Il significato della ‘riforma linguistica’ di alcuni ministeri del Governo Meloni
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La scelta del Governo Meloni di utilizzare alcune formule linguistiche per imprimere una forte impronta politica e simbolica all’azione di alcuni dicasteri non è una novità: basti pensare che il governo Draghi aveva creato la formula ‘Ministero della Transizione Ecologica’ per rinominare il ministero dell’Ambiente.
Allo stesso modo, negli ultimi 10 anni, abbiamo assistito a una deriva ‘pubblicitaria’ di molti decreti legge voluti dai vari governi che si sono succeduti: “La Buona Scuola” e la legge “Dopo di Noi” del governo Renzi, il “Decreto Dignità” voluto da Di Maio, i vari “Decreti Aiuti” che si sono succeduti in questi anni sono solo alcuni tra questi esempi.
È lo spirito (discutibile) del tempo. Si può certamente storcere il naso sulla natura politica di alcune scelte, mentre sarebbe poco coerente farlo in merito alla ‘risemantizzazione’ in sé, dato che questo genere di operazione è stato ampiamente sdoganata, in passato, da praticamente tutte le forze politiche.
Ciò detto: andiamo a osservare i cambiamenti dei nomi di alcuni ministeri, qual è la logica che li ha ispirati, qual è il significato politico e se queste scelte devono destare reali preoccupazioni o sono solamente azioni di propaganda.
1. Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare (Francesco Lollobrigida, Fratelli d’Italia)
L’introduzione del concetto di “sovranità alimentare” ha subito generato polemiche e preoccupazioni, anche perché la parola ‘sovranità’ può evocare foschi presagi sul rischio di isolamento internazionale del nostro paese.
La scelta del governo Meloni di adottare questa formula (identica a quella del governo Macron, come ha fatto notare Lorenzo Pregliasco su Twitter) è però molto sofisticata dal punto di vista politica e può aprire un’interessante faglia di discussione all’interno del campo progressista italiano.
Il concetto di ‘sovranità alimentare’ infatti non nasce oggi. È stato coniato dalla Via Campesina nel 1996 per definire il diritto a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto con metodi ecologici e sostenibili, ma soprattutto coltivato e scambiato a livello locale o regionale. Un manifesto per la de-globalizzazione dei sistemi alimentari, per evitare il loro utilizzo come clava geopolitica o strumento di speculazione finanziaria.
In questi mesi di crisi energetica e alimentare sono aumentate le voci degli esperti e della società civile che chiedono di fare tesoro della crisi in corso e impostare un’epoca nuova in cui ridurre la dipendenza dalle filiere internazionali, sostenere i paesi del Sud globale senza più chiedere in cambio aggiustamenti strutturali e liberalizzazioni del mercato, ridurre la produzione e il consumo di carne e spostare i sussidi agricoli dalle colture industriali alle produzioni di piccola scala, orientate al mercato interno. Come ricorda Francesco Panié su Valigia Blu, “in questo senso andava una lettera aperta inviata al governo italiano il 16 marzo scorso e firmata da 17 associazioni”.
Tra queste c’è, ad esempio, Slow Food che sul suo sito scrive che: “La sovranità alimentare è il diritto di ogni paese a stabilire le proprie politiche alimentari, l’indirizzo di produzione, distribuzione e di consumo del cibo. Politiche che possano rispondere alle esigenze interne e garantire un cibo sano e sostenibile a tutte e tutti. Un diritto che rischiamo di perdere, oggi più che mai. Tanto che con la guerra alle porte d’Europa, proprio in quei paesi culla dell’agricoltura, i blocchi del grano hanno avviato una crisi alimentare che non conoscevamo da anni. E intanto qui in Italia, siamo disposti a pagare oro quel grano che non coltiviamo più perché negli ultimi trent’anni non abbiamo voluto aumentare il compenso dei nostri contadini.”
L’introduzione del concetto di “sovranità alimentare” rappresenta dunque una sfida a cielo aperto alla speculazione finanziaria sul cibo. È una sfida che è in corso da anni, e il governo Meloni ha deciso di intestarsela politicamente.
