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Nucleare, i colloqui USA-Iran ripartono da Roma per una via piena di insidie

20 Aprile 2025 11 min lettura

Nucleare, i colloqui USA-Iran ripartono da Roma per una via piena di insidie

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"Questi colloqui stanno prendendo slancio e ora anche l'improbabile è possibile". È stato il ministro degli Esteri dell'Oman, Sayyid Badr Abulsaidi, ad avventurarsi nel giudizio più ottimista sulla seconda sessione dei colloqui indiretti tra Iran e Stati Uniti svoltasi ieri a Roma, ancora una volta con la mediazione del governo di Mascate. 

Il volto sorridente, con cui appare sul suo profilo social, non lo hanno visto dal vivo i giornalisti che hanno stazionato per ore di fronte all’Ambasciata omanita lungo Via della Camilluccia a Roma, ma proprio da lui è giunto il bilancio ufficiale dell’incontro tra le due delegazioni guidate dal suo omologo iraniano Seyed Abbas Araqchi e Steve Witkoff, l’inviato di Trump sulle crisi in Ucraina e in Medio Oriente. 

Abulsaidi ha ringraziato entrambi per il loro approccio “altamente costruttivo” e il suo ministero ha precisato che i due “hanno concordato di entrare in una nuova fase delle loro discussioni, mirate a sigillare un accordo equo, duraturo e vincolante che assicuri un Iran completamente libero da armi nucleari e sanzioni”, ma anche capace di “sviluppare energia nucleare” in modo “pacifico”. 

È solo con il dialogo, conclude la nota ufficiale, che si raggiungerà un accordo credibile “a beneficio di tutti gli interessati sul piano regionale e interregionale”. Già definita infine la prossima tabella di marcia: terzo incontro a Mascate già sabato 26 aprile, anticipato da una prima riunione dei tecnici mercoledì. Insomma, finiti i convenevoli – anche da parte USA si è parlato di “buoni progressi” -  ora si fa sul serio, proprio cominciando a mettere in campo tutte le complessità tecniche che un accordo del genere richiede. 

Il diavolo sta nei dettagli, e la voragine di diffidenza da colmare

Certo, come noto il diavolo si nasconde proprio nei dettagli, tecnici soprattutto, ma per ora anche da parte iraniana si manifesta un certo, dichiaratamente moderato, ottimismo. Per Araqchi i colloqui, che hanno visto i mediatori omaniti fare la spola tra le due delegazioni sedute in stanze diverse, andranno avanti, con gli esperti a definire “un quadro per un possibile accordo”. Sarà proprio dopo queste valutazioni tecniche, ha aggiunto, che emergerà la possibilità effettiva dell’intesa. Ma a determinare il buon risultato dell’incontro romano, ha proseguito, è stata anche la presenza del direttore generale dell’Agenzia internazionale per l'energia atomica (AIEA), Raphael Grossi, già “utile” anche se non ancora direttamente coinvolto perché, ha spiegato, “la responsabilità della verifica e del monitoraggio” del rispetto degli impegni è proprio della stessa agenzia ONU per l’energia nucleare. Perché l’Iran, ha sottolineato in riferimento all’ipotesi che questa responsabilità passasse agli USA, “non accettiamo altre entità per la verifica”.  

Lo stesso arrivo di Grossi a Roma faceva del resto pensare che l’incontro sarebbe stato positivo. “C’è una nuova possibilità ma non sarà facile – aveva detto parlando dalla Farnesina, dove aveva incontrato il ministro Antonio Tajani, e aveva salutato “con favore il ruolo costruttivo e sempre più rilevante dell’Italia a sostegno della pace in un momento critico in cui la diplomazia è molto necessaria”. 

Due giorni prima, dopo essersi recato di persona a Teheran, il capo dell’AIEA aveva affermato che i colloqui si svolgevano in “una fase molto cruciale”, in cui l’Iran “non era lontano” da una possibile arma nucleare. Secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia ONU per l’energia nucleare, uscito a marzo, l’Iran ha ormai accumulato circa 275 kg di uranio arricchito al 60%, l'unico Stato non dotato di armi nucleari che arricchisce l'uranio a quel livello, il che – spiegava Grossi – era motivo di preoccupazione. 

