenti alle Convenzioni) viene, infatti, definito il concetto di POS, place of safety (risoluzione 153/2004, 155/2004 e in particolare le risoluzione Maritime Safety Commitee 167 del 2004, Guidelines on the treatment of persons rescued at sea). Il POS è “la località in cui le operazioni di soccorso si considerano concluse e dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non sia minacciata; dove le necessità umane primarie (cibo, alloggio, servizi medici) possano essere soddisfatte e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale” (6.12).
Le linee guida chiariscono anche (6.13) che la nave soccorritrice non può essere considerato un “luogo sicuro” solo perché in quello specifico momento i naufraghi non sono in immediato pericolo, precisando che la nave soccorritrice, quindi, è solo un “luogo sicuro temporaneo”. I governi devono, continua l’emendamento, fare in modo che i naufraghi rimangano il minor tempo possibile sulla nave soccorritrice.
Le linee guida stabiliscono inoltre che “lo Stato responsabile per la regione SAR in cui sono stati recuperati i sopravvissuti deve occuparsi di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito”. Le linee guida sono vincolanti per l’Italia.
In sintesi il “luogo di sbarco” deve essere un “luogo sicuro”, nel senso che deve garantire, oltre alla integrità fisica dei naufraghi anche la possibilità di fare valere i diritti fondamentali, a partire dalla richiesta di asilo. Non può essere qualificato “luogo sicuro” un porto di sbarco nel quale i naufraghi vengano arrestati e detenuti dalle autorità di polizia senza un controllo giurisdizionale e senza potere accedere all’esercizio effettivo dei propri diritti fondamentali. Le linee guida insistono particolarmente nel ruolo attivo dello Stato costiero nel sollevare la nave soccorritrice dal “peso” non indifferente di gestire a bordo le persone salvate.
Il concetto di Place of Safety è strettamente legato al principio di non respingimento affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra. L'interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo stabilisce che gli Stati devono astenersi dal rinviare (anche indirettamente) una persona in uno Stato dove potrebbe correre il rischio reale di essere sottoposta a tortura o a pene o a trattamenti inumani o degradanti. Né gli Stati possono rinviare una persona in territori dove la loro vita è minacciata per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale. Sempre secondo la CEDU le azioni eseguite da una nave possono chiamare in causa la responsabilità di uno Stato interessato quando questo Stato non garantisce lo sbarco in un porto sicuro, porto sicuro che non è quello dello Stato di bandiera né quello più vicino geograficamente. Il POS può essere individuato solo in uno Stato che garantisca effettivamente l’applicazione della Convenzione di Ginevra e delle altre Convenzioni internazionali a tutela dei diritti dell’uomo. La Libia, ad esempio, non ha mai aderito alla Convenzione di Ginevra.
In estrema sintesi la nave che materialmente effettua il soccorso è solo il tramite temporaneo del soccorso (luogo sicuro provvisorio, emendamenti IMO, 6.14), che è a carico della nazione competente. Il comandante della nave rimane, però, responsabile delle persone soccorse fino a quando dette persone non siano state portate in un luogo effettivamente sicuro. Insomma, lasciare sulla nave i naufraghi, oppure portarli in un luogo non sicuro non solleva in alcun modo il comandante della nave dalle sue responsabilità nei confronti dei naufraghi, né lo Stato.
In tal senso gli obblighi scaturenti dalle norme internazionali sono rivolte a due soggetti differenti. Da un lato il comandante della nave che effettua materialmente il soccorso, dall’altro lo Stato che ha una serie di specifici obblighi consistenti nel sollevare la nave soccorritrice dal “peso” di gestire i naufraghi a bordo. È evidente che la valutazione relativa a tale “peso” non deve necessariamente concretarsi in una emergenza medica grave, ma è una banale valutazione in termini di mantenimento, vitto, assistenza medica ecc…. (sentenza trib. Agrigento 2010).
È importante notare che i due ordini di obblighi scaturenti dalla normativa internazionale sono del tutto sciolti dalle questioni sulla ripartizione dei naufraghi qualora siano essi anche migranti, ripartizione che è determinata da altre convenzioni internazionali, ma che non interessano in alcun modo la fase SAR. Ad esempio le linee guida IMO stabiliscono che anche le operazioni di identificazione e definizione dello status delle persone soccorse non vanno effettuate se determinano degli ostacoli o ritardi alle operazioni di sbarco. Gli obblighi in materia di immigrazione non limitano in alcun modo gli obblighi del comandante della nave, imponendo, ad esempio, di portare i migranti in un certo Stato piuttosto che in un altro, né l’obbligo a carico della Stato competente per la SAR, il quale è tenuto a coadiuvare in tutto e per tutto il soccorso e il trasferimento al POS.
A conferma l’art. 10 ter del D. Lgs 286/98 (T.U. sull’immigrazione) che recita: “Lo straniero rintracciato in occasione dell'attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell'ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all'articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresì effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed è assicurata l'informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell'Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito”.
