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Nuovo coronavirus: l’esperienza svedese è un esempio da seguire?

29 Maggio 2020 21 min lettura

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Nuovo coronavirus: l’esperienza svedese è un esempio da seguire?

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Nuovo coronavirus: il consulente della Svezia per COVID-19 Anders Tegnell ammette per la prima volta che il paese avrebbe dovuto adottare misure più severe per contrastare i contagi

Aggiornamento 3 giugno 2020: «Se incontrassimo oggi la stessa malattia per come l’abbiamo conosciuta finora, penso che adotteremmo tutti un approccio a metà strada tra quello della Svezia e quello del resto del mondo». In un’intervista a Sveriges Radio, il consulente dello Stato svedese per COVID-19, Anders Tegnell, per la prima volta ha ammesso che la Svezia avrebbe dovuto imporre maggiori restrizioni per impedire un così alto numero di morti a causa di COVID-19. Tegnell ha aggiunto anche che, in assenza di un’analisi controfattuale, è difficile sapere con certezza quali misure sono state al momento più efficaci. Attualmente in Svezia sono morte 4.468 persone per COVID-19. In Danimarca sono state registrate 580 vittime e in Norvegia 237.

Queste affermazioni sono in controtendenza rispetto alle posizioni che finora ha avuto Tegnell che, in passato, aveva criticato tutti quei paesi che avevano optato per il lockdown e aveva sostenuto che l’approccio della Svezia era più sostenibile.

A differenza di altri paesi che hanno seguito l’esempio della Cina, chiudendo tutto per alcuni mesi nel tentativo di azzerare i contagi a costo di grosse ricadute economiche e sociali, la Svezia ha deciso di non istituire un lockdown rigoroso con obblighi di legge.

A fine aprile il governo ha pubblicato delle linee guida che raccomandavano alcuni comportamenti che i cittadini avrebbero dovuto seguire per aiutare a tenere bassa la curva dei contagi: lavarsi le mani, stare lontani fisicamente, evitare viaggi non essenziali, lavorare il più possibile da casa. Agli anziani è stato detto di rimanere a casa ed evitare un contatto stretto con gli altri. Sono stati banditi assembramenti con oltre 50 persone, ma sono state tenute aperte le scuole per gli studenti al di sotto dei 16 anni e non sono stati chiusi i bar, i ristoranti e le palestre, pur dovendo garantire alcune misure di distanziamento fisico. In sostanza, l’idea era di alterare la vita pubblica il meno possibile, nel convincimento che non vi è modo di sopprimere il nuovo coronavirus fino a quando non sarà stato approvato un vaccino efficace, sicuro e disponibile in tutto il mondo.

Intanto, il governo di centro-sinistra ha annunciato entro l’estate una commissione d’inchiesta che valuterà le strategie di contrasto di diffusione del nuovo coronavirus adottate, rispondendo così alle pressioni delle opposizioni.

L’umore dell’opinione pubblica, finora apertamente a sostegno del governo, sembra essere cambiato dopo che i vicini paesi scandinavi, Norvegia e Danimarca, hanno aperto i rispettivi confini nazionali tranne che per le persone provenienti dalla Svezia.

In particolare, spiega al Financial Times Hans Wallmark, parlamentare di centro-destra, il governo è chiamato a rispondere di tre cose: l’alto numero di morti nelle case di cura; il basso numero di tamponi effettuati sulla popolazione; l’isolamento da parte degli altri paesi scandinavi. «Avremmo dovuto adottare politiche condivise e cooperare in modo profondo con tutti i paesi scandinavi», ha commentato un ex alto diplomatico svedese.

Anche il capo della Camera di Commercio di Stoccolma, Andreas Hatzigeorgiou, ha affermato di essere preoccupato dagli effetti a lungo termini di un eventuale isolamento della Svezia a livello internazionale.

Nel frattempo, Mette Frederiksen, prima ministra della Danimarca, ha dichiarato che potrebbero essere aperti i confini a cittadini provenienti da singole regioni della Svezia, mentre la Norvegia sta discutendo con il governo svedese le condizioni per un’eventuale riapertura. Il ministro degli Interni svedese, Mikael Damberg, ha detto alla tv di Stato SVT che potrebbe essere riaperti le regioni confinanti con Danimarca e Norvegia perché stanno registrando un minor numero di contagi.

