La socialdemocrazia e l’eredità di Olof Palme
9 min letturaÈ la sera del 28 febbraio del 1986. Dopo aver congedato la scorta, il Ministro di Stato Svedese, Olof Palme esce di casa con la moglie, Lisbet, diretto al cinema dove lo aspettano il figlio e la compagna. Danno una commedia di cui tutti parlano, Broderna Mozart. All’uscita del cinema le due coppie si congedano, Olof e la moglie stanno tornando a casa quando, alle loro spalle, spunta un uomo, impreca contro di lui e gli spara due colpi di revolver. Palme si accascia: verrà dichiarato morto qualche minuto dopo la mezzanotte del primo di marzo.
Dopo quasi 40 anni la magistratura ha dichiarato colpevole dell’omicidio un grafico di estrema destra, morto anni prima dell’archiviazione. Nel frattempo il caso ha però dato vita a varie teorie, ma a dispetto del fascino che possono esercitare è più importante concentrarsi sui risvolti politici dell’omicidio. Con Olof Palme, infatti, muore anche la socialdemocrazia, almeno nella sua versione classica.
La nascita della socialdemocrazia
Per comprenderlo è necessario andare indietro fino al secondo dopoguerra. L’intera Europa è stata annientata dal conflitto mondiale, case distrutte, famiglie dimezzate. E ancora le ferite della crisi del ‘29, nonostante avesse colpito maggiormente gli Stati Uniti, continuano a farsi sentire. Quel sistema capitalista liberista che aveva garantito crescita e ricchezza dal ‘700 in poi era entrato in una crisi irreversibile.
Come se non bastasse alla periferia d’Europa c’è l’Unione Sovietica di Stalin, una potenza che dopo la caduta del regime nazista in Germania diventa il nemico numero uno. Stretti tra le necessità di rispondere alle esigenze di una popolazione distrutta dalla guerra e la paura che la situazione possa deflagrare in una rivoluzione bolscevica coadiuvata dall’Unione Sovietica, gli Stati intravedono una via nuova.
Ad aprire le danze è il Regno Unito. Nel 1940 Winston Churchill ha preso le redini del governo dopo che la strategia di appeasement del precedente governo conservatore di Naville Chamberlain è naufragata. Nell’ora più buia, Churchill e il popolo inglese hanno resistito, ultimo bastione del mondo libero, contro le bombe della Luftwaffe nazista che scorrazza sopra il cielo di Londra. Resistendo eroicamente contro il pericolo nazista e poi vincendo la guerra assieme a Stati Uniti e Unione Sovietica, Churchill diventa l’eroe nazionale. Ma nel 1945 alle prime elezioni dopo la fine della guerra in Europa non sarà Churchill a vincere: la guerra è finita e Churchill continua a guardare al passato, si dice. A uscirne vincitore è invece il Labour Party di Clement Attlee, veterano della Prima guerra mondiale.
Quel periodo di euforia è stato ben catturato da Ken Loach nel suo The Spirit of ‘45: il Labour Party pone le fondamenta per il sistema socialdemocratico che ha caratterizzato i trent’anni gloriosi, dalla metà degli anni quaranta ai settanta. Sotto il suo governo Attlee e il suo gabinetto nazionalizzano varie industrie strategiche del paese, lanciano la pianificazione economica per una ricostruzione post bellica che non lasci nessuno indietro e mettono in atto il famoso piano Beveridge: fondano il servizio sanitario nazionale, l’NHS, e un sistema di welfare- scuole, sanità, edilizia-universale finanziato dalla fiscalità generale.
La ricostruzione, infatti, richiedeva una forza lavoro istruita, in salute e protetta, assieme a un intervento maggiore dello Stato nell’economia, per evitare le storture del capitalismo liberale pre guerra. Presto seguiranno altri paesi, anche guidati da governi di centrodestra: basti pensare che il sistema sanitario nazionale nel nostro paese viene istituito dal governo Andreotti. Ma è in Svezia che la socialdemocrazia raggiungerà la sua forma più interessante.
Poco dopo la vittoria di Attlee nel Regno Unito, il Primo Ministro svedese Per Albin Hansson muore improvvisamente, colpito da un infarto mentre scende da un tram. A succedergli sarà Tage Erlander, in maniera del tutto inaspettata. Erlander non è un rivoluzionario, anzi: conosciuto per il suo pragmatismo non implementa un piano di nazionalizzazioni su vasta scala per non intimorire i suoi avversari conservatori. La via svedese alla socialdemocrazia, invece, passa da un’elevata densità sindacale e da leggi sul mercato del lavoro che incoraggiano la sindacalizzazione, in particolare la contrattazione salariale centralizzata: i sindacati e le associazioni degli imprenditori infatti fissano il salario per l’intero settore seguendo il motto “stesso lavoro, stessa paga”. Il secondo pilastro riguarda invece lo Stato Sociale, che garantisce una vita dignitosa a tutti e un’istruzione di alto livello per formare i lavoratori di domani, assieme a politiche attive del lavoro per rispondere ai bisogni di un’industria che, non potendo fare competizione sui salari, doveva spingere sul miglioramento dei processi interni e sull’innovazione.
