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‘Non studiate quello che vi piace’: l’ideona dell’estate 2015 contro la disoccupazione

15 Agosto 2015 7 min lettura

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‘Non studiate quello che vi piace’: l’ideona dell’estate 2015 contro la disoccupazione

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Il vicedirettore del Fatto Quotidiano Stefano Feltri, nel rispondere ai numerosi commenti all'articolo “Il conto salato degli studi umanistici”, torna sull'argomento “Università e occupazione”, rivolgendo ai propri critici una domanda: «all’Università bisogna studiare quello che serve a trovare un buon lavoro o quello che piace di più?»

Nel suo primo articolo Feltri commentava i dati di un paper del centro studi di Bruxelles CEPS sul ritorno economico, in termini di guadagno dopo la fine degli studi, dell'iscrizione ai corsi di laurea in diverse discipline. All'interpretazione di quei dati (peraltro non corretta, alla luce anche di altre fonti, come ha mostrato Valigia Blu), Feltri faceva seguire alcune considerazioni e conclusioni del tutto arbitrarie sulle caratteristiche di chi si iscrive ai corsi di laurea umanistici. Lettere, Filosofia, Storia. Per Feltri, covi di gente poco sveglia, poco intraprendente e, quindi, di futuri disoccupati. Oppure, parcheggi per ricchi che possono permettersi di buttare via tempo e denaro.

Ma nel secondo articolo Feltri rincara la dose, ammonendo e dispensando consigli di vita alle prematricole sui rischi di una scelta basata solo sul “ciò che piace”. Ma in che senso una scelta guidata dal “ciò che piace” dovrebbe essere di per sé sbagliata? Per ognuna delle centinaia di discipline esistenti c'è almeno qualcuno che nutre per essa passione e interesse. Ma forse possiamo trovare un esempio per orientarci. Che esempio propone Stefano Feltri? Quello di Stefano Feltri:

La nomea dell’università e – mi piace pensare – le conoscenze e le competenze acquisite mi hanno permesso di trovare subito il lavoro per il quale mi stavo preparando, cioè il giornalista, e di avere un reddito sufficiente a ripagare in pochi anni l’investimento iniziale (ripagare per modo di dire, perché i miei genitori non mi hanno chiesto i soldi indietro). Anche io avrei preferito studiare scienze politiche o filosofia, ma alcune persone sagge più vecchie di me mi hanno consigliato di fare qualcosa di più utile e meno divertente. Mi sa che avevano ragione.

Naturalmente Feltri, nell'additare se stesso come guida per le giovani generazioni, non si fa sfiorare dal dubbio che, nel suo caso, per conseguire conoscenze e competenze valide per la professione da lui scelta, il giornalismo, non ci fosse affatto un solo percorso formativo possibile, ma sarebbe stata altrettanto utile e valida la preparazione in molti altri campi, dato, peraltro, che la professione non richiede il possesso di un unico titolo di studio. E il parametro da seguire sarebbe potuto essere, al limite, la materia in cui specializzarsi (giornalismo politico, scientifico, esteri, etc). Feltri ha sacrificato la sua propensione per la filosofia e, quindi, per qualche motivo che non è dato sapere, oggi ogni nuova prematricola dovrebbe fare lo stesso. Anche se volesse fare, per dire, un dottorato di ricerca in filosofia della scienza, magari all'estero. Materia, come noto, inutile, irrilevante e per gente poco sveglia o ricchi perditempo.

Feltri prosegue:

Se poi volete comunque studiare filologia romanza o teatro, se ve lo potete permettere o se vi attrae un’esistenza da intellettuale bohemien, fate pure. Affari vostri. L’importante è che siate consapevoli del costo futuro che dovrete pagare.