Il difficile, però, viene adesso. Cosa vuol dire perseguire la sovranità alimentare? Vuol dire creare un meccanismo di agevolazioni per le produzioni enogastronomiche italiane e di zavorre per ciò che importiamo dall’estero? Vuol dire “più pasta e meno kebab” (scritta apparsa di frequente sui muri delle città italiane di questi anni, e anche nella retorica di numerosi politici di destra), con tutto il portato politico, culturale e xenofobo che ne sottende? Vuol dire iniziare una battaglia economica e culturale contro la Coca Cola (cito questo brand, a titolo di esempio, perché di uso assai comune)? Vuol dire intervenire, come scrive Slow Food, sul “compenso dei nostri contadini” e dunque sulla lotta al caporalato e sulla fine della schiavitù nell’agricoltura (quasi sempre a danno di persone straniere, che lavorano in condizioni inaccettabili), dopo che si è fatta una battaglia senza quartiere al salario minimo e al reddito di cittadinanza nel corso della campagna elettorale? Vuol dire decidere di seguire la linea Salvini, che da mesi si batte contro la ‘carne sintetica’ (e dunque contro la possibile riduzione dell’impronta energetica legata all’allevamento intensivo, oltre che contro chi decide di adottare un’alimentazione vegetariana o vegana)?
Scopriremo presto se si tratta di pura propaganda o se invece questa scelta linguistica presuppone un ripensamento del modello sociale ed economico, e addirittura della globalizzazione in sé.
2. Istruzione e merito (Giuseppe Valditara, tecnico, ha contribuito alla stesura della riforma Gelmini)
Questa etichetta rappresenta un enorme spostamento a destra del nostro paese sul tema dell’educazione. Legare il concetto di ‘istruzione’ a quello di ‘merito’ vuol dire che si intende creare un meccanismo che premia ‘i migliori’, la cui definizione dipende da parametri che non necessariamente sono affidabili per la verifica delle effettive capacità. La missione educativa fondamentale del progressismo, invece, mira all’emancipazione culturale e sociale della fascia più ampia possibile della popolazione.
Mettere l’accento sul merito legandolo in modo così stringente all’istruzione rischia di creare così una società ancora più diseguale. Due secoli fa Percy Shelley scriveva: "The rich get richer and the poor get poorer". Un sistema basato esclusivamente sul merito favorisce questo meccanismo: chi parte da situazioni economiche e familiari favorevoli potrà accedere a un’istruzione di qualità e potrà dunque accedere più facilmente alle posizioni più alte della ‘classifica del merito’. Chi invece non ha questa possibilità sarà ulteriormente punito da questa impostazione culturale.
Questa scelta del governo Meloni, tra le altre cose, crea un’aspettativa gigantesca rispetto al concetto di perseguimento del merito già all’interno dell’esecutivo: un governo che parla di ‘merito’ fino al punto di inserirlo all’interno del nome di un Ministero dovrà essere a sua volta impeccabile nel rispetto di questo principio.
Così come la frase ‘Abbiamo abolito la povertà’ di Luigi Di Maio si è trasformata nel più grande dei boomerang, vista l’impossibilità di abolire la povertà per decreto (e dato che in questi anni gli indici di povertà assoluta sono cresciuti, e non diminuiti, anche a causa del Covid e della guerra in Ucraina), allo stesso modo la parola ‘merito’ potrebbe diventare una sorta di tormentone polemico nei confronti delle scelte politiche che perseguiranno criteri di fedeltà, contiguità politica e necessità di equilibrio nella maggioranza e non di competenza e capacità. Già la composizione di questo governo potrebbe creare i primi dubbi: sono davvero stati scelti i migliori e collocati nelle posizioni di potere più adatte alle loro capacità? Ha prevalso il merito o il Manuale Cencelli? Lo scopriremo presto.
3. Ambiente e Sicurezza energetica (Gilberto Pichetto Fratin, Forza Italia)
In questo caso si registra un elemento politico di forte discontinuità rispetto al Governo Draghi che, come citato poc’anzi, aveva voluto il “Ministero della Transizione Ecologica”, cioè mirava a un ripensamento complessivo del modello socio-economico nella direzione della sostenibilità ambientale.