Ma almeno per ora, secondo indiscrezioni della stessa intelligence USA, non sono queste le intenzioni della Repubblica Islamica. La quale invece, nonostante la diffidenza, lavora per un’intesa con quello stesso presidente Trump che nel 2018 si era sfilato dall’accordo raggiunto nel 2015 dall’amministrazione Obama: allora a quel tavolo erano seduti anche, con la Russia e la Cina, la Gran Bretagna, la Germania e la Francia (il gruppo E3), con il ruolo di mediatore affidato alla Rappresentante per la politica estera dell’UE, Federica Mogherini. Come noto, Teheran aveva poi rispettato gli impegni presi per un altro anno dopo l’uscita unilaterale di Trump, poi aveva cominciato a recedere dagli impegni in modo graduale e condizionato ad una risposta soddisfacente da parte europea. Ma aveva infine ricominciato ad arricchire in modo significativo l’uranio solo dopo che lo stesso presidente Usa aveva ordinato l’uccisione, il 3 gennaio 2020 a Bagdad, del generale Qassem Soleimani, potente e carismatico comandante della brigata Qods dei Pasdaran. 

Mentre oltre l’Atlantico si agita lo spettro di una bomba atomica iraniana, sono questi precedenti a suggerire ora, ai vertici della Repubblica Islamica, un approccio prudente a una nuova riapertura dei negoziati – tanto più dopo il fallimento di quelli pur portati avanti anche dall’amministrazione Biden per ricucire lo strappo, ma probabilmente naufragati per il tiro incrociato dei falchi di entrambe le parti. 

Teheran vuole “un accordo equilibrato, non una resa”

È in questo contesto di radicata diffidenza di Teheran verso l’interlocutore americano che si inserisce la dichiarazione giunta, poco prima dell’avvio dei colloqui romani, da Ali Shamkani, già segretario del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale e ora consigliere della Guida Ali Khamenei. 

L’Iran vuole “un accordo equilibrato e non una resa”, ha sottolineato, evidenziando nove principi fondamentali. Fra questi, serietà e garanzie che non vi siano nuove marce indietro della controparte; facilitazione effettiva degli investimenti (con l’accordo precedente erano rimaste in piedi le sanzioni che impedivano le transazioni finanziarie con Teheran, vanificando ogni prospettiva di rilancio del commercio e degli investimenti internazionali); nessuna replica del modello libico, cioè lo smantellamento integrale del programma nucleare iraniano. Inoltre, dovrebbe cadere ogni minaccia, visto che Trump non ha mai smesso di dichiararsi da una parte pronto a negoziare, dall’altra disposto a quell’attacco militare contro le strutture nucleari iraniane ripetutamente richiesto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Una richiesta tanto pressante che lo stesso presidente Usa, secondo il New York Times, ha dovuto deludere il suo alleato respingendone il piano di colpire già il prossimo maggio. 

Dovrebbe essere infine contenuto, sempre secondo Shamkani, chi vuole invece minare il negoziato, che in realtà è destinato a trovare molte insidie da qui alle prossime settimane. Ancora più esplicito su questo il ministro Araqchi, in occasione del suo incontro con Tajani: Israele – ha detto - resta l’unico ostacolo al raggiungimento di un Medio Oriente libero da armi nucleari (Israele possiede un arsenale atomico mai dichiarato, ndr.), alimenta l’iranofobia e l’insicurezza in Medio Oriente. “I paesi europei e la comunità internazionale devono adottare una posizione responsabile – ha aggiunto – lontano dagli stereotipi imposti”. 

La road map dell’Iran per una nuova intesa sembra un deja-vu 

L’Iran ha dunque confermato anche in questo incontro di avere le idee molto chiare su quello che si attende dai negoziati con gli Usa. Significative in tal senso le indiscrezioni, diffuse nei giorni scorsi da Iran International, su un piano in tre fasi sottoposto da Teheran a Witkoff già nel primo round negoziale in Oman e nel quale risuonano molti echi della trattativa approdata all’intesa raggiunta da Obama, il JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action). Nella prima fase, l'Iran ridurrebbe temporaneamente l’arricchimento dell'uranio al 3,67%, in cambio dell'accesso ai propri capitali congelati dagli Usa e della possibilità di esportare il petrolio negata dalle sanzioni, sebbene queste siano state parzialmente aggirate in particolare a favore della Cina. 

Nella seconda fase, l'Iran porrebbe fine del tutto all’arricchimento dell’uranio ad alti livelli (mantenendo però i più bassi per uso civili) e ripristinerebbe in pieno i poteri di ispezione dell’Aiea. Da parte loro gli Usa dovrebbero revocare le altre sanzioni e convincere Gran Bretagna, Germania e Francia ad astenersi dall’innescare il cosiddetto "snapback" delle sanzioni ONU contro Teheran. 

