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Contrastare l’hate speech online: questioni aperte e alcune proposte

18 Febbraio 2017 18 min lettura

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Contrastare l’hate speech online: questioni aperte e alcune proposte

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The peculiar evil of silencing the expression of an opinion is, that it is robbing the human race; posterity as well as the existing generation; those who dissent from the opinion, still more than those who hold it. If the opinion is right, they are deprived of the opportunity of exchanging error for truth: if wrong, they lose, what is almost as great a benefit, the clearer perception and livelier impression of truth, produced by its collision with error (John Stuart Mill)

Il dibattito sull'hate speech in rete, cioè le espressioni di incitamento all'odio, coinvolge ormai le massime istituzioni, dalla Commissione europea, che ha ottenuto un accordo tra le principali aziende del web, delegando a queste la gestione dell’hate speech online, alla Presidente della Camera che accusa Facebook di fare poco e pretende nuovi strumenti online per contrastare le espressioni di odio.

A causa della sua esperienza storica con il fascismo e il comunismo, l’Europa vede la soppressione dei discorsi d’odio come un modo per promuovere la democrazia. Da qui la nascita di accordi tra gli Stati europei per l’espansione delle sanzioni penali ai discorsi razzisti e xenofobi commessi attraverso i sistemi informatici. Si studiano protocolli di intesa e accordi con i social network, invocando l’intervento statale per proteggere la dignità, la privacy e la reputazione. La prospettiva americana viene criticata – negli Usa infatti non si condanna la diffamazione di gruppo e i discorsi di odio sono comunque considerati libertà di espressione e tutelati, almeno finché non incitano alla violenza – e si guarda con simpatia alle leggi del Regno Unito, della Germania e della Francia, che vietano le manifestazioni di odio razziale e religioso anche quando non c’è alcun rischio di violenza. L’odio è sempre più considerato una minaccia per la pace sociale.

La proliferazione dell’hate speech pone una serie di nuove sfide. Esistono ben pochi studi specifici e in genere sono focalizzati su aspetti particolari. Ma in realtà l’hate speech online non è intrinsecamente differente dalle analoghe espressioni offline, anche se alcune peculiarità dipendono dal mezzo (Internet): l’estrema diffusione, la permanenza, la facilità di condivisione e la transnazionalità che rende più difficile una risposta giurisdizionale.

Le definizioni

Il primo passo per contrastare i discorsi d’odio è fissare una definizione. "Hate speech" è, infatti, un termine troppo ampio e contestato, menzionato direttamente o indirettamente in molti trattati internazionali che obbligano gli Stati a introdurre norme in materia.

La Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 - che però non è vincolante - prevede il diritto alla tutela da discriminazioni.

Articolo 7 - Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.

La Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR) sancisce il diritto alla libertà di espressione (articolo 19) e la proibizione degli appelli all'odio nazionale, razziale e religioso che costituiscano incitamento alla discriminazione e alla violenza (articolo 20).

Articolo 19
1. Ogni individuo ha diritto a non essere molestato per le proprie opinioni.
2. Ogni individuo ha il diritto alla libertà di espressione; tale diritto comprende la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto, attraverso la stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi altro mezzo di sua scelta
3. L'esercizio delle libertà previste al paragrafo 2 del presente articolo comporta doveri e responsabilità speciali può essere pertanto sottoposto a talune restrizioni che però devono essere espressamente stabilite dalla legge e necessarie:
a) al rispetto dei diritti o della reputazione altrui;
b) alla salvaguardia della sicurezza nazionale, dell'ordine pubblico, della sanità o della morale pubbliche.

Art. 20
2. Qualsiasi appello all'odio nazionale, razziale o religioso che costituisca incitamento alla discriminazione, all'ostilità o alla violenza deve essere vietato dalla legge.