Nessun paese è stato contemporaneamente elogiato e criticato come la Svezia per la sua risposta al nuovo coronavirus. Da un lato, c'è chi vede nell’approccio adottato dal paese scandinavo un modo straordinariamente efficace per affrontare la pandemia, senza costringere la popolazione a grossi sacrifici economici e psicologici; dall’altro, chi lo ritiene un modo sconsiderato di mettere inutilmente a repentaglio la vita dei propri cittadini. Ciò su cui entrambe le parti concordano è che l'esperienza svedese offre lezioni per la parte avversa, sia come modello da emulare sia come esempio di cosa non fare.

La strategia svedese di gestione della pandemia ha suscitato discussioni molto animate sui social, nel corso di webinar online e durante trasmissioni televisive tra epidemiologi e altre tipologie di esperti. Fuori dai confini strettamente scientifici, questa discussione si è trasformata in un confronto piuttosto acceso su lockdown sì/lockdown no, tra chi sostiene che chiudere tutto è l’unica soluzione per evitare il disastro e costi alti in termini di vittime e contagi e chi invece è orientato a minimizzare la gravità del nuovo coronavirus. 

Negli Stati Uniti, il “modello svedese” è stato usato dai conservatori per lamentarsi dei costi economici del lockdown e dai non-conservatori come alternativa da seguire una volta che le misure restrittive saranno state allentate. Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), attraverso le parole del dottor Mike Ryan, ha individuato nella Svezia “un modello futuro”, riferendosi al rapporto di fiducia tra Stato e cittadinanza nell’attuazione delle raccomandazioni di distanziamento fisico. 

Tuttavia, proprio gli alti rappresentanti svedesi diffidano gli altri paesi dall'usare la Svezia come un modello buono per tutto il resto del mondo. «Questa è una maratona, non è affatto finita», ed è ancora presto per dire chi è un esempio da seguire, ha dichiarato Karin Ulrika Olofsdotter, ambasciatrice della Svezia negli Stati Uniti in una recente intervista.

In cosa consiste la risposta svedese al nuovo coronavirus

A differenza di altri paesi che hanno seguito l’esempio della Cina, chiudendo tutto per alcuni mesi nel tentativo di azzerare i contagi a costo di grosse ricadute economiche e sociali, la Svezia ha deciso di non istituire un lockdown rigoroso con obblighi di legge. 

A fine aprile il governo ha pubblicato delle linee guida che raccomandavano alcuni comportamenti che i cittadini avrebbero dovuto seguire per aiutare a tenere bassa la curva dei contagi: lavarsi le mani, stare lontani fisicamente, evitare viaggi non essenziali, lavorare il più possibile da casa. Agli anziani è stato detto di rimanere a casa ed evitare un contatto stretto con gli altri. Sono stati banditi assembramenti con oltre 50 persone, ma sono state tenute aperte le scuole per gli studenti al di sotto dei 16 anni e non sono stati chiusi i bar, i ristoranti e le palestre, pur dovendo garantire alcune misure di distanziamento fisico. In sostanza, l’idea era di alterare la vita pubblica il meno possibile, nel convincimento che non vi è modo di sopprimere il nuovo coronavirus fino a quando non sarà stato approvato un vaccino efficace, sicuro e disponibile in tutto il mondo.

Leggi anche >> COVID-19: la corsa al vaccino fra scienza, nazionalismi e solidarietà globale

L’approccio seguito si basa sulla cooperazione tra cittadini in modo tale da rallentare la diffusione del virus e non mettere sotto pressione il sistema ospedaliero. 

Sono stati registrati dei cali rispetto agli spostamenti all’interno del paese e alle attività commerciali. I dati raccolti da Google hanno indicato una diminuzione del 23% dei trasferimenti verso destinazioni commerciali e ricreative a Stoccolma,  mentre la società di trasporto pubblico di Stoccolma ha registrato una riduzione del 50% del numero di passeggeri in metropolitana e in treno. Secondo la app Citymapper, c’è stato un calo del 30-35% delle persone che si sono spostate a Stoccolma e del 10-15% a Copenaghen, in Danimarca. 

