L’OMS vuole inserire la dipendenza da videogiochi tra i disturbi riconosciuti: evidenze scientifiche o pressioni politiche?
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“Ok Dottor Tedros questa è una faccenda estremamente seria ed è motivo perché l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) interrompa immediatamente l’inclusione del Gaming Disorder nell’ICD11. Questo non è il modo di fare strategie sulla salute mentale basate sulle evidenze”.
Queste le parole del Professor Andrew Przybylski, Direttore della Ricerca presso l’Oxford Internet Institute, in un tweet (poi rimosso) al Direttore Generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Dr. Adhanom Tedros. L’argomento della discussione è il prossimo inserimento - da Gennaio 2022 - del Gaming Disorder o Disturbo da Dipendenza da Videogiochi nel manuale ICD11 (International Classification of Disease). Dall’anno prossimo l’abuso di gaming (secondo criteri diagnostici) diventerà ufficialmente un problema sanitario, ma c’è uno sviluppo nella trama di questa storia che non è ancora pervenuto alla stampa italiana.
Per comprendere la “gravità” della situazione, bisogna riavvolgere il nastro. I dubbi che il gaming possa avere un impatto sulla salute hanno una lunga storia, che si concretizza dapprima con l’inserimento dell’Internet Gaming Disorder (IGD) nel DSM V (Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali) da parte dell’American Psychiatric Association nel 2013. Se siete confusi dalla definizione non è un caso. Il nome di questa condizione avvicina internet e videogiochi, facendo insorgere il dubbio di problemi legati forse solo al gaming multiplayer online. Il motivo della scarsa definizione è dato dal fatto che la commissione interna di esperti, non è esperta sugli aspetti psicologici del gaming.
In che cosa consiste l’Internet Gaming Disorder? I sintomi che descrivono questa condizione sono 9:
- Pensieri ricorrenti intorno al gioco;
- Comportamenti di isolamento quando il gioco non è possibile;
- Tolleranza (bisogno di aumentare il tempo di gioco per sperimentare soddisfazione);
- Tentativi infruttuosi di controllare/ridurre l’uso;
- Perdita di interesse per altre attività;
- Uso eccessivo nonostante la consapevolezza che sussista un problema;
- Menzogne riguardo al tempo trascorso giocando;
- Uso del gioco per regolare le emozioni spiacevoli;
- Perdita o compromissione di: relazioni interpersonali, rendimento scolastico o lavorativo a causa del gioco.
Per una diagnosi devono essere presenti 5 sintomi su 9 per un periodo di 12 mesi.
Dal 2013 facciamo un salto temporale al 2018, anno in cui l’OMS propone di inserire il Gaming Disorder o disturbo da dipendenza da videogiochi, all’interno del manuale diagnostico ICD-11 (International Classification of Diseases).
Che cos’è il Gaming Disorder? Si tratta di una condizione caratterizzata da questi sintomi:
- Difficoltà di controllo sull’attività di gaming;
- Priorità al gaming nella vita quotidiana rispetto ad altre attività e interessi;
- Coinvolgimento persistente nonostante le conseguenze negative su: relazioni, lavoro, scuola.
Per poter effettuare la diagnosi i sintomi dovrebbero persistere per almeno 12 mesi, con un margine di flessibilità, perché il gaming può essere un hobby intensivo per intervalli di tempo limitati che si alternato a cali di interesse.
Nel 2018 però, stampa generalista ed esperti fraintendono la notizia della proposta dell’OMS con un’immediata entrata in vigore della nuova condizione, scatenando il panico tra i genitori dei videogiocatori.
Questa decisione dell’OMS spacca in due la comunità scientifica per vari motivi. Tutti concordano che esistano casi di abuso di gaming, ma è davvero necessario introdurre un disturbo specifico?
Al momento della proposta, inoltre, l’OMS invita la comunità scientifica a raccogliere dati intorno al problema, ma il metodo scientifico segue normalmente un corso di lavoro differente. La comunità scientifica parte da un’ipotesi su cui si raccolgono dati. Se i dati - una volta elaborati - rivelano criticità, allora in base a queste evidenze si prendono provvedimenti per salvaguardare la salute pubblica. Il meccanismo scatenato dall’OMS va invece in un’altra direzione, quella di dichiarare un allarme preventivo, chiedendo poi alla comunità scientifica di cercare conferme, non di verificare se un allarme esista davvero o quali siano i confini tra un comportamento normale ed uno problematico. Questa spinta orienta cioè le ricerche secondo un bias o pregiudizio (bias di conferma). L’OMS ha concesso alla comunità scientifica un anno per raccogliere evidenze, quando dal design di una ricerca alla pubblicazione dei risultati ne sono necessari almeno 3. È lecito a questo punto interrogarsi sul perché di questa scelta dell’OMS.
Se una parte della comunità scientifica appoggia la decisione dell’OMS, ritenendola uno stimolo alla ricerca sul problema, un’altra parte ha elencato criticità e rischi di questa scelta. La ricerca è poca e di scarsa qualità. Non c’è accordo sulla definizione del disturbo. Gli scienziati non sono concordi sui sintomi che identificano questa condizione. Non sono ancora disponibili strumenti di valutazione validati e ufficiali. Tra i numerosi rischi di una decisione affrettata figurano: accelerazione del panico morale, diagnosi prematura, modelli di ricerca fondati su bias e infine stigmatizzazione dei videogiocatori.