Quest’ultimo tema - insieme al già citato pressing di Israele per un via libera a  un massiccio attacco congiunto – è all’origine dell’urgenza con cui questi colloqui sono partiti il 12 aprile in Oman. I tre paesi europei dell’E3 hanno infatti minacciato di avviare il processo per il ripristino delle sanzioni Onu, previsto in caso di gravi inadempienze di Teheran, sanzioni che quell’accordo sospendeva appunto per dieci anni. La possibilità che l’ONU possa tornare a imporle resta formalmente in piedi fino all’ottobre 2025, anche se la procedura per farlo  dovrebbe partire già prima. 

Sempre nella seconda delle tre fasi prefigurate dal piano iraniano, Teheran si impegnerebbe anche ad attuare il Protocollo Aggiuntivo, un accordo supplementare che consente all’AIEA ispezioni a sorpresa in siti non dichiarati all'agenzia, e al quale l’Iran ha posto fine nel febbraio 2021. La terza e ultima fase prevede infine che il Congresso USA approvi il nuovo accordo – allontanando così la possibilità che un nuovo presidente lo disconosca; che  Washington revochi tutte le sanzioni, sia primarie che secondarie; che l'Iran trasferisca le sue scorte di uranio altamente arricchito a un paese terzo - il JCPOA del 2015 prevedeva che fosse trasportato in Russia e che Teheran potesse tenere solo 300 kg di uranio arricchito al 3,67%.

Al di là della veridicità di queste pur verosimili indiscrezioni, resta il fatto che Teheran ha avviato questi negoziati con una posizione univoca, nonostante nei suoi gruppi dirigenti vi siano ampie divergenze di vedute sull’opportunità di tornare a negoziare con Washington – divergenze ancora una volta mediate, con ogni probabilità, dall’anziano Ali Khamenei, giunto agli 86 anni. 

Dal fronte opposto, al contrario, sono emerse posizioni diverse e in contraddizione tra loro. La prima ha certo riguardato la scelta trumpiana di tentare la via diplomatica, prima di assecondare la richiesta dell’azione militare da parte di Israele -azione che richiederebbe l’impiego di bombe capaci di colpire in profondità anche i siti sotterranei, che solo Washington possiede e alcune delle quali sono state comunque già trasferite, secondo il citato articolo del NYT, in una base Usa nell’Oceano Indiano. Ma per il momento l’inquilino della Casa Bianca ha scelto una strada alternativa all’opzione militare, auspicata anche da chi scommette che un attacco militare farebbe cadere in breve tempo la Repubblica Islamica, aprendo la strada ad un cambio di regime. 

La debolezza dell’opzione militare è comprovata d’altra parte dalle stesse finalità che Israele vorrebbe perseguire, ossia fermare per almeno un anno la corsa di Teheran verso un ordigno nucleare. Un tempo di molto inferiore di quei 10-15 anni di stretta osservazione delle sue attività nucleari che l’intesa precedente avrebbe potuto garantire se fosse rimasta in vigore, aprendo nel frattempo alla possibilità di altri esiti distensivi nei rapporti della Repubblica Islamica con l’Occidente. 

Quanto all’ipotesi che una guerra conduca effettivamente a un cambio dell’attuale regime, pur osteggiato e odiato da diverse parti della società iraniana, non vi è nulla al momento che lo possa garantire. Perlomeno ad avviso di chi scrive, infatti, non è il caso di sottovalutare né le capacità di reazione delle forze armate iraniane, né un profondo orgoglio nazionale diffuso in diversi livelli della società iraniana, né infine il rischio che l’Iran si trasformi in un terreno di guerra infinita sull’esempio dei fin troppo recenti conflitti in Siria e in Iraq, oltre che il focolaio di una pericolosa instabilità per tutta la regione mediorientale, con probabili ripercussioni anche in Europa. 

Le contraddizioni interne della controparte USA 

Quali che siano ad oggi le valutazioni del presidente Trump sulla questione, resta certo che per il momento ha scelto la diplomazia, con il probabile intento di facilitare un disimpegno USA in una regione ormai divenuta meno strategica rispetto ad altre priorità, la competizione con la Cina in primis. Ma l’opzione diplomatica resta insidiata dalle lobby filo-israeliane influenti a Washington, e da evidenti disparità di vedute all’interno della sua stessa squadra di governo. 

“Gli europei dovranno prendere molto presto una decisione importante riguardo al ripristino delle sanzioni, perché l’Iran  chiaramente non sta rispettando l'accordo attuale", diceva da Parigi solo il giorno prima dei colloqui di Roma il Segretario di Stato, Marco Rubio, che, con il Consigliere per la Sicurezza nazionale, Michael Waltz, esprime le posizioni più massimaliste sul dossier iraniano. 