L’articolo 19 estende la tutela a “idee di ogni genere”, impedendo così agli Stati di sottrarre specifici contenuti alla protezione della norma, e include le espressioni veicolate “attraverso qualsiasi altro mezzo”, così ricomprendendo anche quelle su Internet. Ovviamente la libertà di espressione non è un diritto assoluto, ma le restrizioni devono essere previste dalla legge e devono essere necessarie. Inoltre, la libertà di espressione può essere limitata solo per la tutela del diritto alla reputazione, della pubblica sicurezza o dell’ordine pubblico, della salute pubblica o della pubblica morale. La norma, infine, va interpretata nel senso che oscuramenti generalizzati di siti non sono ammissibili, ma occorre che siano relativi a specifici contenuti.

La Convenzione per la prevenzione e punizione del crimine di genocidio (1951) mira a tutelare i gruppi definiti per razza, etnia e nazionalità, comprendendo anche quelli religiosi. Ovviamente si limita alle azioni commesse con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, gruppi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

La Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (ICERD, 1969) si limita alle discriminazioni relative alla razza e l’etnia.

Art. 4 - Gli Stati contraenti condannano ogni propaganda ed ogni organizzazione che s’ispiri a concetti ed a teorie basate sulla superiorità di una razza o di un gruppo di individui di un certo colore o di una certa origine etnica, o che pretendano di giustificare o di incoraggiare ogni forma di odio e di discriminazione razziale, e si impegnano ad adottare immediatamente misure efficaci per eliminare ogni incitamento ad una tale discriminazione od ogni atto discriminatorio, tenendo conto, a tale scopo, dei principi formulati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dei diritti chiaramente enunciati nell'articolo 5 della presente Convenzione, ed in particolare:
a) a dichiarare crimini punibili dalla legge, ogni diffusione di idee basate sulla superiorità o sull'odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, nonché ogni atto di violenza, od incitamento a tali atti diretti contro ogni razza o gruppo di individui di colore diverso o di diversa origine etnica, come ogni aiuto apportato ad attività razzistiche, compreso il loro finanziamento;
b) a dichiarare illegali ed a vietare le organizzazioni e le attività di propaganda organizzate ed ogni altro tipo di attività di propaganda che incitino alla discriminazione razziale e che l’incoraggino, nonché a dichiarare reato punibile dalla legge la partecipazione a tali organizzazioni od a tali attività;
c) a non permettere né alle pubbliche autorità, né alle pubbliche istituzioni, nazionali o locali, l’incitamento o l’incoraggiamento alla discriminazione razziale.

La ICERD prevede la punizione anche per la mera diffusione di messaggi d’odio o superiorità razziale, laddove invece la "Convenzione internazionale sui diritti civili e politici" richiede, per la punibilità, che ci sia l’intento di seminare odio, intento che, quindi, deve essere provato. Questo è rilevante per gli spazi online, all'interno dei quali sarebbe così sufficiente la sola diffusione dei messaggi d’odio per un intervento.

La Convenzione per l’eliminazione di discriminazione contro le donne (CEDAW, 1981) si riferisce agli atti di violenza e discriminazione basati sul genere e sull'identità sessuale. In questo ambito l’ONU ha chiesto agli Stati di prendere misure contro la diffusione di materiale pornografico degradante che dipinge le donne come oggetti.

Infine, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea prevede la libertà di espressione all'articolo 11, il quale proibisce l’abuso dei diritti e di conseguenza devono ritenersi inammissibili quelle limitazioni alla libertà di espressione che non siano previste dagli scopi della Carta.

In conclusione, una definizione comune di hate speech non esiste, ma in genere nelle legislazioni ci si riferisce a discorsi di discriminazione, ostilità e violenza, quindi invocazioni contro persone identificate con gruppi sociali o demografici. Talvolta sono inclusi anche discorsi di incitamento alla violenza, e altri che favoriscono un clima di pregiudizio e intolleranza, che poi possono eventualmente portare alla discriminazione mirata e ad attacchi violenti.
Nel linguaggio comune hate speech ha una definizione più ampia, finendo per ricomprendere insulti contro le autorità o espressioni dispregiative per individui particolarmente esposti al pubblico.