Sul pianeta “Stefano Feltri” i laureati umanistici sono ancora poeti e scrittori maledetti e scapigliati, che se ne vanno in giro come vagabondi per le strade con abiti sgualciti e con le tasche bucate o che vivono in mansarde infestate dai topi e arredate con mobili di seconda mano e che la notte, al lume di lampade a petrolio, si rigirano tra le mani raccolte di scritti che nessuno pubblicherà mai, odiati e disprezzati dalla società. Non sono, come sul pianeta Terra nel 2015, anche professionisti nel campo dell'archeologia, del restauro, della conservazione dei beni culturali e artistici, dell'archivistica, storici di professione o, semplicemente, professori di italiano e lettere nei licei.

Feltri cita poi i dati del consorzio Almalaurea sul tasso di disoccupazione raccolti nel 2014, a cinque anni dalla laurea in diversi settori disciplinari. Numeri, scrive Feltri, che:

i tanti che qui nei commenti dicono ai loro ragazzi di studiare solo “quello per cui si sentono portati” dovrebbero tenere bene a mente, magari con qualche senso di colpa.

Forse Feltri, più che suscitare senso di colpa nel prossimo, avrebbe dovuto preoccuparsi di capire quanto citava a sostegno della propria tesi e, soprattutto, qual è la vera realtà degli sbocchi occupazionali dei laureati italiani. Già, perché tra le lauree di cui viene riportato il tasso di disoccupazione ci sono quelle del gruppo geo-biologico, che Feltri cita come “geo-biologia”, pensando che si tratti di un corso di studio. In realtà, il gruppo geo-biologico comprende lauree come quelle in scienze geologiche, scienze biologiche, scienze naturali e scienze ambientali. Un gruppo di lauree scientifiche, dunque, di grande importanza. Il suo tasso di disoccupazione (13,6%) è piuttosto alto, purtroppo. E non è la prima volta, in questi ultimi anni, che questo gruppo di lauree figura tra quelle più in difficoltà sotto il profilo dell'occupazione. Il gruppo della lauree geo-biologiche è tra quelle con tassi di disoccupazione maggiori. Cosa dovremmo dedurne? Secondo il metro di misura di Feltri, dovremmo dedurre che sono lauree per ricchi che se le possono permettere o aspiranti bohemien. Invece, il caso delle lauree del gruppo geo-biologico, riportato ma ignorato da Feltri, confuta il frame di quest'ultimo, che appare così privo di fondamento.

Ma, si potrebbe dire, in fondo sono solo opinioni di Feltri. No. Il mero fatto che un gruppo di lauree riscontri difficoltà nell'essere valorizzato e riconosciuto nel mondo del lavoro, per Feltri, con un salto logico, intellettuale e politico piuttosto agghiacciante, dovrebbe determinare la sua cancellazione:

Dal lato delle scelte collettive, cioè le politiche pubbliche, dovremmo tutti chiederci se ha senso sussidiare pesantemente università che producono disoccupati e formano persone che nessuno sente il bisogno di assumere o retribuire adeguatamente. Tradotto: meglio avere molte facoltà di filosofia e scienze della comunicazione o chiuderne qualcuna e magari dare più incentivi alla ricerca in campo chimico o elettronico? Parliamone.

Parliamone. Lasciamo da parte i bersagli “facili”, come il teatro e la filologia romanza (questi grandi ostacoli per lo sviluppo sociale ed economico del paese). Prendiamo proprio il caso delle lauree in scienze biologiche. I laureati in questo campo, a quanto sembra, trovano anche essi non poche difficoltà nel mondo del lavoro. Di certo molto superiori ai laureati in altre discipline, anche scientifiche, come Medicina. Forse perché in pochi, in questo paese, sia nel settore pubblico che privato, sentono il «bisogno di assumere o retribuire adeguatamente» questi laureati. Ed è giusto che sia così? Per Feltri, alla luce di quanto afferma prima, forse sì.