Gli obiettivi: “contenere i contagi mantenendo una vita ragionevolmente normale”

«Bloccare le persone a casa non funzionerà a lungo termine», aveva detto l’epidemiologo di Stato, Anders Tegnell, nell’annunciare la strategia che la Svezia avrebbe adottato per contrastare la diffusione di SARS-CoV-2 nel paese.

Quando il governo ha divulgato le raccomandazioni ai cittadini, Tegnell ha sottolineato che l’obiettivo era salvaguardare la salute pubblica nel suo più ampio intendimento, tentando di contenere i contagi e fare in modo che i cittadini potessero «mantenere una vita ragionevolmente normale».

La speranza di molti paesi è poter tenere a bada il virus fino a quando non verrà trovato un vaccino, ma, anche nel migliore dei casi, è probabile che occorrano "anni" per svilupparne uno, prima che possa essere somministrato a un'intera popolazione, aveva spiegato Tegnell. I principali paesi europei stanno seguendo l’approccio cinese, il primo Stato a chiudere tutto a causa di COVID-19, nel timore che i loro sistemi sanitari vengano travolti, ma «è un grosso errore sedersi e dire "aspettiamo il vaccino”. Ci vorrà molto più tempo di quanto pensiamo e alla fine potrebbe non essere efficace».

È altrettanto improbabile – aveva proseguito l’epidemiologo di Stato della Svezia – riuscire a maturare anche un’immunità di gregge in poco tempo. La cosiddetta immunità di gregge si verifica quando una percentuale abbastanza grande di una popolazione (tra il 70 e il 90%, ma dipende dai patogeni) diventa immune da un virus, sia attraverso il contagio che la vaccinazione, prevenendo così un'ulteriore diffusione in tutta la comunità. «Non credo che noi o nessun paese del mondo raggiungeremo l'immunità di gregge perché non penso che questa sia una malattia che scompare. Anche per questo motivo chiudere tutto per così tanti anni diventa insostenibile. Probabilmente ci vorranno circa uno o due anni per sapere quale strategia ha funzionato meglio e a quale costo per la società».

L’obiettivo era, quindi, gestire la diffusione di SARS-CoV-2 su un periodo lungo, senza rivoluzionare la vita sociale dei cittadini nella speranza di contenere il virus e non mettere sotto pressione gli ospedali ed essere in grado di affrontare una seconda ondata di contagi più lieve grazie alle misure adottate che prevedevano una maggiore protezione dei più anziani e maggiori livelli di contagio tra i più giovani.

Tegnell stimava che il 40% degli abitanti della capitale, Stoccolma, sarebbe stata immune a COVID-19 entro la fine di maggio e questo avrebbe potuto mettere tutto il paese in una condizione di vantaggio nel contrasto di un virus con cui convivere per molto tempo. 

In un’altra intervista alla CNBC ad aprile, Tegnell aveva dichiarato che i dati di campionamento e modellizzazione a cura dell’Agenzia per la salute pubblica indicavano che circa il 20% della popolazione di Stoccolma era già immune al virus. Sempre ad aprile l’ambasciatrice in USA Karin Olofsdotter aveva detto a NPR che ci si aspettava che la capitale del paese potesse raggiungere l'immunità di gregge entro fine maggio, per quanto non fosse quello l’obiettivo dell’approccio seguito dalla Svezia. 

Questa strategia era stata criticata da più di 2mila ricercatori svedesi che, a fine marzo, avevano firmato una lettera aperta al governo chiedendo misure più restrittive per proteggere il sistema sanitario.

Cosa dicono i dati

Le previsioni di Tegnell e Olofsdotter si sono rivelate erronee e sono state in parte smentite man mano che giungevano i primi dati sulla percentuale di cittadini che sembrano aver sviluppato un’immunità al virus e sul numero delle persone decedute.

A fine aprile, l'Agenzia per la salute pubblica svedese ha dovuto ritirare il rapporto in cui stimava che circa un quarto degli abitanti di Stoccolma fosse immune al virus a causa di calcoli errati. A metà maggio, il professor Johan Giesecke, ex epidemiologo di Stato svedese, ha procrastinato di un mese, a giugno, il raggiungimento dell’immunità di gregge nella capitale, senza specificare quale percentuale della popolazione avrebbe dovuto essere contagiata per raggiungere questo traguardo. Il 25 maggio, anche Tegnell, in un’email a NPR, ha ammesso che è improbabile che si raggiunga l’immunità di gregge entro fine maggio: “No, non succederà. Le indagini attuali mostrano numeri diversi, ma [il tasso di immunità di Stoccolma] è probabilmente inferiore [del 30%]. Come forse saprete c'è un problema con la misurazione dell'immunità per questo virus”, si legge nell’email.

