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Quando il “sì” al nucleare diventa un “no” alla scienza

14 Aprile 2022 19 min lettura

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Quando il “sì” al nucleare diventa un “no” alla scienza

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Nel settembre del 2021 le affermazioni del ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, sulla necessità di riconsiderare l’uso dell’energia nucleare per la transizione energetica e sull’«ambientalismo oltranzista», hanno riacceso una discussione che risale ai tempi referendum del 1987, il cui esito ha portato allo spegnimento delle centrali nucleari allora attive. Ogni tanto la "questione nucleare" torna al centro dell'attenzione. È accaduto nel 2008, quando il governo Berlusconi aveva proposto un piano di rientro nel nucleare e in occasione dei nuovi referendum del 2011, che avevano di nuovo chiuso la discussione politica. Accade oggi, dopo che la transizione energetica è entrata nell'agenda e che la guerra in Ucraina ci ha posto di fronte alla necessità di accelerarla.

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È vero che il mondo ambientalista, pur non essendo mai stato monolitico su ogni singolo tema, si è schierato per la grandissima parte contro l'energia nucleare. È una causa che ha da sempre definito l’identità di movimenti e partiti verdi non soltanto italiani. Per questa scelta l’ambientalismo deve ancora oggi rispondere di diverse accuse: dogmatismo, pregiudizio antiscientifico, rifiuto del progresso tecnologico e industriale. La discussione su questo argomento, infatti, non è certo solo tecnica e scientifica. Non è un mero confronto sui dati ed evidenze pro e contro. Questa controversia ne contiene un’altra: quella tra diverse visioni dello sviluppo e del rapporto tra esseri umani e ambiente.

Mentre il no al nucleare è un'opinione che viene definita ideologica, i sostenitori del (campo a cui potrei iscrivermi io stesso) si sentono immuni nei confronti di questa critica. Il al nucleare si vanta di essere in accordo con una concezione scientifica e razionale del mondo. In Italia il è stato infatti una storica battaglia a difesa della scienza e della tecnologia. Ma se si va più a fondo e si analizzano certi orientamenti di pensiero e tesi che si ritrovano nel campo del , si scopre che anche questo è pieno di ideologia. Di un'ideologia che spesso è in contrasto con una visione che riconosca la gravità della crisi climatica e l'urgenza della transizione energetica. E quindi con la scienza stessa.

La storica della scienza Naomi Oreskes, che ha ricostruito nel dettaglio la storia di diversi casi di negazione della scienza su questioni che riguardano la salute e l'ambiente, dice di essersi chiesta a lungo perché i negazionisti climatici promuovano l'energia nucleare. Per iniziare a comprendere quali siano ragioni che spiegano questo link, può essere istruttivo rievocare il caso dell'associazione "Galileo 2001", un'organizzazione di cui probabilmente i più ignorano o non ne ricordano l’esistenza. Questa associazione «per la libertà e la dignità della scienza» si prefiggeva l’obiettivo di difendere la ricerca scientifica dai suoi nemici. Parafrasando, con una scelta non molto originale, l’incipit del Manifesto di Marx ed Engels («uno spettro si aggira per l’Europa….»), il suo manifesto fondativo iniziava così:

«Un fantasma si aggira da tempo nel Paese, un fantasma che sparge allarmi ed evoca catastrofi, terrorizza le persone, addita la scienza e la tecnologia astrattamente intese come nemiche dell’uomo e della Natura e induce ad atteggiamenti antiscientifici facendo leva su ingiustificate paure che oscurano le vie della ragione. Questo fantasma si chiama oscurantismo. Si manifesta in varie forme, tra cui le più pericolose per contenuto regressivo e irrazionale sono il fondamentalismo ambientalista e l’opposizione al progresso tecnico-scientifico».

