Il post definitivo sull’olio di palma
11 min letturaÈ forse il prodotto alimentare più discusso degli ultimi anni. È stato, ed è ancora, al centro del dibattito tra consumatori e nutrizionisti. È diventato oggetto di opposte campagne di marketing e, perfino, di petizioni per fermarne l'invasione. Non era mai successo, a memoria, che un olio vegetale suscitasse (anche a ragione) tante discussioni, ma è quello che è accaduto con l'olio di palma. Vista anche la confusione che ha spesso accompagnato questa discussione, ci sembra opportuno fare una sintesi dei dati e delle evidenze, così da poter consentire a ciascuno di elaborare una propria opinione.
A vederlo non sembrerebbe un prodotto particolarmente minaccioso. L'olio di palma grezzo è, anzi, una sostanza ricca di vitamina E e anche di carotenoidi, molecole note per la loro attività antiossidante che gli conferiscono un colore arancione acceso. Questi composti rimangono però solo in piccola quantità dopo il processo di raffinazione a cui viene sottoposto per i suoi usi alimentari, e non solo. L'olio di palma infatti è una materia prima utilizzata in moltissimi settori, compresa l'industria cosmetica. È impiegato anche nella produzione di detergenti e di biodiesel.
Le origini dell'olio e le sue caratteristiche
L'olio di palma viene ricavato dalla polpa del frutto della Elaeis guineensis, una pianta originaria dell'Africa occidentale, ma esportata in seguito in altri regioni tra cui il Sud Est Asiatico. Indonesia e Malesia oggi producono insieme l'85% dell'olio di palma mondiale. L'olio di palma non va confuso con l'olio di palmisto, che si estrae dai semi della stessa pianta.
Prima di addentrarci nella discussione scientifica e medica sull'olio di palma è necessario però chiarire alcune definizioni. Come spiega il chimico e divulgatore scientifico Dario Bressanini, non esiste la "molecola di olio di palma". L'olio di palma, come tutti gli oli (e quindi i grassi. Gli oli sono i grassi liquidi a temperatura ambiente), è una miscela di diversi acidi grassi, molecole organiche formate da catene più o meno lunghe di carbonio.
Gli acidi grassi possono essere saturi o insaturi. I primi sono privi di doppi legami chimici tra gli atomi di carbonio della catena, mentre i secondi ne possono avere uno (monoinsaturi) o più di uno (polinsaturi). Gli acidi grassi, nelle miscele presenti in natura, si trovano soprattutto sotto forma di trigliceridi. Un grasso ricco di acidi grassi saturi è solido a temperatura ambiente, mentre un grasso ricco di acidi grassi insaturi è liquido. Anche se ci sono eccezioni, tendenzialmente i grassi animali sono solidi, quelli vegetali liquidi. L'olio di palma è un'eccezione.
L’olio di palma, infatti, è composto per il 50% circa da acidi grassi saturi, soprattutto acido palmitico. Perciò, a temperatura ambiente, ha una consistenza quasi semisolida. L’acido palmitico è uno degli acidi grassi più diffusi sia negli organismi vegetali che animali. Si trova a buone concentrazioni, per esempio, nel latte umano.
Per le sue caratteristiche chimiche, l'olio di palma è più simile al burro che ad altri oli vegetali. Per questo è diventato un prodotto molto utilizzato nell'industria alimentare, soprattutto per conferire consistenza a merendine e dolci.
L'olio di palma causa malattie cardiovascolari?
L'olio di palma è da tempo accusato di essere dannoso per la salute. Secondo i suoi "nemici", provocherebbe un aumento della concentrazione di colesterolo nel sangue a causa del suo elevato contenuto di acidi grassi saturi. E quindi un aumento del rischio di sviluppare malattie cardiovascolari.
Nel 2013 Elena Fattore e Roberto Fanelli, due ricercatori dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, hanno svolto una revisione della letteratura scientifica per verificare quali fossero le evidenze di una relazione tra il consumo di olio di palma e l’insorgenza di malattie cardiovascolari e tumori.
Gli autori hanno analizzato i risultati di 38 ricerche, pubblicate dal 1988 al 2011, che hanno verificato cosa accade agli indicatori del rischio cardiovascolare, principalmente il colesterolo totale, il colesterolo LDL ("cattivo") e HDL ("buono"), quando l’olio di palma viene sostituito con altri grassi, soprattutto vegetali. In molti studi il confronto è stato effettuato direttamente tra l’acido palmitico e altri acidi grassi.