In genere, si parla di hate speech con riferimento a gruppi o categorie di persone e non a singoli. Nel caso dei singoli, infatti, esistono altri strumenti per contrastare eventuali espressioni d’odio, dalle leggi penali (diffamazione, ingiurie, stalking) ad azioni civili di risarcimento del danno oppure esposti alle Autorità di Polizia (es. art. 1 TULPS).

Il piano di azione Rabat

Il documento più importante per il contrasto all’hate speech è la "Convenzione internazionale sui diritti civili", il cui articolo 20, però, presenta definizioni ampie che possono portare ad abusi. Per questo l’ONU ha avviato negli anni una serie di consultazioni che sono sfociate nel piano d’azione Rabat (Rabat è la città del Marocco dove fu approvato il documento), lanciato dall’Alto Commissario per i diritti umani dell’ONU nel 2013. L'iniziativa, che ha cercato di spostare il dibattito su basi legali solide, chiarisce la portata degli obblighi di uno Stato ai sensi dell’articolo 20 della Convenzione e propone un test per l’identificazione dei messaggi d’odio.

In base al piano RABAT, infatti, gli Stati dovrebbero essere guidati da riferimenti espressi all'art. 20 del ICCPR nelle loro legislazioni nazionali, che dovrebbero includere precise definizioni dei termini chiave come odio, discriminazione, violenza, ostilità. Gli Stati, inoltre, dovrebbero abrogare la blasfemia e la diffamazione delle religioni, trattandosi di norme incompatibili con la libertà di espressione e di religione. Infine, dovrebbe essere il sistema giudiziario a garantire un'interpretazione uniforme delle norme in materia di incitamento all'odio e le sanzioni criminali dovrebbero essere applicate solo nei casi più gravi.

Il piano si concentra dunque sull'esigenza di una serie di risposte differenti ai discorsi d’odio, che non siano limitate alla sanzione criminale o alla semplice soppressione del discorso. Tali risposte dovrebbero promuovere un dialogo interculturale, il pluralismo e la diversità e misure concrete a tutela delle minoranze e dei gruppi vulnerabili.

Infatti, nel piano il Relatore dell’ONU evidenzia che l’hate speech quasi sempre nasce a seguito di una precedente stigmatizzazione e deumanizzazione di un gruppo specifico ed è la conseguenza di conflitti tra gruppi o categorie differenti. In tal senso è vero che le nuove tecnologie (Internet) amplificano tali discorsi in quanto consentono facilmente a gruppi e categorie di dialogare tra loro, laddove nella vita reale potrebbe risultare più difficile.

Il documento differenzia 3 tipi di hate speech:

1) Espressioni costituenti reato penale.
2) Espressioni non costituenti reato penale ma illecito civile.
3) Espressioni che non sono illecite ma sollevano problemi in termini di tolleranza, civiltà e rispetto per gli altri.

Una definizione di hate speech, quindi, dovrebbe essere il più possibile ristretta e precisa, limitandosi ai discorsi d’odio pericolosi, cioè quelli che hanno elevata probabilità di catalizzare la violenza contro un gruppo. Il rapporto Rabat propone di tenere in conto la popolarità dell’oratore (maggiore popolarità comporta maggiore diffusione del messaggio), lo stato emotivo degli ascoltatori, il contenuto (in particolare se è una vera e propria chiamata all'azione), il tipo di termini utilizzati.

La questione della giurisdizione

Le attività online coinvolgono molti paesi – e quindi giurisdizione diverse –, per cui può essere complicato per uno Stato attuare la propria legge nazionale nel mondo online. In tale prospettiva appare ormai superata la problematica sugli spazi privati dei social network. Trattandosi di spazi pubblici nei quali si esercitano diritti fondamentali, anche se di proprietà di privati, dovrebbe essere ormai ovvio che uno Stato ha tutto il diritto di imporre specifici obblighi alle aziende private che agiscono nel web in forma di semi monopolio. Molte aziende sono divenute consapevoli del problema e partecipano attivamente alla stesura di protocolli e intese.