La scorsa settimana l’Agenzia di sanità pubblica svedese ha diffuso i dati preliminari di uno studio (che punta a stimare l’immunità di gregge potenziale nella popolazione sulla base di 1.118 test da effettuare ogni sette giorni per otto settimane) che sta mappando quanti cittadini di Stoccolma hanno sviluppato l’immunità al virus. Secondo lo studio, solo il 7,3% della popolazione di Stoccolma ha anticorpi contro COVID-19 e solo in un ospedale della capitale (che costituisce un luogo di maggiore esposizione, considerato che gli operatori sanitari hanno maggiori probabilità di incontrare il virus) è stato raggiunto il 15%. Si tratta di un dato molto più basso rispetto a quanto ci si aspettava e non molto lontano da quello di altri paesi, come la Spagna, ad esempio, dove al 14 maggio il 5% degli abitanti aveva sviluppato anticorpi contro il coronavirus, secondo i risultati preliminari di uno studio epidemiologico condotto dal governo.

Al tempo stesso, la Svezia ha fatto registrare dati poco incoraggianti anche rispetto ai decessi. Secondo un monitoraggio svolto dal Financial Times (che calcola una media dei decessi in un arco di sette giorni), il paese scandinavo ha raggiunto il più alto tasso di letalità nella settimana tra il 13 e il 20 maggio, superando Regno Unito, Italia e Belgio. 

Sempre secondo i dati aggiornati quotidianamente dal Financial Times, al 27 maggio la Svezia aveva una media di 5,5 morti per milione di persone, il più alto in Europa dopo quasi 70 giorni di contagi. A 61 giorni dai primi casi, il paese scandinavo aveva toccato la media di 6,4 morti per milione di persone, oltrepassando per lo stesso arco di tempo Regno Unito (6,2), Italia (5,5) e Spagna (4). 

Inoltre, con 41,44 decessi ogni 100.000 persone, il tasso di letalità della Svezia è superiore a quello degli Stati Uniti (30,69) e dei paesi vicini, Norvegia (4,42) e Finlandia (5,67)

In termini assoluti, secondo i dati raccolti dalla John Hopkins University, attualmente i decessi confermati sono 4.220, pari al 12% dei 35.088 casi di contagio confermati.

Questi dati hanno suscitato la reazione degli altri paesi scandinavi che hanno adottato misure molto più dure. In una conferenza stampa congiunta, i presidenti di Danimarca e Norvegia hanno annunciato la fine del lockdown e l'apertura dei confini ai turisti di Germania e Islanda, ma non della Svezia.  

Gli anziani morti nelle case di cura e le prime ammissioni di errori

La maggior parte delle persone morte finora a causa del coronavirus in Svezia aveva più di 70 anni, proprio quella fascia di popolazione che il governo aveva dichiarato di voler proteggere. «Non siamo riusciti a proteggere le persone più vulnerabili, le più anziane, nonostante le nostre migliori intenzioni», ha ammesso il primo ministro Stefan Löfven. Quasi la metà di tutti i morti è deceduta nelle case di cura.

Non è un fenomeno limitato alla Svezia. Ma, nello specifico, l’autorità sanitaria nazionale è stata criticata per aver sottovalutato la portata del contagio in queste strutture, non aver formato adeguatamente il personale di cura e di non averlo dotato dei dispositivi di protezione idonei. Parenti, impiegati e sindacati hanno espresso il sospetto che all’inizio dell’epidemia alcuni membri del personale possano essere andati ugualmente a lavorare nonostante mostrassero sintomi associabili a COVID-19, diventando agenti di contagio.

«Credo che il contagio sia arrivato dall’esterno, tramite i parenti dei degenti, e poi il personale sanitario abbia contribuito a diffondere l’infezione. Le persone con sintomi non sono state testate. La protezione degli anziani è stata fallimentare», spiega Sonja Aspinen, finlandese ma da 20 anni in Svezia, dove ha fondato un’azienda di personale sanitario. La Svezia ha vietato le visite alle case di cura il 31 marzo. Ma non è stato sufficiente. 

