Lezioni di Storia / Giochi di potere: la politica e le Olimpiadi nell’antichità
6 min letturaLezioni di Storia, una rubrica di divulgazione storica partendo dal presente
388 a.C. Olimpia: una folla inferocita si scaglia contro le tende dove è ospitata la delegazione siracusana con i suoi atleti e il personale. In pochi minuti l’accampamento viene distrutto e saccheggiato, mentre poco distante l’oratore ateniese Lisia sogghigna. È lui infatti che con un discorso sferzante ha aizzato il pubblico contro Dionigi, il tiranno di Siracusa, e la sua delegazione ai giochi panellenici.
Sport e politica, un binomio antichissimo
Gli atleti dovrebbero occuparsi solo di sport. È una delle critiche che si sentono fare quando campioni sportivi prima delle gare alle Olimpiadi o nei vari campionati fanno di proposito gesti con valenza politica o che significano il loro appoggio a campagne mediatiche di denuncia contro comportamenti discriminatori, come le nazionali che hanno deciso di inginocchiarsi agli europei di calcio in supporto alla campagna “Black lives matter”, o l’indossare maglie e coccarde arcobaleno contro le discriminazioni del premier ungherese Orban.
Molti pensano che il connubio sport-politica sia esclusivamente moderno, e ricordano non solo il successo di Jessie Owens, che fece masticare amaro Adolf Hitler, che ai tempi delle Olimpiade di Berlino del 1936 pensava di usare il palcoscenico dei giochi per magnificare i traguardi del suo regime e invece rimase pesantemente scornato, ma anche la serie infinita di “dispetti” e di non partecipazioni Stati Uniti-URSS ai tempi delle Olimpiadi di Mosca e Los Angeles.
Oggi i campioni sportivi si battono per i diritti umani spesso a livello personale, e patrocinano cause sociali anche indipendentemente dall'appoggio esplicito dato a queste ultime dai loro governi. La situazione fino a pochi anni fa era molto diversa e spesso i campioni diventavano veri e propri testimonial dei Governi dei loro paesi di origine. Soprattutto nei paesi dell'Est i campioni sportivi diventavano modelli da imitare e alfieri del regime, anche se spesso questa non era una scelta degli atleti stessi ma una imposizione.
In antico, ovviamente, la situazione era molto diversa, anche perché non esistevano movimenti equivalenti a quelli per i diritti umani odierni. Ma questo non vuol dire che gli atleti fossero completamente al di fuori del dibattito politico o non prendessero posizione.
La tendenza a politicizzare le Olimpiadi e le gare internazionali ha una millenaria tradizione alle spalle. Già nell'antichità abbiamo svariati esempi di atleti che sono stati sfruttati come testimonial dai loro paesi di origine, e altri, che si sono consapevolmente offerti a questo gioco in cambio di benefici economici o luminose carriere politiche.
Vincere una gara alle Olimpiadi nell'antichità infatti apriva spesso al singolo la strada al successo: se nel mondo moderno è raro il caso di un atleta che sia arrivato ad una alta carica politica slegata al mondo dello sport, nell’antichità invece la vittoria era il primo passo per una scalata al potere vero e proprio.
Milone, il più grande atleta del mondo, testimonial di una “setta” pericolosa: i pitagorici
Vincitore di ben sette Olimpiadi, è stato detentore per secoli del record assoluto di gare vinte. Milone di Crotone era una sorta di Tom Cruise dell’antichità: come l’attore era bello, atletico, famosissimo, ricchissimo, e per giunta testimonial di una setta chiacchierata come una moderna Scientology: i pitagorici. Nato nella colonia dorica di Crotone, Milone era celebre per i suoi successi olimpici nella lotta e nel pugilato ed era considerato il più forte dei Greci. Le vittorie gli regalarono fama e successo anche in politica. Era seguito in patria assieme al suo “allenatore” d’eccezione, il filosofo Pitagora di Samo, che a Crotone aveva fondato una scuola in cui oltre a filosofia e matematica imponeva anche una dieta vegetariana e una visione politica molto particolare, basata sulla comunione dei beni materiali (una sorta di antico comunismo). Prima divenne capo dell’esercito crotoniate e sconfisse la vicina città di Sibari nel 510 a.C., poi tentò di imporre a Crotone, assieme a Pitagora di cui aveva nel frattempo sposato una figlia, un regime in cui le cariche più importanti venivano date solo ai membri della setta pitagorica.
Finì malissimo: i crotoniati, stufi di questa manica di fanatici, si ribellarono con violenza, diedero fuoco alla casa di Milone una sera in cui ospitava a cena i capi della setta pitagorica e fecero fuori gran parte degli adepti, compreso, probabilmente, lo stesso Pitagora.
Doping, corruzione e atleti oriundi o che cambiano cittadinanza
Lo sport in Grecia era seguitissimo, e anche allora come oggi i problemi alle gare erano molto simili. Il doping era noto anche nell’antichità. Ad Olimpia i giudici di gara erano severissimi. Gli atleti dovevano dichiarare ufficialmente la dieta seguita, arrivavano qualche giorno prima delle gare e consumavano i pasti in maniera da evitare l’assunzione di sostanze proibite. Se venivano sospettati di scorrettezze, venivano immediatamente esclusi dalle gare: niente corona di alloro e soprattutto niente ricco premio in denaro e onori dalle loro poleis di origine.