Trattandosi di imprese commerciali, un governo dovrà sempre tenere in conto che il loro interesse è il profitto e non certo la tutela dei diritti del cittadino. Per questo delegare al privato la repressione dell’hate speech potrebbe portare ad abusi in assenza di opportuni paletti imposti dalle Autorità. È necessario imporre obblighi di trasparenza sulle decisioni e per quanto possibile occorre che le definizioni siano fissate dalle pubbliche autorità.

Il progetto UMATI

Uno degli studi più interessanti sul fenomeno dell’hate speech online viene dal Kenya. Tra il settembre del 2012 e il marzo del 2013, il progetto UMATI si occupò di analizzare l’hate speech online durante il periodo elettorale, caratterizzato da accuse che anticipavano possibili violenze. Il progetto utilizzava la definizione di hate speech di Susan Benesch (Dangerous Speech: A Proposal to Prevent Group Violence), che si focalizza sulle espressioni in grado di catalizzare violenza.

I risultati dello studio furono piuttosto interessanti, evidenziando la complessità dei collegamenti tra l’hate speech online e la violenza nella vita reale. Infatti, a differenza delle precedenti elezioni del 2007, queste davvero caratterizzate da violenza (circa 1000 morti e 600mila sfollati), le elezioni del 2013 furono in gran parte pacifiche. Il progetto UMATI riscontrò comunque una varietà di espressioni d’odio estremamente pervasive e violente, ma l’hate speech online non si tradusse direttamente in violenza nelle strade.

Il progetto UMATI mostrò che l’hate speech online non può essere il solo precursore della violenza nella vita reale, ma una finestra di comprensione delle conversazioni offline (e quindi può essere utile per scoprire problemi sociali). Inoltre, l’hate speech può essere una reazione agli eventi che accadono nella vita reale.

Hate speech online e offline

Le caratteristiche dei discorsi di odio e la loro relazione con l’offline sono spesso poco conosciute. Nei recenti dibattiti si tende alla criminalizzazione del mezzo (Internet), come se la sua velocità di diffusione fosse la causa scatenante dell’hate speech, mettendo da parte, invece, le vere cause del problema.

Seguendo questo ragionamento appare ovvio che la soluzione, l’unica prevista, sia la soppressione dei discorsi d’odio. Specialmente online la risposta richiesta ai social network è univoca, ma la cancellazione di una espressione d’odio non risolve il problema se alla base vi è un malcontento, una discriminazione sociale. L’autore semplicemente trasferirà il suo malcontento altrove, nel mondo reale, casomai in famiglia. Si oscura un problema (senza risolverlo) per crearne un altro.

L’impressione, quindi, è che la politica si occupi del problema solo superficialmente, senza una reale comprensione non solo delle peculiarità del mezzo (internet), ma anche delle cause sottostanti il problema stesso.

È però pacifico che Internet alimenti la diffusione e la permanenza del messaggio d’odio. Inoltre, un'errata comprensione del funzionamento di Internet porta alcuni a considerare più difficile, se non impossibile, essere rintracciati. Di conseguenza le persone possono credere di essere protette da una sorta di anonimato. Per questo alcuni governi hanno chiesto nuove politiche di eliminazione dell’anonimato in rete (real names policies), ma iniziative del genere (anche Facebook per un certo periodo cercò di costringere gli utenti a usare i nomi reali, anche se probabilmente era principalmente per motivi commerciali) hanno sempre trovato una forte opposizione da parte delle associazioni per i diritti civili, in quanto in contrasto con il diritto alla privacy e con la libertà di espressione. In realtà, l’anonimato o lo pseudoanonimato consentono a molte persone di poter denunciare non solo reati, ma anche atti di discriminazione contro di loro, senza il timore di doverne subire delle ritorsioni (quali licenziamenti, minacce, aggressioni).

Altro aspetto che non va trascurato è che l’hate speech, inteso come linguaggio provocatorio, tagliente, che tende a ridicolizzare, è spesso l’unico mezzo utilizzabile per raccogliere l’attenzione della platea online. Questa è una differenza di non poco conto con i media tradizionali.