I nemici del progresso tecnico-scientifico, evocatori dello spettro dell’oscurantismo, venivano identificati negli allarmisti dell’elettrosmog, negli oppositori della ricerca biotecnologica, nei fautori delle medicine alternative (il caso Di Bella era fresco e teneva ancora banco). E, naturalmente, nei contrari all'energia nucleare. La denuncia di questi «atteggiamenti» si fondava su alcune buone ragioni. Le medicine alternative sono davvero antiscientifiche, la limitazione della ricerca sugli OGM in agricoltura è stata davvero una politica sbagliata. Ma cosa aveva da dire questo movimento, che aveva così tanto a cuore la scienza, sul cambiamento climatico? Siamo nel 2001, quattro anni dopo il protocollo di Kyoto. Il riscaldamento globale era già diventato una questione di discussione internazionale. L’IPCC, l'organismo delle Nazioni Unite che pubblica periodici rapporti sulla scienza del clima, era stato fondato nel 1988. Alla fine degli anni ‘80 il problema veniva già denunciato come un serio pericolo, che avrebbe richiesto un’azione globale, dalla conservatrice Margaret Thatcher. Eppure, l'associazione a riguardo si esprimeva così:

«Da questa cultura regressiva nascono ad esempio il timore di cambiamenti climatici, che da milioni di anni caratteristici del pianeta Terra sono oggi imputati quasi esclusivamente alle attività antropiche»

Non solo il negazionismo climatico non venivano incluso tra gli atteggiamenti anti-scientifici ma, addirittura, il timore stesso dei cambiamenti climatici veniva additato come espressione di una cultura regressiva, oscurantista, anti-progresso. Questa affermazione veniva accompagnata da un argomento che è caratteristico della retorica negazionista: il clima è sempre cambiato. Inoltre, si taceva su chi fossero quelli che allora imputavano i cambiamenti climatici alle attività umane. Non era qualche gruppo di ambientalisti-fondamentalisti, ma la comunità scientifica.

Tra i firmatari del manifesto dell'Associazione Galileo 2001 comparivano alcuni illustri nomi della scienza italiana. Tra questi, l'allora presidente della Società Italiana di Fisica e del suo presidente onorario. Uno dei promotori del gruppo era Franco Battaglia, docente di chimica fisica e personalità conosciuta per i suoi interventi a sostegno del nucleare e per le sue posizioni negazioniste sul cambiamento climatico.

Nel 2007 l'associazione inviò una lettera al Presidente della Repubblica in cui esprimeva «preoccupazione» per «le decisioni assunte dai Governi e dal Parlamento italiano di ratificare il Protocollo di Kyoto»:

«Come cittadini e uomini di scienza, avvertiamo il dovere di rilevare che la tesi sottesa al Protocollo, cioè che sia in atto un processo di variazione del clima globale causato quasi esclusivamente dalle emissioni antropiche, è a nostro avviso non dimostrata, essendo l’entità del contributo antropico una questione ancora oggetto di studio».

Sul riscaldamento globale science is not settled, la scienza non è ancora definita. Questa era la posizione dell'Associazione. Ma nel 2007 quella affermazione era già falsa. Nel 2006 l'American Association for Advancement of Science (AAAS) dichiarava che «l'evidenza scientifica è chiara: il cambiamento climatico globale causato dalle attività umane si sta verificando ora ed è una crescente minaccia per la società». Questa posizione, precisava la AAAS, «riflette il consenso scientifico rappresentato, ad esempio, dall'IPCC».

La posizione dell'Associazione Galileo 2001 sul cambiamento climatico poteva essere collocata, già all'epoca, nel perimetro del negazionismo. È paradossale per un movimento che diceva di volere contrastare gli atteggiamenti antiscientifici arruolando, già nel proprio nome, Galileo Galilei. Ma non si può certo spiegare con l’ignoranza dei suoi aderenti. Si può spiegare, piuttosto, con l’ideologia che animava quella posizione. Un pensiero che sposava una particolare, molto parziale, idea di progresso. Un progresso identificato con quello industriale-tecnologico più che, in un senso più ampio, scientifico.