A questo poi si aggiunge l’accusa, neanche tanto velata, da parte dei famigliari di persone decedute nelle case di cura che ci sia stata l’espressa volontà di non ricoverare in ospedale né di curare in sede tramite ventilazione artificiale i degenti o i pazienti curati a domicilio che si ammalavano.

È stato questo, ad esempio, il caso di Moses Ntanda, morto per COVID-19 da solo nella sua stanza nella casa di cura, nonostante la sua famiglia avesse chiesto all’autorità locale e al personale della struttura dove era ricoverato di portarlo in ospedale. 

«Ci hanno detto che non aveva bisogno di cure ospedaliere e che così vengono gestiti gli anziani che si ammalano di COVID-19. Ma la verità è che in realtà avrebbe dovuto essere ricoverato in ospedale», ha detto a Euronews la nipote di Ntanda, Juliana Jihem. «Pensano che la strategia che stanno usando sia davvero buona e che funzioni. Ma se è buona, come mai così tanti stanno morendo?», si chiede Jihem.

Un numero crescente di impiegati – ricostruisce BBC in un approfondimento – ha chiamato in causa i protocolli delle autorità sanitarie regionali che imbriglierebbero il personale d’assistenza e gli infermieri, impossibilitati a inviare in ospedale o a somministrare l’ossigeno ai pazienti assistiti a domicilio o nelle case di cura che ne hanno bisogno, senza l'approvazione di un medico. 

«C’è stato detto che non dobbiamo mandare nessuno in ospedale, anche se hanno 65 anni e ancora tanti anni di vita davanti», dice alla BBC Latifa Löfvenberg, un'infermiera che ha lavorato in diverse case di cura vicino Gävle, a nord di Stoccolma, all'inizio della pandemia, prima di trasferirsi in un reparto COVID-19 in un grande ospedale della capitale svedese. «Gran parte delle persone ricoverate è nata tra gli anni ‘70 e ‘90» e questo potrebbe essere un’ulteriore prova del fatto che gli anziani vengono tenuti lontani dagli ospedali, prosegue Löfvenberg. 

Un paramedico che lavora a Stoccolma, che ha chiesto di rimanere anonimo, racconta sempre alla BBC di non aver ricevuto nemmeno una chiamata da una casa di riposo per anziani nonostante abbia fatto gli straordinari durante il pieno della pandemia. Se più anziani avessero potuto accedere alle cure ospedaliere o se fossero state assegnate maggiori responsabilità per la somministrazione dell’ossigeno, invece di aspettare autorizzazioni mediche o l’intervento dei paramedici, forse molte vite sarebbero state salvate, aggiunge Mikael Fjällid, consulente privato svedese in anestesia e terapia intensiva, vicino ai partiti d’opposizione al governo di centro-sinistra svedese.

La questione non è, però, così semplice, spiega il dottor Thomas Linden, direttore sanitario presso il National Board of Health and Welfare. In Svezia, ci sono delle linee guida nazionali che suggeriscono di non inviare automaticamente in ospedale i pazienti anziani che si trovano in case di cura statali o private, ma poi le decisioni in merito vengono prese a livello regionale e dovrebbe essere responsabilità del personale d’assistenza valutare benefici, costi e rischi di contagio di un eventuale trasporto in ospedale. Per quanto sia solo uno dei fattori presi in considerazione, l’età può essere un aspetto rilevante, ammette Linden, che aggiunge le disposizioni sulla somministrazione dell’ossigeno direttamente nelle case di cura variano da regione a regione. A Gävleborg, dove lavorava Latifa Löfvenberg, ad esempio, gli operatori delle case di cura non possono somministrare ossigeno perché richiede una formazione specifica, ma possono consultare i medici per valutare la possibilità di cure ospedaliere. 

In una recente intervista, Tegnell ha ammesso che qualcosa nelle case di cura è andato storto e che poco è stato fatto nonostante si sapesse che quei centri erano destinati ad «anziani» e «malati» e che c’erano «problemi noti con le aziende di personale sanitario, spesso private»: «Tutto questo ha reso gli anziani molto vulnerabili alle infezioni. È qualcosa di cui ci pentiamo profondamente», ha dichiarato Tegnell, aggiungendo che è stata avviata un'indagine per accertare le responsabilità di quanto accaduto.