Le poleis, cioè le città greche, infatti, erano generosissime con i vincitori. Tornati in patria erano onorati con feste e cortei, e spesso si assoldavano poeti per cantare le loro imprese (Pindaro era il più gettonato) e scultori per erigere loro statue. Ma anche l’aspetto economico non era secondario: le città davano premi in denaro oppure fornivano agli atleti vitalizi da nababbi.
La città che poteva contare su un vincitore ad Olimpia aumentava la sua visibilità internazionale e il suo prestigio -una sorta di “effetto Draghi”, si potrebbe dire - perché il successo nello sport era considerato un indizio che la polis era governata bene. Quindi capitava non di rado che le città sconfitte cercassero di “adottare” gli atleti migliori, offrendo loro la cittadinanza e ricche prebende. Astilo di Crotone, vincitore di tre Olimpiadi, mollò infatti la natia Crotone e divenne Siracusano. Le città greche erano molto difficili nel concedere la cittadinanza agli stranieri, ma nel caso dei campioni sportivi tutte le regole restrittive saltavano: non c’era ostacolo che tenesse, gli atleti venivano naturalizzati senza un plissé. Le cittadinanze velocissime concesse oggi a certi calciatori hanno precedenti antichi, insomma.
Le corse dei carri, la formula uno dell’antichità
Un modo sicuro per farsi notare a livello internazionale in Grecia era partecipare alla gara della corsa dei carri ad Olimpia, la Formula Uno dell’antichità. Era l’unica gara in cui non veniva premiato l’atleta che gareggiava (cioè in questo caso l’auriga del carro) ma la scuderia, cioè chi finanziava la corsa, anche perché mantenere un carro e i cavalli da corsa necessari erano un impegno economico notevole, che pochi ricchissimi potevano permettersi. Nel periodo più tardo, fu l’unica gara in cui potevano partecipare, per così dire, anche le donne, perché numerose ricche signore greche e poi romane erano in grado di mandare i loro carri alla competizione.
Chi seppe sfruttare benissimo le Olimpiadi fu Alcibiade, spregiudicato politico ateniese di V secolo, che fu il voltagabbana più famoso delle storia. Bellissimo, ricchissimo e membro di una delle famiglie più nobili della Grecia (era nipote di Pericle e discendente degli ultimi re di Atene) finanziò un carro per vincere ad Olimpia e da lì comincio la sua carriera politica di spregiudicato demagogo. Coinvolse Atene in una rovinosa spedizione contro Siracusa, poi cambiò campo per evitare un processo per empietà e passò con gli spartani nemici di Atene, che poi mollò ritornando con gli Ateniesi e tentando di intrallazzare con il re di Persia. Morì alla fine ucciso, e dopo tutti i casini combinati fu forse l’unico i cui meriti sportivi ad Olimpia caddero nel dimenticatoio.
I tiranni di Siracusa usarono la loro incredibile ricchezza per portare ad Olimpia sontuosi team per le corse, che spesso trionfarono. Ma i Siracusani, come abbiamo visto, spesso non erano ben visti dai Greci del continente, e in particolare dagli Ateniesi, visto che Siracusa ed Atene erano due potenze marittime e in concorrenza fra loro. Durante la guerra del Peloponneso (fine V secolo a.C.) Siracusa e Atene si scontrarono fisicamente, e Atene ebbe la peggio. Per questo nel 388 l’oratore democratico ateniese Lisia approfittò dei giochi olimpici per colpire il nemico, e aizzò la folla contro l'accampamento che il tiranno di Siracusa Dioniso aveva fatto erigere. Dioniso aveva irritato i Greci con il suo comportamento diciamo sopra le righe: non solo le tende allestite erano di un lusso imbarazzante ma si era portato dietro anche degli aedi che recitavano in pubblico versi di un poema composto da lui. Poema che, a detta di tutti, era una schifezza immonda. L’avventura olimpica di Dioniso si concluse malissimo. Durante la gara i suoi due carri si scontrarono finendo fuori pista, e sulla via del ritorno a Siracusa le navi della sua ambasceria furono travolte da una tempesta. I pochi scampati al naufragio finirono con il pensare che gli dei avessero voluto punire il tiranno per la sua hybrìs (parola greca che indica la deplorevole tendenza a strafare). Che era un modo elegante per dire che un po’ se l’era tirata.
La politica nello sport fa parte del gioco
Insomma, chi dice che gli atleti non dovrebbero parlare o prendere posizioni politiche pare dimenticarsi o non sapere che politica, sport e propaganda sono collegati dalla notte dei tempi, e i nostri antenati greci erano persino più portati di noi nell’usare le competizioni sportive come palcoscenico per rivendicazioni di vari natura. Quindi tanto vale smettere di lamentarsi se gli sportivi esprimono le loro idee e diventano testimonial di campagne di sensibilizzazione.
In questo caso si può dire che fa da sempre parte del gioco.