Nei momenti critici (es. elezioni), infine, l’hate speech può essere facilmente soggetto a manipolazioni, con accuse verso le opposizioni politiche di fomentare l’odio sociale e quindi diventare strumentale alla soppressione della dissidenza. Infatti l’hate speech è spesso uno strumento utilizzato dal gruppo dominante per reprimere la dissidenza e imporre la propria visione del mondo (durante l’apartheid in Sud Africa, le leggi sull’hate speech erano usate per criminalizzare le critiche verso la supremazia bianca).

È evidente, quindi, che i provvedimenti di soppressione dei discordi d’odio possono non essere il mezzo migliore per contrastarli, e possono portare anche ad abusi, senza in realtà risolvere nulla nel caso in cui vi sia un problema sociale. Paradossalmente le limitazioni alla libertà di espressione, giustificate da esigenze di repressione dell’odio online, possono portare alla recrudescenza del problema.

Article 19, un'organizzazione per la tutela dei diritti umani, ha più volte sostenuto che la libertà di espressione e l’uguaglianza vanno a braccetto, sostenendosi l’una l’altra. Le limitazioni alla libertà di espressione, la rimozione delle espressioni d'odio, hanno spesso gravi conseguenze sull'uguaglianza. In tale prospettiva è pacifico che l’esistenza di media indipendenti e pluralistici è essenziale per una concreta lotta alla discriminazione e la promozione di intese interculturali.

While much attention is rightly paid to legal responses to hate speech, equal attention and discussion should be dedicated to non-legal and social responses (Relatore per i diritti umani dell’ONU, 2015).

Le misure adottate dalle piattaforme online

Gli intermediari di Internet, i fornitori di servizi e in particolare i gestori dei social network sono i soggetti che si trovano in prima fila per un’eventuale attività di contrasto all’hate speech. A tal proposito un documento (Guiding principles on business and human rights) elaborato dall’ONU evidenzia la responsabilità delle aziende private nella gestione dei diritti umani. Il Principio 11 prevede:

Business enterprises should respect human rights. This means that they should avoid infringing on the human rights of others and should address adverse human rights impacts with which they are involved.

In caso di violazioni dei diritti umani, le aziende private devono fornire delle procedure per una loro tutela. Ovviamente l’attuazione di questi principi è piuttosto difficile, in particolare perché il settore privato può fissare i suoi termini di servizio (TOS, terms of services) restringendo gli spazi per la libertà di espressione rispetto alle Convenzioni internazionali. Inoltre, nel momento in cui è l’azienda a valutare le violazioni dei diritti umani – poiché tale valutazione implica un bilanciamento dei diritti, compito difficile anche per giudici preparati – è possibile che vi siano valutazioni sbagliate. In questa prospettiva è pacifico che occorre aumentare la trasparenza delle aziende relativamente ai criteri di valutazione e l’impatto delle loro policy sui diritti umani.

Yahoo proibisce i contenuti illeciti, dannosi, abusivi, molesti, diffamatori, volgari, osceni, lesivi della privacy altrui, odiosi, o offensivi per una razza o etnia. Per l’identificazione dei contenuti offensivi si basa su un algoritmo, costruito partendo dall’analisi di contenuti di hate speech valutati da essere umani. L’algoritmo non si ferma alla mera ricerca di parole chiave, ma procede all’analisi delle frasi per l’identificazione di discorsi d’odio. Il tasso di precisione è ritenuto del 90% circa. Yahoo punta anche a rilasciare la sua banca dati di discorsi d’odio, in modo che altri siti possano utilizzarla al fine di progettare il loro algoritmo contro l’hate speech.

Twitter, nelle sue regole d’uso, vieta agli utenti di pubblicare minacce o incitamento alla violenza, molestie, o di promuovere la violenza contro una persona o attaccarla in base alla razza, etnia, origine nazionale, orientamento sessuale, religione, età, disabilità o malattia. Il social network non vuole limitare la libertà di espressione, ma col tempo ha preso diverse misure per affrontare il problema dell’hate speech. Specialmente a seguito dell’elezione del Presidente Usa Donald Trump, quando il servizio è stato infestato da insulti nei confronti delle minoranze, l’azienda ha introdotto il blocco degli utenti in modo da nascondere i contenuti offensivi nelle discussioni e la possibilità di impedire la reiscrizione di utenti già bannati per condotte illecite.