Questo sistema, incanalando l’avarizia del libero mercato, ha portato sotto i trent’anni di governo di Tage Erlander a una crescita sostenuta e uno dei paesi più sviluppati al mondo. È proprio Tage Erlander a introdurre Olof Palme negli alti ranghi della politica svedese. Non ancora trentenne lo nomina suo segretario e nel giro di qualche anno Olof Palme è indispensabile per Erlander. In un primo momento anche Palme si colloca tra i moderati del partito, lui che non era nato in una famiglia operaia o della piccola borghesia come la maggior parte dei membri del Partito Socialista, ma da famiglia abbiente. Sostiene le riforme e la via tracciata dal suo maestro e si tiene lontano dagli estremisti di sinistra del partito che guardano invece con favore al modello sovietico.
Il punto di svolta, però, avviene negli anni ‘60. La guerra in Vietnam, assieme al sempre maggior peso della classe media sull’economia nazionale, portano a una radicalizzazione nell’opinione pubblica svedese. Conscio di questo cambiamento, Olof Palme guarda con simpatia a questi movimenti che stanno emergendo: lui che è sempre stato un antirazzista e anticolonialista, diffidente tanto degli Stati Uniti d’America quanto dei regimi comunisti, riesce a stabilire una sintonia tra il Partito Socialista e i movimenti tanto sociali quanto civili che stanno nascendo.
Proprio alla fine degli anni ‘60 Tage Erlander si dimette, lasciando il posto di Ministro di Stato a Olof Palme, che diventa quindi leader del paese a soli 42 anni. Sotto il suo primo governo sono varate altre misure che vanno a rafforzare il sistema di welfare della Svezia: asili nido pubblici, diritto all’aborto, fondi per l’edilizia sociale. Non è un caso se la spesa pubblica sul Prodotto Interno Lordo, durante il primo governo Palme, esplode.
Se il ruolo di Palme in politica interna è quello di continuare e ampliare il modello svedese, è in politica estera che le cose si fanno più interessanti. Forte del consenso di migliaia di giovani Olof Palme porta avanti posizioni anticoloniali e fortemente critiche di paesi come gli Stati Uniti. Il culmine lo si raggiunge nel 1972, quando il 23 dicembre Palme pronuncia un discorso alla radio svedese in cui paragona i bombardamenti dell’esercito americano su Hanoi, nella guerra in Vietnam, ai peggiori massacri del ‘900: Treblinka e Katyn su tutti.
La reazione degli Stati Uniti è durissima, interrompendo le relazioni diplomatiche. Non si tira indietro nemmeno da forti critiche nei confronti dei regimi comunisti come l’Unione Sovietica, tanto che in passato aveva criticato prima l’invasione dell’Ungheria e poi quella della Cecoslovacchia. Suo bersaglio anche le dittature di destra europee, come quella del generale Franco in Spagna, definita da Olof Palme “un gruppo di assassini”.
Nota è anche la sua lotta contro l’apartheid in Sudafrica, così come il tentativo di stringere rapporti con paesi isolati come Cuba: è proprio lì che si reca Olof Palme nel 1975 per incontrare Fidel Castro.
La fine della socialdemocrazia?
L’ascesa di Olof Palme avviene però in un momento di profondo tumulto per il mondo, in particolare per il sistema economico che si era andato creando dopo la seconda guerra mondiale, quello socialdemocratico. La rapida industrializzazione dei paesi occidentali si basava infatti sulle maree di petrolio a prezzo stracciato che arrivavano dal Medio Oriente. Tutto cambia quando nel 1973 l’Egitto e la Siria attaccano Israele, storico alleato delle democrazie occidentali e in particolare degli USA.
Per danneggiarne gli alleati, i paesi che fanno parte del cartello dell’OPEC decidono un embargo sul greggio che fa schizzare i prezzi alle stelle trascinando il mondo occidentale nell’incubo della stagflazione. Una sorta di pietra tombale per il sistema che si era sviluppato fino ad allora, drogati di petrolio.
La stagflazione, quindi, rompe l’incantesimo e il modello socialdemocratico entra in crisi. Allo stesso tempo quel compromesso su cui si basava la socialdemocrazia, che garantiva la proprietà privata dei mezzi di produzione a fronte di politiche che privilegiassero il lavoro sulla rendita, si fa sempre più delicato: il peso acquisito dalla classe lavoratrice rischia, come predetto, di compromettere gli interessi della classe imprenditoriale.
Proprio la Svezia fornisce un esempio paradigmatico da questo punto di vista. Negli anni ‘70 il sindacato LO, uno dei capisaldi del modello svedese e alleato del partito di Palme, decide di fare un passo in avanti. Nel 1976, dopo cinque anni di lavoro, il gruppo coordinato dall’economista Meidner presenta un piano ambizioso per superare la proprietà privata dei mezzi di produzione e legare il salario dei lavoratori non più alla capacità dell’impresa di pagarlo ma alla produzione.