Cioè lo Stato ha l’obbligo “di soccorrere e fornire prima assistenza, allo straniero che abbia fatto ingresso, anche non regolare, nel territorio dello Stato” (ordinanza GIP).
Si può quindi sintetizzare la situazione in questo modo:
- Il comandante della Sea Watch una volta ricevuta la segnalazione della presenza di naufraghi è obbligato a recuperare i naufraghi e caricarli a bordo.
- Il comandante deve quindi chiedere un POS.
- Una volta ricevuta l’indicazione del POS il comandante ha l’obbligo di valutare se il POS sia effettivamente un “luogo sicuro”, altrimenti rimane comunque responsabile del destino dei naufraghi.
- La Libia è l’unico Stato (tra i 4 contattati) ad aver indicato un POS, cioè Tripoli;
- In base ad una serie di valutazioni esterne (es. la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra sulla stato dei rifugiati, né ha preso parte alle principali Convenzioni internazionali in materia di diritti umani contro le torture, le raccomandazioni del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, recenti pronunce giurisprudenziali come la sentenza del GUP di Trapani del 3 maggio 2019, ecc...) la Libia non è identificabile come POS (vedi anche altro articolo su ValigiaBlu).
- L’Italia non ha mai indicato alcun POS, limitandosi a intimare alla Sea Watch di non entrare in acque territoriali, pur essendo lo Stato competente ai sensi della SAR (escluso la Libia ovviamente).
- Il comandante della Sea Watch non ha avuto altra scelta che identificare da sé il POS e quindi portare i naufragi al POS così determinato.
Sintetizzando in maniera brutale:
- Il comandante della Sea Watch ha ottemperato agli obblighi derivanti dai trattati internazionali, salvando i naufragi e portandoli al POS.
- L’Italia non ha ottemperato agli obblighi derivanti dai trattati internazionali, rifiutandosi di indicare un POS, rifiutandosi di cooperare nel salvataggio dei naufraghi e nello sbarco, addirittura frapponendo ostacoli allo sbarco dei naufraghi.
Le critiche all’ordinanza
Il provvedimento del Gip di Agrigento nella sua motivazione è stringata ma fa riferimento o richiama altri provvedimenti e norme nazionali ed internazionali. La prima considerazione da fare, quindi, è che una lettura del provvedimento non è sufficiente per comprendere il percorso argomentativo del giudice.
La seconda considerazione è che parte della motivazione ricalca un precedente provvedimento (sentenza del 15 ottobre 2010, caso Cap Anamur), per cui non si tratta affatto di un provvedimento estemporaneo di un singolo giudice, bensì di un percorso argomentativo che parte da lontano, e che ritrova le sue basi nelle norme internazionali (citate). Il Gip di Agrigento si muove, quindi, nel solco di precedenti decisamente ben motivati.
Le critiche al provvedimento sono state molte. Ad esempio si è scritto che il Gip avrebbe rilevato un contrasto tra norme (norme internazionali recepite nell’ordinamento italiano) e il decreto sicurezza bis, e che in presenza di una situazione di questo tipo il giudice non può disapplicare la legge ma deve sollevare la questione al giudice delle leggi, la Corte Costituzionale. In realtà il Gip ha escluso un conflitto tra norme, sostenendo che il decreto sicurezza bis non si applica semplicemente al caso in questione (salvataggio di naufraghi) ma si applica ai soli casi di traffico di migranti (“limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti”). La nave, infatti, non era impegnata nel “carico o lo scarico di materiali, valuta o persone in violazione delle leggi e dei regolamenti doganali, fiscali, sanitari o di immigrazione vigenti nello Stato costiero” (nel qual caso la sua attività sarebbe stata in violazione della Convenzione di Montego Bay) bensì in operazioni di search and rescue imposte dalle Convenzioni internazionali. Il comandante impegnato in una SAR è soggetto agli obblighi della normativa internazionale specifica, ed è obbligato a salvare i naufraghi e trasportarli in un POS che sia realmente sicuro. La normativa in materia di regolamentazione dei migranti casomai interviene in un secondo momento, dopo lo sbarco.
Ai migranti, infatti, deve essere garantito il diritto di essere sottoposti alle verifiche amministrative necessarie per stabilirne l’identità e la provenienza. Ma queste non sono incombenze a carico del comandante della nave soccorritrice, ma a carico dello Stato. Quindi la normativa impone prima di procedere allo sbarco (o al trasbordo su altra nave), cioè a mettere in sicurezza i naufraghi, sollevando la nave soccorritrice da responsabilità nei loro confronti, e poi si attivano le procedure relative alla ripartizione e gestione dei migranti. Lo Stato italiano, nel caso specifico, eccetto alcuni migranti sbarcati per motivi di salute, si è limitato a rifiutarsi di cooperare con la nave senza indicare alcun POS, mancando proprio ai suoi obblighi in materia di SAR.