Youtube incoraggia e difende il diritto alla libertà di espressione, cercando un difficile equilibrio con le restrizioni a specifiche forme di contenuto. Vieta espressamente l’hate speech utilizzando una definizione più ampia rispetto a quella della "Convenzione internazionale per i diritti umani".

Microsoft è un altro esempio di come le aziende private possano essere più restrittive delle leggi internazionali sull’hate speech. Infatti, condanna anche i temi religiosi controversi e i contenuti storici o di attualità sensitive.

Facebook precisa di rimuovere l’hate speech, che include contenuti che attaccano direttamente altre persone basandosi sulla razza, etnia, originale nazionale, religione, orientamento sessuale, sesso, genere e identità di genere. L’azienda ha pubblicato una propria Dichiarazione dei diritti e delle responsabilità che vieta i discorsi d’odio, evidenziando, in assenza di una definizione universalmente accettata di hate speech, una propria definizione del termine. Il social network tiene, però, a precisare che molti contenuti tra l’umorismo e il cattivo gusto non rientrano nella categoria di hate speech. In questi casi l’azienda cerca di applicare politiche eque, sulla base delle propria definizione di hate speech.

L’autonomia delle singole aziende nel fissare le proprie policy e le proprie definizioni, crea una situazione estremamente varia e non uniforme nel contrasto dell’hate speech online. Emerge chiaramente che l’attuazione di forme di contrasto dipende molto dalla sensibilità dei singoli, coloro che pongono le definizioni e che programmano gli algoritmi, oppure gestiscono in prima persona le segnalazioni degli utenti. Inoltre, considerando l’enorme quantità di dati che fluiscono sui loro server, è ovvio che l’unica gestione possibile è attraverso gli algoritmi, salvo una verifica manuale in caso di controversie.

La necessità di utilizzare algoritmi di verifica implica la possibilità di errori e quindi si avverte una ovvia prudenza da parte delle aziende nella gestione dell’hate speech, prudenza che ha provocato rimostranze da parte del Commissario europeo Jourova, il quale nell'ambito dell’accordo sull’hate speech con le principali 4 aziende del web (Youtube, Facebook, Twitter e Microsoft) ha preteso un tasso di rimozione decisamente maggiore. In passato abbiamo, purtroppo, potuto notare che l’utilizzo di algoritmi non porta sempre a scelte adeguate, e che anche il controllo umano può determinare gravi errori (si veda la censura della foto simbolo della guerra in Vietnam imposta in un primo momento da Facebook e poi ripristinata dallo stesso social network).

Il paradigma Troll

L’hate speech non è certo una novità dell’era tecnologica. La politica, erroneamente, sostiene che in rete sia più facile divenire aggressivi perché manca una sanzione sociale dell’aggressività. In realtà questo è vero per tutti i discorsi d’odio, anche quelli in televisione o sui giornali.

La delega della politica alle società tecnologiche comporta un problema, poiché in molti casi si dà per scontato che il pregiudizio e l’odio siano dei comportamenti devianti, ma gli studi contestano questa ipotesi. L’hate speech è connaturato all'uomo, la misoginia è radicata nella cultura occidentale, le molestie non possono essere combattute rimuovendo singoli contenuti, l’effetto è solo di spostare l’hate speech altrove.

La differenza dell’era tecnologica sta nel mezzo. Se un tempo era solo l'élite a poter diffondere il proprio pensiero (tramite la televisione e i giornali), oggi con Internet chiunque può farlo. L'élite tende ad autoassolversi (un esempio riguardante un eurodeputato lo trovate alla fine dell’articolo sull’accordo hate speech) e a giustificare i propri discorsi d’odio (spesso utilizzandoli per contrastare la dissidenza). Se davvero si vogliono eliminare i discorsi d'odio, la politica deve condannare per prima i propri, non può fare finta di nulla e sostenere che la colpa sia solo della gente “cattiva e incivile”.