Nel proclamarsi scientifica, infatti, l'Associazione escludeva quella scienza che poteva mettere in crisi la propria visione. Il suo manifesto ignorava la scienza che dimostra che le attività umane hanno avuto un profondo impatto sull'ambiente, tanto da inaugurare una nuova era geologica, l’Antropocene. La scienza che mette in guardia noi esseri umani, avvertendoci che c’è qualcosa da cambiare nel nostro rapporto con l’ambiente, se vogliamo evitare guai per noi stessi prima ancora che per il pianeta, era assente. Dell'Associazione Galileo 2001 si sono perse le tracce, ma l'ideologia che propugnava non è scomparsa dalla circolazione.

L'intersezione tra il negazionismo climatico e il campo dei sostenitori dell'energia nucleare è emersa anche negli anni più recenti, nonostante le sempre più numerose conferme scientifiche sulla realtà e la gravità del riscaldamento globale. Il presidente dell'Associazione Italiana Nucleare (AIN), Umberto Minopoli, ha firmato diversi articoli sul quotidiano Il Foglio in cui ha sostenuto tesi che contraddicono la scienza. In uno di questi, pubblicato nel 2016, Minopoli ha provato a demolire l'intero edificio della climatologia:

«...vengono esclusi, dagli algoritimi della modellistica del clima, i fattori chiave dei suoi andamenti evolutivi, quelli naturali: attività del Sole, magnetismo terrestre, oscillazioni orbitali, irraggiamento cosmico eccetera». Perché? Non tanto per la difficoltà di misurare tali fattori quanto una pretesa programmatica intenzionale: isolare l’attività umana (la CO2 antropogenica) come esclusivo fattore di incidenza. Al fine di farne l’imputato unico del riscaldamento»

Il presidente dell'AIN sta dicendo che gli scienziati si ostinano a considerare solo la CO2 emessa dalle attività umane tra i possibili fattori che influenzano il clima perché perseguono, deliberatamente, l'obiettivo di additarla a unico colpevole del riscaldamento globale. Ma questo è falso. La scienza conosce i fattori che su diverse scale temporali influenzano l'evoluzione del clima terrestre. Il sistema climatico è complesso, ma non è un mistero. Il premio Nobel per la fisica del 2021 ha riconosciuto proprio il contributo scientifico dei modelli climatici. Nessuno dei fenomeni citati da Minopoli dimostra una stretta correlazione con l'attuale riscaldamento globale. In un articolo del 2019 Minopoli, citando uno dei firmatari di una petizione negazionista (che asseriva, tra l'altro, che «quella del riscaldamento globale causato dalla CO2 antropica è una congettura non dimostrata»), ha scritto che il riscaldamento globale sarebbe anche un po' colpa dell'attività solare. È una tesi senza fondamento, smentita mille volte.

Nell'articolo del 2016 si dice anche che «negli ultimi quindici anni, in cui la CO2 è sempre aumentata, non si registrano aumenti delle temperature. La correlazione clima-CO2 non appare così salda». Non è vero: dal 2000 ad oggi, anche considerando la variabilità naturale nel breve periodo legata ad alcuni fenomeni come El Niño, l'aumento della temperatura globale non si è affatto arrestato. Il rapporto di causa ed effetto tra il riscaldamento della Terra e l'aumento della concentrazione atmosferica di CO2 è un dato scientifico solido e acquisito da molto tempo. Negare oggi queste conoscenze sta alla scienza come l'antivaccinismo.