Questi obblighi nascono dalle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, e costituiscono un dato normativo al quale deve conformarsi l’intero ordinamento italiano. Al giudice spetta in prima battuta l'interpretazione delle norme e quindi, prima di sollevare una questione di costituzionalità, come da giurisprudenza dominante della Consulta, deve rinvenire un'interpretazione delle norme che sia conforme alla Costituzione e ai trattati internazionali. Cosa che ha fatto il Gip di Agrigento.
Molte discussioni si sono avute sul POS e sulla sua individuazione. Questo è un falso problema perché, come detto, si tratta di obblighi a carico dello Stato. Vi sono convenzione che stabiliscono la ripartizione delle aree SAR e quindi l’individuazione del POS. Ma l’individuazione del POS non avviene tramite i criteri stabiliti dal Regolamento di Dublino e norme collegate, che si limita ad individuare lo Stato competente a esaminare le richieste di asilo o comunque la ripartizione dei migranti. Cioè, anche se lo Stato destinatario finale è diverso dall’Italia (rimanendo al caso specifico) questo non incide assolutamente sulla individuazione del POS come luogo di sicurezza effettivo dove sbarcare i naufraghi/migranti. Insomma, le questioni relative all’individuazione del POS sono secondarie rispetto all’obbligo primario derivante dalla normativa SAR. In tale prospettiva, poi, occorre non dimenticare che l’Italia non ha mai indicato alcun POS, con ciò contravvenendo proprio a tale normativa.
Come pure si è sostenuto che la comandante avesse scelto discrezionalmente il POS. Cosa non vera, perché la comandante ha contattato ben 4 Stati chiedendo un POS, laddove l’unico POS indicatogli (dalla Libia) era palesemente (sulla base di valutazioni già effettuate da altri, compreso il Tribunale di Agrigento) un porto non sicuro. Nessuno degli altri Stati ha indicato un POS, nemmeno l’Italia, pur essendone obbligata in base alle norme internazionali. E quindi alla fine la comandante ha dovuto fare la sua valutazione. L’errore che si fa in questo caso è nel ritenere che al comandante non deve interessare il luogo di sbarco, laddove invece il comandante è responsabile del destino dei naufragi e viene sollevato da responsabilità solo nel momento in cui li porta in un “porto sicuro”. Piuttosto, nel caso specifico, è mancata la cooperazione da parte dell’Italia, anch’essa imposta dalle norme internazionali. A tal proposito va evidenziato che gli emendamenti IMO del 2004 stabiliscono che anche i naufraghi possono concorrere ad indicare il luogo di sbarco sicuro e comunicarlo al comandante della nave sulla quale si trovano, il quale, sulla base degli elementi a sua conoscenza ha il potere finale di stabilire la rotta della nave.
Altri hanno sollevato dubbi sulla questione della “nave da guerra”, sostenendo che una motovedetta della Finanza sarebbe effettivamente una nave da guerra nonostante il Gip non la consideri tale. Infatti vi è una sentenza della Cassazione del 2006 che la qualifica come tale sulla base di una legge del 1956. Il Gip rimarca, però, che la Corte Costituzionale, cioè il giudice delle leggi, precisa che le navi della G.d.F. sono navi da guerra solo “quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia una autorità consolare” (sent. 35/2000). Come riportato nell’altro articolo di ValigiaBlu sulla vicenda, secondo l’ex comandante della Guardia Costiera, De Falco, la convenzione di Montego Bay all'articolo 29 «definisce cos’è la nave da guerra: dice che la nave da guerra è una nave militare, come quella della finanza, purché sia comandata da un Ufficiale di Marina. Non da un finanziere. Allora, io credo se ne possa discutere, ma in base alle regole internazionali la nave da guerra è un’altra cosa». In effetti se ne può discutere, ma questo elemento è probabilmente il meno rilevante all’interno della intera vicenda.
Conclusioni
In conclusione il Gip di Agrigento ha ritenuto che il comandante della Sea Watch avesse agito nell’esecuzione di un dovere fondamentale imposto da una norma di diritto internazionale, o quanto meno nella ragionevole persuasione di trovarsi in tali condizioni. In tal senso, quindi, stabiliva che le condotte fossero scriminate.
Non si tratta, come pure qualcuno ha adombrato, di uno sconfinamento del potere giudiziario nel campo della regolamentazione dei fenomeni migratori, anzi la particolarità dell’ordinanza sta proprio nel fatto che il tutto viene ricondotto nel suo giusto alveo, la valutazione di un singolo evento che, nello specifico è stato configurato come operazione di salvataggio in mare. Le considerazioni relative alla gestione dei migranti non sono entrate nel provvedimento in questione.
Di contro, non si può non osservare che il rinvio di migranti in porti non sicuri di fatto significa consentire agli Stati di liberarsi dagli obblighi derivanti dalle Convenzioni internazionali col pretesto delle operazioni di controllo delle frontiere, e cioè subordinare alla difesa dei confini la vita delle persone. Che è esattamente quello che sta succedendo oggi in Italia.