Per dare più potere ai lavoratori ed evitare un’elevata concentrazione di profitti nelle mani di pochi privati, si propone l’istituzione di un fondo d’investimento attraverso cui “la proprietà di parte dei profitti (fino alla soglia del 20 per cento) che sono rastrellati in un’azienda viene semplicemente trasferita dai vecchi proprietari ai lavoratori in quanto soggetto collettivo”. La richiesta dei sindacati è, né più né meno, l’espropriazione di parte del profitto, attraverso la coercizione dell’intervento del governo.
Si tratta di una rottura radicale con il modello svedese, nato appunto dal compromesso tra lavoratori e imprenditori, creando un sistema in grado di incanalare la ricerca del profitto attraverso norme e istituzioni che garantissero la prosperità comune.
E non a caso la sua attuazione da parte del Governo Palme sarà molto annacquata. Anche perché, proprio in quegli anni per la prima volta dagli anni ‘30, il Partito Socialista perde di misura la maggioranza e passa all’opposizione. Vincono infatti i partiti moderati di centro, colpevole la crisi innescata dalla stagflazione che, a dire il vero, sarà ancora più dura durante gli anni di Ola Ullsten e Thorbjörn Fälldin, i due primi ministri moderati.
Gli anni che separano i due governi di Palme sono però il punto finale di svolta per l’Occidente: il conflitto tra lavoratori e grande impresa è stato vinto da quest’ultima, ma sotto le mentite spoglie di una maggior libertà e concorrenza che beneficerà tutti. Il sogno della socialdemocrazia è ormai svanito e nel mondo anglofono a vincere sono Reagan e Thatcher, esponenti del neoliberismo.
Il secondo governo Palme, dal ‘82 fino alla morte, è appunto la dimostrazione plastica di queste contraddizione che si celano nella socialdemocrazia dopo la crisi degli anni ‘70: da una parte il tentativo di continuare sulla strada tracciata, dall’altra la sensazione che il mondo sia cambiato e che quel sistema non funzioni più.
All’economia viene nominato Kjell-Olof Feldt, le cui politiche di liberalizzazione del sistema bancario, anticipano la terza via che sarebbe andata di moda a sinistra da lì a un decennio. La speranza di Palme, secondo alcuni, è che politiche di austerità possano curare l’economia svedese e riportare agli antichi fasti. Una speranza che però si va sempre di più affievolendo con il tempo che passa fino, appunto, al giorno della sua morte.
Il ritorno della socialdemocrazia?
L’abbandono della strada tracciata da Olof Palme e dal suo predecessore Tage Earlander ha mostrato con il tempo tutti i suoi limiti: nonostante il welfare state svedese sia ancora uno dei più efficienti al mondo, le disuguaglianze sono cresciute a dismisura e il malcontento generale ha portato alla ribalta movimenti di estrema destra reazionaria.
Anche nel resto del mondo occidentale la socialdemocrazia è stata dichiarata morta. Per reinventarsi la sinistra ha dovuto cercare un compromesso tra i vecchi ideali e il mondo della globalizzazione, sposando quella che è stata chiamata terza via che doveva appunto aggiornare le vecchie battaglie senza guardare con disprezzo all’apertura dei mercati e al privato. Questo, ovviamente, in teoria: in pratica i movimenti di sinistra hanno abbandonato buona parte delle loro rivendicazioni assomigliando sempre di più ai partiti conservatori e lasciando spazio ai partiti “sovranisti”, le cui rivendicazioni politiche vanno di pari passo con la xenofobia e la discriminazione di minoranze o gruppi marginalizzati.
I limiti di questo nuovo approccio sono presto emersi: le disuguaglianze interne ai paesi sono cresciute, il potere dei lavoratori e il peso dei sindacati diminuito, il welfare state obbedisce ormai alle regole del mercato, in contrasto con l’idea originaria.
La pandemia sembra aver funzionato nel mostrare questi limiti. Sono state proprio le persone meno abbienti a soffrire di più per le restrizioni, mentre le fasce più abbienti della società hanno visto addirittura aumentare i loro patrimoni. Per questo le prime prove elettorali post pandemia mostrano un nuovo corso per la sinistra: a partire da Stati Uniti e Germania, dove anche due politici moderati come Joe Biden e Olaf Scholz hanno dovuto riprendere proprio i temi cari alla vecchia socialdemocrazia. In Francia il NUPES, l’alleanza a sinistra che ha sostenuto Mélenchon, si è presentata con un manifesto simile. È ancora troppo presto per parlare di un ritorno della socialdemocrazia vecchio stile, ma pare che l’eredità di Olof Palme sia tutto fuorché inattuale.
(Immagine anteprima via Wikimedia Commons)