Non è dello stesso avviso Annika Linde, che in passato ha supervisionato le strategie di contrasto della Svezia all’influenza suina e alla SARS. Secondo Linde, l’alto numero di decessi nelle case di cura per anziani non è attribuibile solo alle autorità locali e alle società private che le gestiscono, come fa Tegnell, ma anche alla riluttanza da parte dell’Agenzia di sanità pubblica di prepararsi al nuovo coronavirus partendo dalle esperienze passate con le pandemie influenzali, come l’influenza spagnola e quella suina.

«Inizialmente ero convinta che l’approccio adottato fosse quello corretto. Quando Tegnell ha detto che “appiattiremo la curva del contagio e proteggeremo i vulnerabili”, ho pensato che avremmo raggiunto l’immunità di gregge dopo un po’ di tempo. Invece, ora penso che abbiamo sbagliato. Se avessimo chiuso subito, avremmo guadagnato tempo per proteggere i vulnerabili. Saremmo stati più consapevoli del rischio di infezione da parte degli asintomatici e avremmo salvato tante vite». Linde è la prima esponente dell’Istituto di sanità pubblica a intervenire dicendo di aver cambiato idea.

Le ricadute economiche

Nonostante non abbia attuato un lockdown nazionale, i contraccolpi generati dalla pandemia si faranno sentire anche sull’economia svedese. Non tanto a breve termine, quanto sul lungo periodo.

A marzo, il PIL della Svezia è calato solo dello 0,3%, rispetto al 3,8% dell’eurozona, i consumi delle famiglie – nota Wall Street Journalsono scesi del 30% contro il calo del 70% registrato in Finlandia, mentre l’immatricolazione di nuovi veicoli ha avuto una contrazione del 37%, molto meno di altri paesi (come l’Italia, il Regno Unito e la Spagna), dove si avvicina al 100%. «Parrucchieri, hotel e ristoranti sono stati meno colpiti rispetto ad altri paesi», ha dichiarato la ministra delle Finanze Magdalena Andersson, che però ha aggiunto che probabilmente il peggio deve ancora arrivare: «Tutto fa pensare che le ricadute più grosse della pandemia arriveranno nel secondo trimestre».

La Commissione europea ha previsto una riduzione del PIL svedese del 6,1% per il 2020, molto vicino alle previsioni fatte per per la Norvegia (5,5%) e la Danimarca (5,9%).

Molto più foschi gli scenari prefigurati dalla banca centrale svedese, la Riksbank, che prevede un calo del PIL fino al 9,7% e un aumento della disoccupazione dal 6,8 al 10,1%. "Le conseguenze economiche della pandemia saranno considerevoli e varieranno a seconda della durata della diffusione dell'infezione e della durata delle restrizioni attuate per rallentarla", si legge in una nota della Riksbank.

Questo perché l’economia svedese è molto interconnessa a quella degli altri paesi europei e pertanto è condizionata dalle congiunture più generali. «La crisi ci ha mostrato ancora una volta quanto dipendiamo dalle esportazioni. Una ripresa potrebbe richiedere più tempo di quanto si pensi», ha dichiarato a Politico Axel Josefson, presidente del consiglio di Göteborg.

Le esportazioni danno lavoro a circa un milione e mezzo di svedesi: di conseguenza, tenere aperti ristoranti e parrucchieri non riesce a compensare gli arresti di produzione di aziende come Volvo, Electrolux e Scania. Volvo ed Electrolux “hanno dovuto licenziare migliaia di dipendenti a causa della riduzione della domanda”, mentre Scania, uno dei principali produttori di camion, ha interrotto la produzione perché non arrivavano componenti essenziali dalla Francia, uno dei paesi in lockdown: «È bastato questo per interrompere la produzione», ha detto l’amministratore delegato di Scania, Henrik Henriksson.

Cosa sta insegnando l’esperienza svedese con il coronavirus?

Chi ha ragione, dunque? La Svezia e le sue raccomandazioni ai cittadini sui comportamenti da assumere per evitare di contagiarsi o i paesi che hanno scelto di chiudere tutto con obblighi di legge? I benefici del lockdown sono maggiori dei costi che richiede? E, alla luce di questi primi dati, l’esperienza svedese del coronavirus insegna qualcosa?

