La democrazia israeliana, le proteste e il grande rimosso: l’occupazione della Palestina
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I brevi video dalla Città Vecchia di Gerusalemme, registrati con i telefonini e postati sui social, non mostrano i momenti dell’uccisione di Mohammed Khaled al Osaibi, nella notte tra venerdì e sabato. Notte di ramadan. Mostrano, da lontano, il corpo sulla pavimentazione bianca della Spianata delle Moschee, all’altezza della Porta delle Catene, una delle porte che immette nel grande area dove si trovano la moschea di Al Aqsa e la Cupola della Roccia. Poche ore prima duecentomila persone si erano riunite per la preghiera del venerdì.
È l’audio, invece, a mostrare la realtà quotidiana dura, durissima, nella Città Vecchia. L’audio registra, infatti, la sequenza dei colpi, tanti: almeno una decina. Sono i colpi sparati dalle armi in dotazione alle guardie di frontiera israeliane. M16, in genere. Così è stato ucciso Mohammed Khaled al Usaibi, giovane medico di 26 anni, proveniente dalla cittadina di Hura, nel Negev. Ironia della sorte, aveva superato da poco gli esami per esercitare la professione di medico in Israele.
Le autorità israeliane sostengono che volesse rubare un’arma dalle forze di sicurezza. I testimoni oculari dicono invece un’altra versione: che stesse difendendo una donna che voleva entrare sulla Spianata delle Moschee, e le veniva impedito l’ingresso. La tensione, già alta a Gerusalemme prima che iniziasse il mese di ramadan, è ora molto alta: oggi (domenica) è stato proclamato uno sciopero dei palestinesi in Israele per l’uccisione a sangue freddo e a distanza ravvicinata di Mohammed al Usaibi, appartenente alla comunità beduina del sud.
Il primo sabato dopo la decisione di Netanyahu di sospendere (per il momento) la controversa riforma del sistema giudiziario inizia in questo modo, riproponendo il grande rimosso: l’occupazione israeliana della Palestina. Compresa Gerusalemme est, in cui ricade anche la Città Vecchia. Un rimosso che significa vite, persone: 88 i palestinesi uccisi nei primi tre mesi del 2023 dalle forze armate o dai coloni israeliani. Una media di una persona uccisa al giorno.
A due chilometri circa di distanza, sabato sera, David Grossman ha parlato ai dimostranti che hanno manifestato contro Netanyahu, il suo governo e la riforma del sistema giudiziario. Nonostante la sospensione (temporanea) della riforma proclamata da Netanyahu, la piazza israeliana non si svuota. Anzi. Continua a esercitare la sua pressione sulla coalizione di destra-estrema destra. Centinaia di migliaia di persone in tutta Israele, per il tredicesimo sabato consecutivo, sono scese di nuovo per le strade. E Grossman a Gerusalemme ha fatto entrare, in modo autorevole, la questione nodale dell’occupazione della Palestina nella protesta tutta israeliana-ebrea. “La vita in Israele è fatta di molte ingiustizie e altrettanti errori, ma il peggiore di tutti è la rimozione di un fatto intollerabile: e cioè che noi siamo una nazione che continua a occupare un altro popolo da 55 anni”. Da 55 anni, e cioè da oltre due terzi della sua esistenza come Stato, Israele occupa la Palestina: è il grande rimosso, non solo in queste proteste. È il “cancro dell’occupazione”, come nel corso dei decenni lo hanno definito sia gli israeliani sia i palestinesi. È il vulnus che erode la democrazia israeliana, segnata dunque da criticità molto profonde non da ora, non dall’ascesa al potere della destra estrema e suprematista, bensì da decenni.
In questi mesi, l’Israele della protesta non ha posto al centro l’occupazione. Le ragioni sono di diverso tipo. La prima: la protesta è trasversale, mette cioè insieme, nelle piazze, israeliani ebrei che sull’occupazione hanno posizioni differenti e che, però, sono uniti da altri collanti sociali e politici. La seconda: una parte della protesta ha, talvolta anche inconsapevolmente, introiettato che il nuovo governo di destra non ha solo nei palestinesi il bersaglio delle proprie politiche repressive. Da ora in poi sono bersaglio anche quei cittadini che non sono ritenuti da questa coalizione israeliani ebrei secondo un canone ben definito. Bersaglio diventano, insomma, i progressisti, i radicali, le femministe, le comunità LGBTQ+. Non è neanche più solo un confronto tra i settori laici e ortodossi della società israeliana, poiché la protesta ha spesso visto insieme persone appartenenti a entrambi i campi. È l’idea stessa di poter essere colpiti come elementi spuri rispetto alla realizzazione di una visione integralista di Israele.
La critica senza sconti da parte degli analisti palestinesi è però che, in ogni caso, la protesta degli israeliani ebrei sia solamente un tentativo di preservare l’“etnocrazia ebrea nello Stato coloniale d’insediamento che è Israele”, come dice ad esempio una delle analiste di punta del think tank palestinese al Shabaka, Yara Hawari. Una posizione condivisa da molti, anche tra gli israeliani che in questi anni più si sono battuti per una critica radicale alla politica di annessione della Cisgiordania e di Gerusalemme est mantenendo i palestinesi senza diritti e in condizione di totale subalternità.
La questione è che, però, questa sorprendente protesta – a detta di tutti la più imponente e importante nei 75 anni di storia del paese – riguarda solo gli israeliani ebrei, la loro concezione della democrazia, il loro stesso futuro. Può apparire a prima vista contraddittorio, visto che una democrazia compiuta non si può basare sull’occupazione di un’altra terra e di un intero popolo. Eppure, nelle dinamiche in atto in Israele/Palestina, gli israeliani ebrei hanno anzitutto bisogno di guardarsi allo specchio, da soli. Di riflettere su quello che è successo, in questi decenni, e su cosa significa un impianto democratico. Chi ha vissuto dentro la grammatica israelo-palestinese sa che la presenza palestinese in piazza, per esempio, avrebbe fatto da catalizzatore, e gli israeliani ebrei non si sarebbero trovati costretti a interrogarsi sul paese che loro hanno costruito e in cui hanno vissuto.
Proprio per questo, sono gli stessi palestinesi con cittadinanza israeliana, vale a dire un quinto della popolazione, a non voler partecipare a una protesta che è tutta all’interno dei sette milioni che costituiscono gli israeliani ebrei.
È ancora Grossman, in un articolo di pochi giorni fa, a spiegare quello che sta succedendo in questi mesi:
“Anche chi, come me, lotta contro l'occupazione da più di quarant'anni, riconosce - anche se mestamente - che una discussione pubblica sull'occupazione non farebbe altro che dividere e smantellare il movimento di protesta, allontanando dalla piazza ampi settori dell'opinione pubblica. Al momento, la maggior parte degli israeliani non riesce a guardare con lucidità all'occupazione. Non ancora. Ma trovo una certa consolazione nel fatto che questioni politiche e sociali che per anni sono rimaste stagnanti, come acque paludose, potrebbero ora iniziare a muoversi. E forse la prospettiva di riavviare la questione dell'occupazione riemergerà in un modo nuovo, creativo e più audace, e comincerà a influenzare la consapevolezza delle persone”.
Immagine in anteprima: Frame video ABC News via YouTube