D'altra parte, l'autore parla dell'IPCC - la principale istituzione mondiale sul cambiamento climatico - come di «ideologi», un «club internazionale di esperti governativi custode della dottrina ufficiale sul clima». Sul cambiamento climatico la scienza si sarebbe addirittura «adeguata» alla «isteria mediatica». La climatologia, in definitiva, non sarebbe infatti una scienza, ma:

«una proto-scienza, insomma, quella dell’IPCC e una sorta di religione con tutti gli ingredienti conseguenti: la pretesa del devotismo dai credenti, l’irrisione degli scettici, la scomunica dei negazionisti»

L'accostamento della scienza del clima a una religione intollerante è un altro topos frequente nella retorica del negazionismo. Gli "scettici" vengono descritti come novelli Galileo. Perseguitati, scomunicati appunto, dai custodi di una dottrina religiosa che non ammetterebbe il dissenso. È lo stesso genere di retorica che abbracciano i fautori delle medicine alternative quando si scagliano contro la scienza ufficiale. In quello stesso articolo il presidente dell'AIN parla anche dell'energia nucleare:

«La percezione crescente di un ruolo limitato delle tecnologie rinnovabili come sostituzione delle fonti fossili, ha riproposto l’attualità e l’indispensabilità del nucleare come fonte carbon-free. Con evidente imbarazzo dell’attivismo climatista»

In un intervento del 2019, pubblicato sul sito dell'Associazione che presiede, Minopoli scrive che «l'origine, per me, non antropica del riscaldamento, non significa non decarbonizzare (ci sono tanti motivi per farlo)». Ma «solo una fonte energetica è veramente sostitutiva» delle fonti fossili». È, va senza dire, l’energia nucleare. Le energie rinnovabili, a detta di Minopoli, sono «utili» ma non possono sostituire le fonti fossili.

In un altro commento, apparso sul Foglio nell'ottobre del 2021, Minopoli ha sostenuto che l'adattamento al cambiamento climatico sarebbe «una alternativa razionale a politiche sul clima ansiogene» e «concentrate solo sulle emissioni di CO2 che avremo al 2050 e sulla scommessa che esse avranno un’incidenza sulle temperature». Ma l'adattamento, cioè il complesso di azioni che servono a ridurre i rischi degli impatti del cambiamento climatico, non è affatto un'alternativa all'azzeramento delle emissioni. Inoltre, l'effetto delle emissioni sulla temperatura non è una «scommessa», ma una certezza.

A questo punto i più attenti si chiederanno: che senso ha rivendicare che l'energia nucleare è una fonte carbon-free o, se non free, a emissioni molto basse (vero), se si sostiene che la CO2 non è la causa del riscaldamento globale (falso) e che, di conseguenza, non dobbiamo concentrarci sulle sue emissioni (falso)? È vero, ci sono altre buone ragioni per abbandonare le fonti fossili. Queste fonti energetiche non sono solo climalteranti, ma anche inquinanti. Tuttavia, se si mina alle fondamenta la scienza del cambiamento climatico, respingendo o ignorando il consenso scientifico sulle sue cause, a quel punto crolla anche l'edificio della transizione energetica. Se la transizione energetica non è più un'urgenza, dal momento che il riscaldamento globale antropico è un'invenzione degli «ideologi dell'IPCC», allora non ha senso affrettarsi ad abbandonare petrolio, carbone e gas. Nemmeno per sostituirli con l'energia nucleare.

Ecco la contraddizione: chi sostiene tesi negazioniste sul cambiamento climatico appoggia con convinzione l'energia nucleare. Ma se questa posizione muove da quelle premesse - cioè: la CO2 emessa dai combustibili fossili non è la causa del cambiamento climatico - la conseguenza è che a uscirne indenne è soltanto lo status quo fossile. Queste incongruenze originano dal fatto che il negazionismo climatico non ha mai dovuto badare a rispettare una particolare coerenza. Tutto ciò che deve fare chi vuole mettere in discussione, in tutto o in parte, la scienza del cambiamento climatico è cercare di smontarla. Nei confronti della scienza, il negazionismo climatico consiste solo di una pars destruens.

Quando il ministro della Transizione Ecologica aveva invitato a non avere pregiudizi sull'energia nucleare, Minopoli aveva applaudito al suo «coraggio». Dalla parte di Cingolani si era schierato anche Chicco Testa, ex presidente di Legambiente ed ex presidente dell'ENEL, che sul Foglio aveva firmato un articolo intitolato Nucleare e analfabeti dell'ambientalismo.