Il dibattito sulla questione è stato molto acceso e ha coinvolto due dei massimi epidemiologi europei: l’ex responsabile per la Svezia e membro del gruppo di consulenza strategica per i rischi infettivi dell'OMS, Johan Giesecke, e Neil Ferguson, autore del rapporto dell’Imperial College che ha spinto il Regno Unito a inasprire la sua strategia di contrasto dell’epidemia, inizialmente molto simile a quella svedese. Il confronto è stato molto acceso, ha assunto toni quasi campanilistici e si è spostato su più piattaforme: da Twitter a Zoom fino a YouTube.

Secondo il rapporto dell’Imperial College, se non contrastato adeguatamente, SARS-CoV-2 sarebbe stato in grado di infettare 510.000 abitanti del Regno Unito e 2,2 milioni di statunitensi, travolgendo i sistemi ospedalieri dei due paesi. Inoltre, il rapporto stimava 40.000 morti in Svezia entro fine aprile, se non si fosse intervenuti per fermare il contagio. L’impatto del nuovo coronavirus sarebbe stato dimezzato applicando una strategia di mitigazione.

Nel corso di un webinar condotto da Chatham House, un think tank con sede a Londra, e di un’intervista al Washington Post, Giesecke è intervenuto bocciando in modo duro e impietoso il rapporto di Ferguson, definito «eccessivamente pessimista», un documento «non molto scientifico che ha cambiato la politica di un intero paese», fondato su ipotesi talmente discutibili da «perdere tutto il valore» come strumento predittivo. 

Ferguson ha risposto alle critiche di Giesecke in un’intervista condotta per la rivista online UnHerd dal suo editore Freddie Sayers. L’esperto britannico ha risposto ricordando che la maggior parte degli epidemiologi nel mondo sostiene la sua posizione, inclusi anche alcuni scienziati svedesi che hanno accusato il loro governo di "giocare alla roulette russa" con la popolazione. La Svezia «sta sostanzialmente dicendo che dovremmo sacrificare tutti questi anziani a morire per potersi permettere le misure adottate», ha affermato Ferguson che ha aggiunto che, invece, la Gran Bretagna «ha agito appena in tempo prima di essere sopraffatta» e ha acquisito abbastanza tempo per proteggere il suo Servizio sanitario nazionale ed essere pronta per una possibile seconda ondata accelerando i test, il tracciamento e il trattamento dei malati.

In una lettera a Lancet, Giesecke ha ulteriormente replicato che “fino a quando non verrà raggiunta un’immunità di gregge o verrà trovato un vaccino affidabile, il virus sarà sostanzialmente inarrestabile e tutti saranno esposti”. Pertanto, i lockdown non fanno altro che posticipare i casi più gravi in caso di seconda ondata producendo, però, danni economici incalcolabili nel presente.

La maggioranza degli svedesi sembra essere d’accordo con le posizioni di Giesecke e del governo. Secondo un recente sondaggio, il 63% valuta positivamente la strategia adottata dall’Agenzia di sanità pubblica, nonostante l’elevato numero di morti nelle case di cura. «In Svezia, c'è un rapporto di fiducia molto grande tra la popolazione e il governo e le sue agenzie e viceversa», spiega a NPR l'ambasciatrice svedese negli USA, Olofsdotter.

Oltre alla fiducia tra istituzioni e cittadini, altri fattori possono spiegare l’alto gradimento da parte della cittadinanza. Innanzitutto, scrive sul Guardian Tae Hoon Kim, analista geopolitico ed economico sudcoreano, di base a Stoccolma, la strategia svedese nei confronti della pandemia adottata dal governo è così radicata nei convincimenti della società svedese da sembrare quasi naturale. Il coronavirus non è vissuto come un’emergenza nazionale, un “nemico invisibile” contro cui lottare, ma come un grave problema sanitario da affrontare come ce ne possono essere altri di questo tipo, senza necessariamente richiedere la sospensione di alcune libertà civili e della routine quotidiana. E, quindi, l’alto numero di anziani morti non viene associato all’approccio generale avuto nella gestione della pandemia ma a carenze strutturali, economiche e sociali, spiega Tae Hoon Kim. Anzi, è percezione comune che questa strategia sul lungo termine possa mitigare gli effetti negativi della pandemia.