La media dei pazienti colpiti a livello globale sarebbe intorno al 3%. Pur essendo i numeri bassi, è legittimo interrogarsi sulle cause. Considerando che quasi metà della popolazione mondiale videogioca, se le cause risiedessero nel medium sarebbe in corso una seconda pandemia. Già nel 2017, Weinstein, Przybylski e Murayama individuavano le cause del gaming problematico in una frustrazione di bisogni psicologici essenziali (competenza, autonomia, socializzazione) a livello sociale, famigliare e nel gruppo dei pari. I videogiochi offrirebbero una strategia di compensazione del disagio, ma non ne sarebbero causa diretta. Disabituare i videogiocatori al gaming senza indagare le origini del disagio, avrebbe l’effetto collaterale di spostare il problema su un altro canale di espressione successivamente.
Nel frattempo, già da anni, alcuni specialisti stavano mettendo a punto servizi di riabilitazione dedicati, con relativi protocolli di cura (nonostante i criteri diagnostici non siano tuttora definiti e condivisi) e test di valutazione, che normalmente richiedono anni per essere realizzati e validati.
Tra gli effetti collaterali, si sono creati itinerari di “turismo sanitario”. In Regno Unito, non essendo il Gaming Disorder considerato un’emergenza sanitaria, non viene trattata come urgenza e i posti disponibili per il trattamento sono limitati. Persone e famiglie colpite dal gaming problematico alla ricerca di cura si sono quindi indirizzate verso altri paesi, come ad esempio l’Olanda.
A Maggio 2019, l’inserimento del Gaming Disorder è diventato ufficiale e l’entrata in vigore è prevista per Gennaio 2022. Passa altro tempo e a Marzo 2020 ci sono nuove sfide sanitarie da affrontare. L’OMS dichiara che è in atto una pandemia da Covid. Seguono raccomandazioni sanitarie e restrizioni sociali con un significativo impatto sulla vita della popolazione mondiale.
Per rafforzare le raccomandazioni dell’OMS, una parte della game industry mette in piedi l’iniziativa #PlayAPartTogether traducibile come “fate la vostra parte insieme” e “restate insieme giocando a distanza”. L’OMS appoggia questa campagna di sensibilizzazione riconoscendo nel nuovo contesto di emergenza sanitaria il valore di socializzazione del gaming. Negli stessi giorni esce “Animal Crossing: New Horizons”, videogioco di simulazione multiplayer online che riscuote in queste circostanze un successo su scala globale perché diventa uno spazio in cui incontrarsi in remoto con i propri affetti. La partecipazione dell’OMS alla campagna #PlayAPartTogether non cambia comunque la posizione dell’organizzazione rispetto al gaming disorder.
Nonostante le limitazioni sociali e negli spostamenti, nel 2020 il lavoro alacre degli scienziati prosegue anche nel settore del gaming e maturano risultati interessanti. Si comincia il 15 Giugno con l’approvazione da parte della Food and Drug Administration del primo videogioco come trattamento di medicina digitale per l’ADHD in età pediatrica.
Arriviamo così alla fine del 2020, quando si diffondono i risultati di una ricerca indipendente dell’Oxford Internet Institute condotta in collaborazione con due editori di videogiochi al fine di raccogliere dati oggettivi sulla salute dei videogiocatori. Più lungo era il tempo di esposizione dei videogiocatori coinvolti nella ricerca, maggiore era il loro benessere psicologico. Il tempo di esposizione ai videogiochi - tra i criteri diagnostici del gaming disorder - non sembrerebbe dunque essere un valido fattore predittivo del gaming problematico. Questi dati sono poi stati confermati da una ricerca successiva alla fine di quest’anno.
Torniamo a noi e arriviamo all’autunno 2021, quando il Prof. Przybylski che è anche ricercatore nel campo dei video games, a ottobre, cercando di comprendere le motivazioni alla base della decisione dell’OMS sul Gaming Disorder, richiede i documenti pubblici usati nel processo decisionale. Dopo un po’ di tempo, risponde il Dr. Vladimir Poznyak, capo della commissione dell’OMS su: alcol, droga e dipendenze comportamentali, con queste parole: “L’ultima edizione dell’International Classification of Diseases (ICD-11) raccoglie decine di migliaia di entità diagnostiche, incluse molte nuove entità o categorie diagnostiche riviste, ed è sfidante, se non impossibile, documentare e comunicare attraverso i canali dell’OMS il razionale e la giustificazione per ogni decisione”. Queste parole suscitano stupore e trasmettono il livello di confusione sull’argomento.
Pochi giorni dopo, si aggiunge alla discussione Chris Ferguson psicologo e ricercatore nel settore della psicologia dei media, condividendo un’email ricevuta nel 2016 dal Dr. Reed Geofffrey, altro membro della commissione sul Gaming Disorder dell’OMS, in cui questi ammette che l’OMS ha ricevuto pressioni soprattutto dai paesi Asiatici perché il gaming disorder fosse incluso nell’ICD11 e dunque classificato ufficialmente come malattia.
Il pensiero torna alle numerose restrizioni imposte in quell’area geografica ai videogiocatori, di cui l’ultima risale all’agosto di quest’anno quando la Cina ha rafforzato la stretta sul gaming online, limitando il tempo di gioco ai minorenni ad un’ora - dalle 19 alle 20 - da Lunedì a Giovedì e tre ore al giorno nel weekend.
A questo punto, date le attuali scarse evidenze scientifiche e la testimonianza di cui sopra, sorge il dubbio che la decisione dell’OMS sia basata su pressioni politiche. Il Prof. Przybylski chiede dunque al Dr. Tedros e all’OMS di sospendere l’inclusione del Gaming Disorder nell’ICD11, poiché questa decisione non è basata su evidenze scientifiche ma pressioni politiche. Cala il silenzio in attesa di risposta, ma il caso vuole che si diffonda Omicron, una nuova variante di Covid, catturando l’attenzione del pubblico e anche quella dell’OMS, lasciando il quesito del Prof. Przybylski insoluto e il popolo dei videogiocatori con il fiato sospeso.