Testa, che è stato anche presidente del Forum Nucleare Italiano, è da sempre un sostenitore dell'energia nucleare (è diventato celebre un suo scontro televisivo con il geologo e divulgatore Mario Tozzi) ed è molto critico verso l'ambientalismo contemporaneo. Nel 2014 ha pubblicato il saggio Contro (la) natura: perché la natura non è buona, né giusta né bella. Il sottotitolo condensa la tesi al centro del libro e chiarisce quali siano i suoi bersagli polemici: la pretesa che ciò che è naturale sia sempre benefico e salutare, che è alla base di molte medicine che vorrebbero essere alternative, o complementari, a quella "ufficiale"; la contrapposizione tra naturale e artificiale, che alimenta pregiudizi nei confronti dell'agricoltura moderna, dell'industria chimica e alimentare e delle colture geneticamente modificate. La cornice rimane quella del manifesto dell'Associazione Galileo 2001. L'ambientalismo avrebbe imboccato una deriva dogmatica, quasi reazionaria, ostile al progresso tecnologico e indifferente al benessere umano. Questo vecchio ambientalismo va rigettato, in nome di un nuovo ambientalismo che si autodefinisce pragmatico.

Il pensiero green sarebbe quindi fondato sulla visione ingenua e idealistica di una natura benigna, che dimentica che ciò che chiamiamo "natura" comprende anche cose pericolose da cui gli esseri umani devono difendersi. Terremoti, eruzioni vulcaniche, agenti patogeni, uragani. È vero, l'esperienza dimostra che naturale=buono e manipolato/artificiale=cattivo sono equazioni spesso ingannevoli. La produzione, attraverso incroci, di numerose varietà di piante di interesse agricolo e alimentare è una forma di "manipolazione" della loro genetica solo meno precisa della transgenesi o delle nuove tecniche di editing del genoma. A mio avviso, tirare fuori un carlino o un cavalier king dal lupo è stata un'azione "contronatura" meno etica e più dannosa, per quei cani, di una mela geneticamente modificata. Se ci capita di osservare i nostri caratteristici paesaggi rurali, ci accorgiamo che non sono certo natura selvaggia, ma il risultato di un intervento antropico sull'ambiente. Come scrive Emilio Sereni in Storia del paesaggio agrario italiano, il paesaggio agrario è «quella forma che l’uomo, nel corso ed ai fini delle sue attività produttive agricole, coscientemente e sistematicamente imprime al paesaggio naturale». L'aspetto e la disposizione dei campi, i filari di alberi, gli edifici e i manufatti rurali, le bonifiche sono opere umane.

Il discorso di Testa contiene quindi degli elementi di verità e alcuni suoi argomenti potrebbero colpire nel segno. Se non fosse che, per criticare chi attribuisce un valore morale alla natura e per smontare certi miti del genere si stava meglio quando si stava peggio, l'autore dà forma a una mitologia contraria ma speculare. In questa narrazione accade che, nel loro continuo e prometeico allontanamento dall'originario stato di natura, gli esseri umani obbediscono a un «comandamento naturale»: superare i limiti imposti dalla natura stessa. «I limiti, quando esistono, possono essere superati», afferma il libro. Queste parole richiamano una questione di cui si dibatte da 50 anni, dalla pubblicazione nel 1972 del rapporto The Limits to Growth, commissionato dal Club di Roma: esistono dei potenziali limiti allo sviluppo umano? La domanda non riguarda solo la crescita economica, misurata dal parametro del PIL. Oggi è la scienza, non solo l'ambientalismo, a chiedersi se esistano dei limiti.