La conclusione dei due ricercatori è che non ci sono forti evidenze che il consumo di acido palmitico aumenti, di per sé, il rischio di malattie cardiovascolari, a parità di calorie introdotte. Specialmente in soggetti che hanno livelli di colesterolo nella norma. Nel complesso l’acido palmitico sembra avere la capacità di innalzare leggermente sia i livelli di LDL e HDL. Perciò il loro rapporto, che è un importante indicatore di rischio cardiovascolare, rimane praticamente invariato.
La maggioranza di questi studi, per esempio, non ha evidenziato sostanziali differenze tra l’olio di palma e l’olio di semi di soia (ricco di acido linoleico, un acido grasso polinsaturo) nella capacità di modificare il profilo lipidico del sangue, tranne, nel caso dell’olio di palma, un aumento del colesterolo HDL. Anche rispetto all’olio di oliva quello di palma non ha dimostrato differenze in alcuni degli studi considerati, mentre altri hanno registrato un aumento del colesterolo totale e LDL. L’olio di palma sembra aumentare il colesterolo totale ed LDL ma anche HDL, rispetto all’olio di semi di girasole. Le ricerche che hanno confrontato l’olio di palma, o l’acido palmitico, con diversi acidi grassi saturi hanno rilevato che il primo causa livelli minori di colesterolo totale, LDL e HDL.
In più, come notano gli autori, l’effetto di un acido grasso potrebbe essere diverso da quello della miscela che lo contiene, anche se è uno dei suoi componenti principali. Per esempio, è stato studiato l’effetto sui livelli di colesterolo dell’olio di palma, all’interno della dieta cinese, rispetto all’olio di semi di arachidi, l’olio di semi di soia e lo strutto. È risultato che l’olio di palma, rispetto allo strutto, abbassa significativamente il colesterolo LDL, nonostante abbiano una percentuale simile di acidi grassi saturi, monoinsaturi e polinsaturi. Gli autori di questa ricerca hanno ipotizzato che questo possa dipendere dalla posizione dell’acido palmitico all’interno della molecola di trigliceride, un fattore strutturale che può influenzare il metabolismo lipidico.
È stato osservato anche che l’olio di semi di girasole determina minori livelli di colesterolo LDL rispetto all’olio di oliva. Questo potrebbe essere dovuto alla presenza, nell’olio di girasole, di fitosteroli, sostanze che abbassano i livelli di colesterolo, a cui somigliano nella struttura (e che si trovano anche nell’olio di palma).
L'Istituto Superiore di Sanità, in un documento dove esamina le ricerche pubblicate fino ad ora, afferma:
Non ci sono evidenze dirette nella letteratura scientifica che l'olio di palma, come fonte di acidi grassi saturi, abbia un effetto diverso sul rischio cardiovascolare rispetto agli altri grassi con simile composizione percentuale di grassi saturi e mono/poliinsaturi, quali, ad esempio, il burro.
Una revisione, pubblicata nel 2014 sull'American Journal of Clinical Nutrition, non ha evidenziato importanti differenze nella modificazione degli indicatori di rischio cardiovascolare quando l'olio di palma viene sostituito con altri grassi. L'olio di palma, rispetto ad altri acidi grassi saturi, monoinsaturi o polinsaturi, produce cambiamenti sia favorevoli che sfavorevoli e non incide in modo significativo sul rapporto tra colesterolo LDL e HDL. Gli autori, nella conclusione, invitano alla cautela nella elaborazione delle politiche che promuovono alcuni grassi rispetto ad altri.
Per comprendere infatti pienamente la sua portata, e anche la sua complessità, la ricerca scientifica sull’olio di palma deve essere collocata all’interno di una più ampia discussione, che riguarda gli effetti sulla salute dei grassi saturi. Secondo la cosiddetta "ipotesi lipidica", una dieta ricca di grassi saturi aumenta il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, attraverso l'aumento del colesterolo nel sangue.
Il primo a formulare questa ipotesi è stato lo scienziato americano Ancel Keys, che nel 1958 avviò il Seven Countries Study, rimasto uno degli studi più celebri e discussi nella storia delle medicina della seconda metà del '900. Keys, che passò poi alla storia anche come il padre della "dieta mediterranea", propose che ci fosse una relazione tra il consumo di cibi ricchi di grassi saturi e i numerosi casi di infarto in individui, apparentemente sani, che si stavano verificando negli Stati Uniti.
Dagli anni '70, dopo la pubblicazione dei primi risultati di questo studio, la relazione tra consumo di grassi saturi e malattie cardiovascolari è diventata una sorta di paradigma della medicina. Da allora, fino ad oggi, le società mediche e i principali enti sanitari internazionali, compresa l'Organizzazione Mondiale della Sanità, hanno sempre raccomandato un'assunzione limitata di grassi saturi per non aumentare il rischio cardiovascolare.
