Cosa vuol dire “normalizzare la violenza”
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Il discorso sulla violenza di genere (espressione che userò nell’accezione che ho definito qui) è fatto di un lessico che si fa sempre più complesso e stratificato. A volte i termini usati sono respingenti perché non immediatamente compresi o comprensibili: i risultati del sondaggio condotto da Quorum/YouTrend per Sky TG24 sulla violenza di genere fanno pensare che la maggioranza del campione non abbia ben chiara la definizione di “femminicidio”, e pensino che descriva il genere della persona morta, non il movente dell’azione che ne ha causato la morte.
Non è semplice, appunto, e non è nemmeno immediato: il termine è stato introdotto nel nostro linguaggio per lo più senza spiegazioni, e l’assonanza con “omicidio”, di cui condivide la radice e la formazione, può facilmente trarre in inganno. Non è stranissimo che così tante persone ritengano che non debba diventare un reato a sé stante: la legge non può pesare i morti in modo diverso a seconda del genere. Dovrebbe, invece, pesare gli omicidi in modo diverso a seconda del movente, e infatti lo fa. Separare il femminicidio dall’omicidio creando una fattispecie di reato servirebbe a inquadrare il fenomeno come manifestazione specifica della violenza maschile. E forse ci servirebbe anche ad affrontarlo cominciando dalle sue radici, piuttosto che con una retorica vuota dalla quale gli uomini si sentono assolti anche quando sono decisamente coinvolti. I violenti, dopotutto, sono sempre gli altri.
Allo stesso modo, anche il verbo “normalizzare” e “normalizzazione” vengono utilizzati in riferimento alla violenza senza che se ne comprenda il significato profondo. Allora proviamo a capire meglio prima di tutto cosa significa questa parola, per poi applicarla al nostro agire quotidiano.
“Normalizzare” significa “ridurre a norma” qualcosa, farlo diventare parte del quotidiano. Il verbo indica un’azione: c’è un concetto, c’è un evento, c’è una manifestazione dell’umano a cui viene sottratto il carattere di straordinarietà o inconsuetudine. È un termine che si usa molto anche con accezione positiva, per indicare, ad esempio, il modo disinvolto con cui le serie televisive contemporanee trattano l’orientamento affettivo, inserendo personaggi LGBTQ che fanno cose che non sono essere persone LGBTQ.
La violenza, nella vita delle donne, è una presenza costante: che sia agita o minacciata, subita o evitata per mezzo di molteplici strategie di autotutela, è sempre lì, sempre presente. Per fare un esempio pratico: negli anni ’90 mi è capitato qualche volta di frequentare un locale in provincia di Pordenone che aveva i bagni collocati al piano di sotto rispetto a quello della discoteca. La prima volta che ci sono andata da sola, ho avuto paura e ho anche pensato di aver fatto una stupidaggine: se qualcuno avesse voluto aggredirmi, l’avrebbe potuto fare con tutto il suo comodo e nessuno avrebbe sentito niente. Questo, in sintesi, è il motivo per cui le ragazze imparano a farsi accompagnare al bagno: e le vostre battute sull’argomento non fanno molto ridere.
Si può dire, quindi, che la violenza (e le strategie per minimizzare le possibilità di esserne vittima) sia la norma, nella vita delle donne. Questo, spero siamo tutti d’accordo, non ci piace moltissimo: sarà sempre difficile trovare qualcuno, uomo o donna che sia, che si dichiari esplicitamente d’accordo con l’uso della violenza come mezzo di controllo e correzione delle donne, ma anche solo con la violenza tout court. Tanto che non si capisce mai chi è che ci meni, visto che i violenti sono sempre gli altri. Però poi, appena gratti la superficie, ecco che spuntano frasi come: “Però ti devi proteggere”, “Tieni la testa sulle spalle”, “I violenti esistono” (anche nella versione “il lupo”, gentilmente offerta da Andrea Giambruno) e via dicendo.