Il vicedirettore del Fatto non avverte la benché minima necessità di riflettere sulle cause della disoccupazione né su come rimediare ad essa. La disoccupazione esiste e, in quanto tale, diventa normativa. Non dobbiamo fare altro che riconoscerla. Nessun accenno, o dubbio, riguardo il fatto che sia giusto, sensato, accettabile che persone con un titolo di studio universitario debbano trovare più difficoltà di altre ad avere un futuro. «Nessuno sente il bisogno» perciò la collettività dovrebbe chiudere. A dispetto del fatto che sia una opinione del tutto personale e senza il supporto di un solo dato il fatto che non ci sia «nessuno» che senta quel bisogno. E a dispetto del fatto che, ancora una volta, Feltri ignori quale sia la realtà degli investimenti di risorse pubbliche nell'università, che mostra come questo settore, insieme a quello della ricerca, sia tra quelli più colpiti dai tagli negli ultimi anni. In Italia non esistono troppe università, rispetto al numero di abitanti, né troppi laureati. Abbiamo, al contrario, troppo pochi laureati, in tutte le discipline. E se non investiamo in ricerca scientifica non è perché ci sono troppi dipartimenti di filologia classica, ma perché esiste da tempo una classe dirigente miope e indifferente. Quindi Feltri invoca la chiusura di interi corsi di studio tralasciando del tutto i dati a riguardo.

Molti hanno interpretato gli articoli di Feltri come un invito a intraprendere una carriera scientifica, contro l'istruzione umanistica, in una annosa come quanto mai sterile contrapposizione tra cultura umanistica e cultura scientifica, che trascura le ampie sovrapposizioni tematiche e disciplinari esistenti tra le due (peraltro l'economia, la disciplina in cui si è laureato Feltri, molto difficilmente può essere annoverata tra quelle scientifiche). Non sono d'accordo e per due ragioni. La prima è che il caso delle lauree nel settore geo-biologico mostra come la ricetta di Feltri, se applicata, decreterebbe la fine dell'offerta pubblica anche in queste materie di studio. Perciò, è una ricetta, oggettivamente, non solo “anti-umanistica” ma anche "anti-scientifica”.

La seconda ragione, più profonda, è che la visione di Feltri, basata niente altro che sul valore monetario, i bisogni del mercato, che dovrebbero dettare legge, e l'“utile” (definito, oltretutto, in termini personali e arbitrari) è esattamente quella abbracciata da tutti coloro che pretenderebbero di riservare le risorse pubbliche nell'istruzione e nella ricerca soltanto a ciò che mostra di avere un ritorno economico immediato, applicativo, che esclude tutto quello che ha un valore culturale e conoscitivo. È la visione di quelli che non comprendono, ancora oggi, che per avere la “innovazione” ci vuole la ricerca di base, quella che ha come unico scopo immediato l'avanzamento della conoscenza. È una visione che promuove, nel lungo termine, il declino di un paese, non la sua crescita.

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Per questo mi pare del tutto incoerente (e inconsapevole della propria incoerenza) quel richiamo all'importanza della cultura scientifica e alla figura della senatrice Elena Cattaneo, con cui Feltri chiude il suo pezzo. Perché la cultura scientifica, come quella umanistica, per potersi accrescere e aumentare la nostra conoscenza sulla natura e fornirci anche nuove applicazioni e tecnologie, deve nutrirsi della visione di lungo termine e largo respiro di chi la deve promuovere (i singoli e la collettività). E non si promuove la cultura scientifica reprimendo e mortificando le aspirazioni e il talento di chi vuole studiare letteratura greca o storia medievale. Perché con lo stesso arbitrario criterio dell'”utile” si finirebbe per reprimere anche le aspirazioni e il talento di chi vuole dedicarsi a carriere scientifiche in campi di studio che qualcuno, per ignoranza, potrebbe giudicare “inutili”.

Come scrisse il fisico e filosofo Henri Poincaré, «lo scienziato non studia la natura perché sia utile farlo. La studia perché ne ricava piacere».

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