Negli ultimi anni, tuttavia, sono state pubblicate diverse ricerche che hanno messo in discussione, fino a in certi casi a ridimensionarlo, il coinvolgimento dei grassi saturi nelle malattie cardiovascolari. Peraltro non sono ancora del tutto compresi i fattori che determinano l'inizio dell'aterosclerosi, il complesso processo di formazione delle placche all'interno delle arterie che causano patologie come l'infarto e l'ictus.
Uno studio pubblicato nel 2010 sull'American Journal of Clinical Nutrition concludeva che gli studi epidemiologici non mostravano una evidenza significativa che i grassi saturi fossero correlati a malattie cardiovascolari. In questa stessa rivista uno studio del 2011 affermava che l'effetto di un particolare alimento, nell'insorgenza di patologie coronariche, non può essere predeterminato sulla base del solo contenuto di acidi grassi saturi e che rimane da chiarire il ruolo dei grassi saturi rispetto anche ad altri nutrienti, come i carboidrati.
Una ricerca del 2010 sottolineava invece che è improbabile che l'enfasi posta sulla riduzione del consumo di grassi saturi, senza indicare nutrienti alternativi o ignorando altri fattori di rischio cardiovascolari presenti nell'alimentazione, possa portare a sostanziali benefici. D'altra parte, nel 2015, una revisione della Cochrane Collaboration, un'organizzazione indipendente di verifica degli studi medici, concludeva che la riduzione dell'apporto di grassi saturi può tradursi in una diminuzione piccola, ma potenzialmente importante, del rischio cardiovascolare. Aggiungeva che si dovrebbe continuare a consigliare una riduzione dei grassi saturi nella dieta e la loro sostituzione con grassi insaturi, anche se rimarrebbe da chiarire con quale tipo di grasso insaturo.
Gli autori di uno studio pubblicato sul British Medical Journal scrivono che le evidenze suggeriscono che la sostituzione dei grassi saturi con l'acido linoleico abbassa i livelli di colesterolo nel sangue ma che questo non si traduce in una diminuzione del rischio di morte per patologie cardiache coronariche. E una revisione sistematica, pubblicata di nuovo sul British Medical Journal, afferma che le attuali linee guida nutrizionali sul consumo di grassi non sono basate su evidenze.
L'olio di palma è un grasso cancerogeno?
Nella revisione di Fattore e Fanelli, prima citata, viene affrontato anche il rapporto tra l'olio di palma e il cancro. Gli autori scrivono che nella letteratura non si ritrovano evidenze che dimostrino un ruolo nell'insorgenza del cancro degli acidi grassi contenuti nell'olio di palma.
La controversia su un sospetto rapporto tra olio di palma e cancro si è accesa a maggio di quest'anno, quando l'Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha pubblicato uno studio sui rischi per la salute pubblica dovuti alla presenza di sostanze contaminanti (i glicidil esteri degli acidi grassi, il 3-monocloropropandiolo e il 2-monocloropropandiolo), prodotte nella lavorazione di alcuni oli vegetali e delle margarine. Soprattutto, durante processi di raffinazione ad alta temperatura a circa 200 gradi. Le concentrazioni più elevate di queste sostanze sono state riscontrate proprio nell'olio di palma.
L'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) ha classificato il 3-monocloropropandiolo nel gruppo 2B, che raggruppa i possibili agenti cancerogeni (dove possibile, nella classificazione IARC, denota un grado di evidenza di cancerogenicità inferiore di probabile), sulla base di sufficienti evidenze nei modelli animali. Il glicidolo, un composto precursore dei glicidil esteri, è stato inserito invece nel gruppo 2A, come probabile cancerogeno, sempre sulla base di evidenze negli animali.
Anche l'EFSA, nello studio, riporta gli studi sulla cancerogenicità di queste sostanze nei modelli animali. E sulla base di questi dati l'agenzia ha calcolato un livello entro il quale contenere l'esposizione a questi composti da parte dei consumatori. In particolare, è stata presa in considerazione l'esposizione dei neonati ai glicidil esteri, attraverso l'assunzione di alimenti per questa fascia d'età.
In realtà la presenza di contaminanti nei processi di lavorazione di diversi alimenti è un problema noto da tempo sia agli enti regolatori che all'industria alimentare. L'EFSA specifica infatti che i livelli di glicidil esteri nell'olio di palma «si sono dimezzati tra il 2010 e il 2015, grazie a misure adottate volontariamente dai produttori». Mentre le concentrazioni di 3-monocloropropandiolo negli oli vegetali sono rimaste sostanzialmente invariate negli ultimi cinque anni.