Il modo in cui la società tratta coloro che superano determinati limiti invisibili la dice lunga sulla retorica dell’apertura e della libertà di espressione. Il trattamento dedicato ai troll, provocatori e dissacranti, talvolta al limite dell'offensivo, ma che spesso garantiscono utili approfondimenti, è la misura della quantità di spazio lasciato alle opinioni estreme.

Ma il troll è il prodotto diretto di come sono ideati i social media, che enfatizzano l’attualità, l’aggiornamento rapido e l’intervento breve e secco, quasi violento per potersi distinguere nella massa dei messaggi che a migliaia fluiscono in rete, mettendo così da parte le discussioni ragionate e gli interventi lunghi e contestualizzati. È il medesimo effetto ottenuto dal passaggio dai media cartacei alla televisione, laddove in quest’ultima la degenerazione dei talk show è sempre più all'ordine del giorno, talvolta appositamente cercata perché garantisce ascolti maggiori.

Occorre riconoscere che la democrazia è il risultato di un dialogo continuo tra le parti, costituito anche da contestazioni e disaccordi, scioperi e proteste. Per questo motivo una risposta legale ed esclusivamente repressiva dell’hate speech può compromettere il corretto equilibrio che è la base della democrazia. Il dissenso, la contestazione, la protesta di piazza, sono spesso attuate tramite discorsi di hate speech ed espressioni offensive, ma sono generalmente anche l'espressione di un malcontento, di un qualcosa che non funziona nella società. Ma nel rancore delle élite, la cultura populista dei commenti online finisce per essere relegata sempre più spesso nella definizione di trolling o addirittura di hate speech (Geert Lovink, L'Abisso dei social media). La semplice soppressione, come rilevato da Article 19, può risultare deleteria per la stessa libertà, quella delle minoranze ovviamente e dei discriminati. Una democrazia non può vivere nascondendo i disagi sociali di parte della popolazione.

Negli Usa ben pochi dubitano che l’hate speech infligga un danno alle persone, ma gli americani temono di più la censura, sono consci che occorra una particolare attenzione nel regolamentare i discorsi d’odio. Una semplificazione del problema scade facilmente nella censura, che ovviamente colpisce i discorsi dei cittadini, non certo quelli delle élite. Ecco perché è necessario che la normalità sia il libero fluire delle parole online e solo in casi gravi si ricorra alla soppressione dei discorsi d’odio, preferendo delle risposte alternative, quali politiche volte alla riduzione delle discriminazioni sociali, politiche educative per la responsabilizzazione dei cittadini, preparandoli alla comprensione dei propri diritti e all'identificazione dell’hate speech nella vita reale e online.
E lì, purtroppo, finiamo per scontrarci contro le mille inefficienze dello Stato.

So we were invited to talk about hate speech, but then we ended up talking about freedom Nanjira Sambuli, UMATI 2014

Alcune proposte

Una soluzione all’hate speech online non può che essere collaborativa, da un lato le istituzioni devono farsi carico di capire esattamente il problema e individuare regole e definizioni, dall’altro le piattaforme online devono attuare le risposte che vengono individuate. È ovvio che la semplice soppressione dei discorsi d’odio non è una soluzione possibile, occorrono più risposte a seconda del tipo di discorso:

  • Definizioni precise dei termini chiave fissate nelle leggi.

  • Limitazioni alla libertà di espressione previste dalla legge.

  • Sistema giudiziario a garanzia dell'interpretazione uniforme delle norme.

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  • Previsione di una serie di risposte, non limitate alla semplice repressione e proporzionate al tipo di contenuto.

  • Promozione del dialogo interculturale, del pluralismo, della diversità e della tutela delle minoranze.

  • Obblighi di trasparenza per le piattaforme online (criteri di valutazione e provvedimenti adottati).

Foto anteprima via Nowtheendbegins.com

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