Cosa fanno, queste frasi? Normalizzano. Nel senso che prendono una cosa che dovrebbe avere carattere di anormalità, essere saltuaria, occasionale e imprevedibile, e la fanno diventare qualcosa di inevitabile. La norma. Il quotidiano. Niente che ci sorprenda o ci colpisca.
“Normalizzare” è questo: alimentare in noi stessi e negli altri (e nelle altre) l’idea che con la violenza si debba semplicemente convivere, ogni giorno, specialmente se donne. Che la si debba accettare come parte dell’esperienza femminile, gestendola con un baratto: la libertà in cambio della protezione. Io non esco da sola, non mi muovo senza essere accompagnata, cerco di non trovarmi mai da sola con un uomo, rinuncio ai viaggi in solitaria, studio il mio abbigliamento perché non possa essere letto come un segnale di invito, e in cambio di tutte queste privazioni e di questo vivere in allerta costante dovrei poter stare tranquilla. Neanche quello basta. Elisa Claps è rimasta cadavere dentro un sottotetto per diciassette anni, a testimonianza di come nemmeno le bravissime ragazze siano al sicuro, nemmeno in una chiesa.
Dal lato maschile, questa normalizzazione raggiunge livelli di virtuosismo straordinario quando di fronte alla denuncia di un episodio di molestia, aggressione o violenza in cui si evidenzi come sia impossibile prevedere chi o come ti molesterà, e quando, e dove, e con quale successo, e che quindi tutti gli uomini che abbiamo intorno sono dei potenziali aggressori, la reazione è “Be’, il mondo è fatto al 50% di uomini, se proprio te la vuoi vivere così allora buona fortuna”. Come a dire: se le donne hanno paura non è perché a tutte viene insegnato che quel pericolo esiste e devono guardarsi le spalle, ma perché viene detto a chiare lettere che quel pericolo è implicito in qualsiasi uomo incontriamo sul nostro cammino, e non c’è modo di distinguerli a una prima occhiata. La differenza la fanno il carattere, l’intenzione e l’educazione, ma molto spesso solo l’opportunità e la certezza quasi assoluta di farla franca.
Anche questa è normalizzazione: davanti al racconto di una violenza, manifestare fastidio verso il modo in cui è raccontata, e non verso la violenza in sé. Quella è normale, no? Può capitare. Un molesto succede, come succede un terremoto: e il molesto è sempre l’altro, il non-io, non l’uomo che protesta, che chiede assoluzione per sé. Della violenza, della molestia, del fastidio o della paura della donna che racconta non gliene importa nulla, gli importa solo del suo fragile ego. È interessante notare come il sottoinsieme dei mortalmente offesi dalle manifestazioni di rabbia delle donne si sovrapponga in modo quasi perfetto con quello dei paternalisti che ti dicono come dovresti comportare per evitare la violenza, cioè, in sostanza: diffidare degli uomini. Ma non di tutti. Degli altri, appunto.
Poi ci sono i “protettori”, quelli che quando si parla di violenza tirano in ballo il loro essere padri, mariti e fratelli, e mettono in campo il loro dovere di “proteggere” le donne dagli altri uomini come si protegge un oggetto, un territorio, una proprietà, senza che nel discorso si affacci mai la consapevolezza di come anche questa sia una forma, se non di violenza, quantomeno di prevaricazione. Una prevaricazione che le donne accettano, sempre nell’ottica del baratto, verniciandola di sentimento: quanto mi ama. Guarda come mi protegge.
Ci sono cose che è giusto siano normali, perché già lo sono: amarsi a prescindere dal genere, identificarsi in un genere diverso da quello a cui siamo stati assegnati alla nascita, avere dei figli al di fuori di una relazione eterosessuale, costruire e mantenere reti di legami familiari basati non sul sangue, ma sull’affinità personale (Goethe avrebbe detto: elettiva). È giusto rendere norma quello che ha a che vedere con l’amore, con lo stare bene, il volersi bene, la stabilità. La violenza no, quella non può essere normale e non dobbiamo accettarla, o trattarla come se lo fosse.
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