Da parte sua il negoziatore Witkoff era riuscito a dire, su una questione dirimente come l’arricchimento dell’uranio, cose diverse nello spazio di meno di 24 ore. Witkoff si era infatti prima mostrato aperto a un programma civile che non superasse la soglia del 3,67%, poi ha corretto drasticamente il tiro scrivendo sul suo account social ufficiale che “l’Iran deve fermare ed eliminare il suo programma di arricchimento e di militarizzazione del suo nucleare”. Contraddizioni che non sorprendono, se raffrontate alle posizioni ondivaghe di Trump, ma che rivelano al tempo stesso le forti pressione di chi vuole non un ridimensionamento del nucleare iraniano, entro i limiti di un programma esclusivamente civile, ma un suo vero e proprio smantellamento integrale.  

Non a caso, dunque, il ministro Araqchi, alla vigilia dell’incontro romano, aveva da una parte ribadito che il diritto dell’Iran all’arricchimento non era negoziabile, dall’altra aveva evidenziato l’incoerenza dei messaggi che continuavano a giungere da oltre Atlantico. Rispetto ai quali lo stesso Araqchi ha però anche osservato con soddisfazione che, almeno finora, la delegazione USA non ha posto sul tavolo questioni estranee alla materia nucleare. Insomma,  anche stavolta come per i negoziati per il JCPOA, Teheran esclude che nel tavolo entrassero anche le delicate materie del programma missilistico e delle milizie filo-iraniane attive nei paesi vicini: due temi che la Repubblica Islamica considera essenziali per la propria sicurezza nazionale. 

Se così partono dunque i negoziati per il nuovo accordo Iran-Usa, è legittimo chiedersi in cosa questo potrebbe alla fine differire da quello concluso dieci anni fa da Obama, che Trump aveva duramente criticato proprio perché, fra l’altro, non affrontava il programma missilistico di Teheran e le sue “maligne” influenze nella regione: due necessità da lui stesso ribadite anche il 4 febbraio scorso, quando ha confermato integralmente la sua politica di “massima pressione” sull’Iran. 

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Dai proxy alle potenze arabe del Golfo, i nuovi scenari

Ma rispetto all’accordo di dieci anni fa molte cose sono cambiate: da una parte, infatti, l’Iran ha visto, per effetto dell’offensiva israeliana seguita all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, una drastica riduzione delle sue capacità di manovra militare nella regione, soprattutto per effetto delle gravi perdite subite da Hezbollah in Libano e della caduta del regime alleato di Bashar al Assad in Siria, i due principali fattori che spingono Israele a sostenere un’azione diretta sul suolo iraniano. Dall’altra, le monarchie arabe del Golfo si stanno riposizionando rispetto a Israele, anche per effetto dei perduranti massacri di civili a Gaza, e al suo alleato statunitense, in un processo di pragmatico riavvicinamento a Teheran. A dimostrarlo, sempre alla vigilia dell’incontro Usa-Iran a Roma, la visita del ministro della Difesa saudita in Iran, dove ha incontrato Khamenei: una visita su cui vi sono letture diverse ma che potrebbe essere interpretata come un’assicurazione che il Regno da una parte sostiene la soluzione diplomatica, dall’altra non faciliterebbe un eventuale attacco contro l’Iran. 

A questo si aggiunge il recente rafforzamento dell’asse Iran-Russia sul piano economico come su quello militare. E certo non è un caso che Araqchi, prima di venire in Italia, si sia recato a Mosca, dove il ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, si è detto pronto ad agevolare l’intesa tra Teheran e Washington. Quanto alla scelta di Roma come sede di questo secondo round di negoziati – confermato dopo un precedente contrordine e svoltosi senza apparenti contatti con la contemporanea visita del vicepresidente Vance nella capitale – ha certo rilanciato il ruolo dell’Italia in questa partita. Roma - diventando “capitale di pace e di dialogo” come nelle parole di Tajani – è probabilmente percepita come meno ostile di quanto non lo siano in questa fase, anche per i motivi già citati, Londra, Parigi e Berlino. E potrebbe dunque – risolta la crisi dell’arresto in Iran, nel dicembre scorso, di Cecilia Sala – ritagliarsi un ruolo anche nelle relazioni tra Washington e Teheran. Sempre che i colloqui riescano a superare le tante insidie che li attendono.

Immagine in anteprima: frame video ABC News via YouTube

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