Nel 2009 un gruppo di scienziati, guidato da Johan Rockström, ha proposto il concetto di planetary boundaries, confini planetari. Questi confini corrispondono a nove processi: la perdita di biodiversità, il cambiamento climatico, la riduzione dell'ozono nella stratosfera, l'acidificazione degli oceani, l'interferenza nei cicli dell'azoto e del fosforo, il consumo di acqua dolce, l'inquinamento chimico, la concentrazione di particolato nell'atmosfera. Il confine di questi processi viene individuato in un valore. Alcuni di questi, come il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, sono già stati superati. All'interno di questi confini «l'umanità può continuare a svilupparsi e prosperare per le generazioni a venire». Il loro superamento «aumenta il rischio di generare cambiamenti ambientali improvvisi o irreversibili su larga scala». I confini planetari vengono definiti «uno spazio operativo sicuro per l'umanità».

Contro (la) natura si conclude così: «Teniamoci caro l'unico pianeta che, almeno per il momento, abbiamo. Ma teniamoci cari anche gli uomini che lo popolano». Quel ma inquadra quei due obiettivi come se fossero contrapposti o subordinati l'uno all'altro. La storia dei virus emergenti, come il coronavirus della COVID-19, dimostra invece che esiste una connessione tra l'ambiente e la salute animale e umana, che oggi è riassunta nel concetto di One Health. All'incrocio tra questi tre elementi può avvenire l'interazione tra alcuni fattori di rischio, il cui esito può avere conseguenze spiacevoli per noi umani. Ad esempio una nuova pandemia.

Nella concezione del rapporto tra la civiltà umana e l'ambiente, che permea il libro di Testa, la scienza che si occupa dei problemi ecologici sembra rivestire un'importanza secondaria. Rispondendo, in un'intervista, a una domanda sullo strato dell'ozono che tira in ballo l'«allarmismo dei populisti ambientali», l'ex presidente di Legambiente risponde così: «non saprei. Salto la domanda, perché questo buco prima si chiude, ora si apre. Inspiegabilmente». Inspiegabilmente? Per la scienza l'impatto dei clorofluorocarburi sull'ozono stratosferico è spiegabile e spiegato ed è alla base di quello che è considerato il trattato internazionale in campo ambientale di maggiore successo della storia.

La scienza va invocata solo quando ci dice che gli OGM non fanno male o anche quando ci mette di fronte ai rischi che le nostre azioni potrebbero comportare per l'ambiente e per noi stessi? Proprio il riscaldamento globale dimostra quali conseguenze può avere oltrepassare un confine planetario (in questo caso, una determinata concentrazione atmosferica di CO2). Ma su questo grave problema la voce della scienza sembra non esistere. In un libro del 2020, intitolato Elogio della crescita felice: contro l’integralismo ecologico, Testa affronta il tema abbracciando alcuni argomenti che, come osserva Climalteranti, sono caratteristici della retorica negazionista. Dalla denuncia di presunte «previsioni smentite» dell'IPCC, all'esistenza di scienziati dissidenti. Sulle prime, l'autore scrive:

«Nel rapporto del 2007 l'IPCC constatava che nel decennio precedente la temperatura era salita di 0,2 gradi, pertanto ha formulato delle previsioni per i decenni successivi assumendo lo stesso tasso di crescita. Ma fino al 2012, la temperatura è cresciuta di «soli» 0,05 gradi per decennio»

Ad essere già stata smentita è questa affermazione, che origina da un articolo del 2013 pubblicato sul quotidiano britannico Daily Mail e firmato da un giornalista spesso criticato per la sua tendenza a rilanciare posizioni negazioniste. Le misurazioni strumentali della temperatura della superficie terrestre effettuate in quel periodo ricadevano nell'intervallo di valori indicato nelle proiezioni (che non sono "previsioni") dell'IPCC. Il sito Skeptical Science inserisce questa tesi nell'elenco dei miti sul cambiamento climatico.