L'Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro scrive che «è difficile che concentrazioni pericolose siano raggiunte con la normale alimentazione». Infatti, aggiunge, i dati sulla cancerogenicità in laboratorio sono ricavati durante studi in cui si sperimentano queste sostanze a concentrazioni molto elevate.
Tuttavia, in seguito al rapporto dell'EFSA, la discussione sull'olio di palma ha diviso ancora di più i due fronti contrapposti del sì e del no, non solo tra i consumatori, ma anche tra le grandi catene della distribuzione alimentare e delle aziende.
C'è stato chi, come la Coop, ha deciso di sospendere la produzione di prodotti contenenti olio di palma, diventando così la prima catena europea con l'etichetta senza olio di palma (ma continuando a vendere i prodotti con olio di palma di altre marche).
E chi, invece, come la Ferrero ha rivendicato la scelta di continuare a utilizzarlo, applicando processi di lavorazione a temperature controllate e rispettando i principi di sostenibilità ambientale.
L'impatto sull'ambiente e la sfida per la sostenibilità
Infatti la controversia sull'olio di palma non ha riguardato soltanto le sue caratteristiche nutrizionali e i suoi effetti sulla salute, ma anche il suo impatto ambientale. La massiccia espansione delle piantagioni di palme da olio in Indonesia e Malesia ha causato la distruzione di vaste aree di foresta tropicale.
Si stima che in Indonesia le palme da olio ricoprano più di 8 milioni di ettari di territorio. In Malesia le coltivazioni di palma da olio sono passate da 54mila ettari nel 1960 a più di 4 milioni di ettari nel 2005. Si calcola che in tutto il mondo, dal 1985 al 2010, le superfici coltivate a palma da olio siano triplicate, arrivando a 15 milioni di ettari. In Indonesia, dal 1990 al 2010, circa la metà delle piantagioni sono sorte su aree occupate da foreste tropicali.
La palma da olio è probabilmente la coltivazione a maggiore espansione, sia produttiva che commerciale, di tutto il pianeta, e una delle più impattanti dal punto di vista ambientale. Per fare spazio alle piantagioni di palma da olio sono stati appiccati incendi, spesso illegali, anche in aree protette.
Questo, insieme alla bonifica delle torbiere (suoli particolarmente ricchi di carbonio) effettuata per piantare le palme, ha causato un aumento delle emissioni di anidride carbonica e altri gas serra. Tanto che, secondo uno studio, l'industria dell'olio di palma in Indonesia, da sola, potrebbe rilasciare nell'atmosfera 558 milioni di tonnellate di anidride carbonica entro il 2020. Una quantità di emissioni maggiore di quella di tutto il Canada.
Nel 2015 la nube di fumo sprigionata dagli incendi, molti dei quali appiccati dai coltivatori di palme da olio, è arrivata fino a Singapore. Deforestazione e incendi costituiscono una minaccia per le comunità locali e anche per le numerose specie animali e vegetali delle foreste tropicali. L'orango è diventato il simbolo della minaccia alla biodiversità rappresentata dall'industria dell'olio di palma.
Eppure, nonostante tutto questo, è improbabile che nel breve e medio termine la coltivazione della palma da olio possa entrare in crisi. Non solo perché costituisce una materia prima per molte industrie e un importante fonte di guadagno per numerose aziende locali, ma anche perché non sarebbe conveniente, nemmeno dal punto di vista ambientale, sostituirla con altre colture. La palma da olio, infatti, ha una resa per ettaro quasi cinque volte superiore a quella di altre coltivazioni da olio (come il girasole, la colza e la soia). Mantenere la stessa produttività significherebbe sacrificare ancora più superfici.
Per promuovere una produzione di olio di palma meno distruttiva, nel 2004 è stata fondata la Roundtable on Sustainable Palm Oil (RSPO), che riunisce diversi soggetti coinvolti nella filiera dell'olio di palma (produttori, commercianti, investitori), ma anche organizzazioni non governative. La RSPO rilascia una certificazione ambientale che garantisce che l'olio di palma è stato prodotto in modo sostenibile. Ad oggi, il 17% della produzione globale di olio di palma è certificato dalla RSPO.
Se le evidenze scientifiche sugli effetti sulla salute dell'olio di palma sembrano rassicuranti, senz'altro lo è molto meno l'impatto ambientale e sociale che continua a causare nei paesi produttori. Perciò, non resta che auspicare che quella percentuale possa rapidamente aumentare in futuro.
Aggiornamento del 18 novembre, ore 10: rispetto alla versione precedente abbiamo corretto un refuso in corrispondenza del dato sulla resa per ettaro dell'olio di palma.