Poi, commenta Josh Michaud, della Kaiser Family Foundation, su Foreign Affairs, c’è l’impatto psicologico. L'isolamento e la solitudine risultanti da misure di distanziamento fisico possono esacerbare i problemi di salute mentale. In un recente sondaggio su un campione di adulti americani fatto dalla Kaiser Family Foundation, il 45% degli intervistati ha riferito che la loro salute mentale aveva sofferto di stress legato alla pandemia. In paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito, molti riconoscono la necessità del distanziamento fisico ma esprimono anche una crescente stanchezza legata al perdurare delle restrizioni. “Le politiche che aiutano ad alleviare queste pressioni senza mettere in pericolo la salute pubblica sono degne di seria considerazione”, scrive Michaud. E in questo senso, qualcosa si può imparare dalla Svezia. 

“Un modo in cui alcuni paesi in lockdown potrebbero seguire in sicurezza la linea svedese è consentire l’accesso ai parchi e ad altri spazi aperti, godere di posti a sedere all’aperto nei ristoranti, con adeguata distanza l’uno dall’altro, pensare approcci più flessibili a seconda dei luoghi e se si è in presenza di focolai o meno", conclude Michaud.

Questo significa che la Svezia ha fatto bene? La Svezia è un modello che altri paesi avrebbero potuto seguire, o che potrebbero seguire ora, allentando improvvisamente i propri lockdown? 

Probabilmente no, commentano Sam Bowman e Pedro Serodio su The Critic. Il raffronto tra i dati preliminari provenienti dalla Svezia con quelli di altri paesi che, invece, hanno attuato il lockdown, suggerisce due cose: per quanto in crescita, il tasso di letalità svedese non è così elevato come molti avevano temuto e stimato, e questo può indicare che i benefici del lockdown siano stati sopravvalutati; tuttavia, al tempo stesso, la Svezia non sembra aver avuto i vantaggi sperati dalle minori restrizioni e pare avere pagato costi molto simili a quelli cui hanno dovuto far fronte i paesi che hanno optato per le chiusure. 

Paradossalmente, i dati suggeriscono che i cittadini svedesi hanno tenuto volontariamente comportamenti di distanziamento fisico molto di più di quanto si auspicassero le stesse autorità. E questo, probabilmente, non ha consentito alla Svezia di raggiungere l’immunità di gregge né di ridurre drasticamente il contagio, come sta avvenendo nei paesi dove è stato attuato il lockdown. Inoltre, l’alto numero di morti nelle case di cura ha impedito di proteggere le fasce di popolazione più anziane e ha vanificato la speranza di creare l’immunità attraverso il contagio dei più giovani, meno vulnerabili e presumibilmente più in grado di contrastare la pericolosità del virus.

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Solo in seguito capiremo se la Svezia avrà avuto ragione. Per ora, concludono Bowman e Serodio, possiamo trarre due piccoli insegnamenti: 1) Che le peggiori paure sulla diffusione incontrollata del virus potrebbero essere state esagerate, perché l'esempio svedese mostra che dando fiducia ai cittadini, questi si comporteranno in modo tale da cercare di fermare il contagio; 2) Che il lockdown è l’unico modo per ridurre il numero dei decessi e impedire una diffusione lenta, brutale e incontrollata della malattia. Chi ha suggerito di chiudere ha semmai sbagliato sui tempi previsti per raggiungere un determinato numero di contagi e di decessi se non si fosse intervenuti, ma non sulla scala del rapporto tra morti e diffusione della malattia in una popolazione. Considerato che, dati alla mano, il tasso di letalità plausibile (IFR, calcolato sulla stima della base dei contagi, e non solo su quelli rilevati ufficialmente attraverso i tamponi) di COVID-19 si aggira intorno allo 0,5-1%, difficilmente la Svezia potrà ottenere l’immunità di gregge senza pagare un alto numero di vite umane. 

È tutto da vedere, infine, come la Svezia riuscirà a gestire sul lungo termine la pandemia. I programmi di test, tracciamento e trattamento sono più sostenibili con numeri bassi e piccoli focolai da gestire. C’è il rischio che per potersi trovare in queste condizioni in futuro il paese scandinavo sia costretto a un lockdown, a sua volta, quando invece tutti gli altri paesi ne saranno usciti. 

Immagine in anteprima via Abc News

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