Tra gli «scienziati dissidenti» vengono annoverati, senza specificare chi siano, «alcuni dei più eminenti scienziati mondiali». Il termine negazionista viene considerato dispregiativo, anche se è ampiamente usato nella letteratura per definire un complesso di opinioni e argomenti riguardo al cambiamento climatico. Al riscaldamento globale ci si riferisce con l'espressione «tesi mainstream», quando sul tema esiste una posizione che non è solo prevalente, ma che corrisponde a un solido e vasto consenso scientifico. Si afferma che «un confronto fra tesi diverse non può che aiutarci a capire meglio come stanno le cose». Ma quando c'è un consenso scientifico confronti di questi tipo sono una forma di falso bilanciamento tra posizioni che non possono essere considerate equivalenti. Se si applicasse questo criterio ai vaccini, si darebbe legittimità scientifica all'antivaccinismo.

Se queste sono le premesse, le idee sulla transizione ecologica non possono che essere conseguenti. In un intervento sul Foglio scritto con Carlo Stagnaro, uno dei fondatori dell'Istituto Bruno Leoni, l'ex presidente di Legambiente riconosce (in modo non esattamente coerente con gli argomenti abbracciati nel libro appena citato) che «i costi [...] del riscaldamento globale sono immensi. L’inazione non è, semplicemente, un’opzione». A questo giudizio, del tutto condivisibile, segue un ma (un però, per essere precisi): «questo, però, non significa che raggiungere il risultato sia semplice». Testa e Stagnaro, commentando gli scenari descritti nel Word Energy Outlook 2021 dell'Agenzia Internazionale dell'Energia (IEA), si preoccupano di ricordare che la transizione non è una cosa facile. La transizione non è facile. È la dichiarazione di un'ovvietà. Ma che sottintende un messaggio: la transizione non è facile, quindi bisogna andarci cauti. Il cambiamento climatico esiste ed è grave, ma.... La transizione energetica è necessaria, ma... Se da un lato si ammette che ridurre le emissioni è inevitabile, dall'altro non si fanno che elencare solo ostacoli e difficoltà, invece che anche opportunità e benefici.

In un precedente articolo, pubblicato ancora sul Foglio e intitolato I guai dell'energia pulita, Testa e Stagnaro commentano il rapporto Net Zero 2050, elaborato dalla IEA. Si tratta di una roadmap della transizione, in cui le energie rinnovabili dovrebbero arrivare a coprire nel 2050 il 90% della produzione globale di energia elettrica, di cui il 70% dall'energia solare ed eolica. Ma attenzione, mettono in guardia gli autori, la strada è «ripida». Vero, e sarà sempre più ripida se perdiamo altro tempo prima di imboccarla sul serio, la strada. Questo è il lancio dell'articolo su Twitter:

Ci troviamo, di nuovo, nel Regno delle Ovvietà, dove gli obiettivi della transizione «sono difficili da raggiungere». Ciò che Testa e Stagnaro non dicono è che gli obiettivi saranno sempre più difficili da raggiungere fintantonché la transizione la si continuerà a ritardare. È probabile che questi autori non pubblicheranno mai un articolo intitolato I guai dei combustibili fossili, in cui si dettagliano i gravi impatti e le pesanti ricadute, anche economiche, del riscaldamento globale. Sulle pagine di un quotidiano come Il Foglio, dove si leggono interventi in difesa dell'energia nucleare ma che ha pubblicato per anni articoli negazionisti sul cambiamento climatico sposando perciò un pensiero che taglia alla radice l'idea stessa di transizione energetica, quindi anche la necessità del nucleare, oggi si avverte che la transizione energetica è difficile. Sembra una contraddizione, e lo è. Ma è dove ci porta una visione in cui l'uscita dai combustibili fossili e, in genereale, le politiche per il clima continuano a essere un problema peggiore della crisi climatica.

Queste idee si ritrovano anche fuori dall'Italia, nell'area del cosiddetto ambientalismo scettico e dell'ecomodernismo. I campioni di questa filosofia sono autori come Bjorn Lomborg e Michael Shellenberger, che sul cambiamento climatico esprimono tesi che vanno contro il consenso scientifico. Lomborg e Shellenberger non contestano, almeno apertamente, l'esistenza e le cause antropiche del riscaldamento globale, ma negano o minimizzano i suoi impatti. Il cambiamento climatico, per gli ecomodernisti, è un problema infinitamente meno grave dell'attivismo pro-clima, che descrivono come una nuova religione. Entrambi sono sostenitori dichiarati dell’energia nucleare. Entrambi liquidano le energie rinnovabili come inutili o dannose. Solo l’energia nucleare ci salverà.

Che l'attacco contro le energie rinnovabili (ma non al nucleare) sia un tema centrale della narrativa negazionista lo dimostra anche un recente episodio. Nel febbraio del 2021, quando un’ondata di freddo in Texas aveva causato diffuse interruzioni di corrente, alcuni esponenti del Partito Repubblicano americano avevano attribuito l'intera responsabilità di questi blackout agli impianti eolici e alle loro pale congelate. In realtà, come mostravano i dati pubblicati dal gestore della rete texana, la maggior parte dei problemi si era verificata nelle centrali a gas e a carbone. Anche una centrale nucleare aveva subito interruzioni. Le uscite dei Repubblicani sono state smontate da fact-checkers e media americani. Era una bufala, che negli Stati Uniti era stata fatta circolare da settori politici in cui il negazionismo climatico trova ancora un terreno molto fertile. Il caso dei blackout in Texas dimostra, ancora una volta, che l'avversione alle energie rinnovabili e quella alle politiche sul cambiamento climatico marciano di pari passo.

Si può essere, è bene chiarirlo, a favore dell’energia nucleare senza avere nulla in comune con questo retroterra ideologico. È il caso, per esempio, del climatologo James Hansen, che con la sua testimonianza al Senato americano del 1988, in cui presentò le prove del riscaldamento globale, contribuì ad accendere la consapevolezza pubblica del problema. La posizione di Hansen sul nucleare può non essere condivisa, ma è coerente. I negazionisti climatici, al contrario, sostengono il nucleare in nome di un'ideologia che si fonda su un'immagine distorta della scienza, del progresso e del nostro rapporto con l'ambiente. Per i negazionisti il nucleare è un indiscutibile emblema della modernità industriale e tecnologica. Chi lotta contro la crisi climatica, anche in nome della scienza, sarebbe invece un nemico del progresso e del benessero umano. Ma, in definitiva, dietro a tutto questo fumo ideologico, si nascondono molti fatti. Tra cui questo: se tra i negazionisti le energie rinnovabili non godono dello stesso, convinto, sostegno dell'energia nucleare, è proprio perché le prime sono diventate una reale alternativa alle fonti fossili.

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Lo scorso 4 aprile l'IPCC ha pubblicato la terza parte del sesto rapporto sul cambiamento climatico, dedicata alle azioni per la mitigazione, cioè la riduzione delle emissioni di gas serra. Il documento ribadisce che per impedire che l'aumento della temperatura globale superi 1.5° è necessario ridurre rapidamente, di circa la metà, le emissioni da qui al 2030. Dal rapporto emerge con chiarezza quali sono le opzioni energetiche su cui l'IPCC pone la maggiore enfasi. L'accelerazione delle energie rinnovabili viene indicata tra le azioni più determinanti ed economicamente convenienti. Anche le azioni che riguardano l'agricoltura, la gestione e l'uso delle foreste e dei suoli mostrano un notevole potenziale di riduzione delle emissioni.

La transizione energetica è solo un capitolo di una transizione ambientale, che deve comprendere la tutela degli ecosistemi e della biodiversità. Le voci che si levano a sostegno dell'energia nucleare, ma che minimizzano la gravità della crisi climatica e gli impatti delle attività umane sull'ambiente, non sono davvero interessate a promuovere questa transizione. Al contrario, queste voci, e le tesi che sostengono, conducono la discussione pubblica, e le stesse scelte collettive, verso un terreno e verso esiti lontani dagli obiettivi che dobbiamo raggiungere.

Immagine in anteprima via green-news.it

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