Meloni non solo mette la marcia indietro, tornando al ministero dell’Ambiente (e fin qui, niente di scandaloso) ma sembra voler legare le politiche ambientali al perseguimento di una specifica missione, e cioè la necessità di garantire la sicurezza energetica del nostro paese.
A questo proposito, è interessante notare che non esiste il più il ministero dello Sviluppo Economico così come lo conoscevamo: le competenze che facevano capo al MISE infatti sono rimaste in buona parte all’interno di nuovo ministero, quello delle imprese e del ‘Made in Italy’ - definizione ben poco sovranista - che farà capo ad Adolfo Urso (Fratelli d’Italia), ma la legislazione sull’energia passa ora in capo all’ambiente.
Questa decisione può avere due conseguenze, una teoricamente positiva e una teoricamente negativa.
Legare l’ambiente alla sicurezza energetica potrebbe voler significare che l’Italia si prepara ad abbracciare un fortissimo investimento sulle energie rinnovabili, che hanno il doppio vantaggio di consolidare i nostri livelli di sicurezza energetica, riducendo i livelli di dipendenza dall’importazione di gas e petrolio dall’estero (elemento che ora è diventato non solo economico ma anche apertamente geopolitico) e allo stesso tempo di ad affrontare con più credibilità l’emergenza climatica.
Allo stesso tempo, legare in modo così specifico il concetto di ambiente con quello di ‘sicurezza energetica’ potrebbe far arretrare il livello di priorità di altre questioni di assoluta priorità per l’Italia, a partire dagli obiettivi climatici, come sta accadendo come in altri paesi, dalle politiche per la lotta al dissesto idrogeologico e contro il consumo di suolo.
Nei prossimi mesi capiremo se quella ‘e’ tra ‘Ambiente’ e ‘Sicurezza Energetica’ all’interno del nome del ministero richiede un accento (Ambiente è Sicurezza Energetica, e solo quello), o se la congiunzione sarà effettivamente reale, e dunque ci si preoccuperà tanto di energia quanto di ecologia. Lo capiremo dalle competenze del dicastero e dalle politiche adottate, ma – scrive Rinnovabili.it – “aver tolto dal nome ogni riferimento alla lotta climatica e allo sviluppo sostenibile fa riflettere”.
4. "Famiglia, natalità e pari opportunità" (Eugenia Roccella, Fratelli d’Italia)
Questa è certamente la scelta più regressiva dal punto di vista politico del governo Meloni. La scelta della ministra, con un curriculum apertamente ostile a qualsiasi avanzamento sul fronte dei diritti civili, rappresenta già di per sé un grosso campanello d’allarme (allo stesso tempo ritengo che non ci si potesse aspettare nulla di diverso da questo governo).
La scelta linguistica, poi, è da sola un manifesto politico: legare il concetto di famiglia a quello di natalità vuol dire considerare le famiglie senza figli come cittadinanza di serie B; associare la parola ‘famiglia’ a quello di ‘pari opportunità’ lascia intendere che chi non ha una famiglia ha meno diritto alle pari opportunità. Far coincidere ‘natalità’ e ‘pari opportunità’ nello stesso dicastero è un messaggio piuttosto esplicito alle donne: dovete fare figli, con tutto ciò che questo potrebbe comportare in merito alla legislazione sul diritto all’aborto. Maurizio Gasparri ha iniziato ad attaccare questo diritto ancora prima della formazione del governo.
Mettere insieme questi tre concetti potrebbe avere un significato demografico positivo laddove si lavorasse a politiche che favoriscano il riconoscimento di diritti civili anche per le coppie omosessuali (matrimonio e adozione su tutti). Tuttavia Roccella ha dedicato la propria carriera politica a osteggiare questa possibilità e le è stato assegnato questo ministero proprio per questo motivo.
Di fatto, la dicitura reale di questo dicastero sarebbe “Ministero per le coppie sposate eterosessuali’. Utilizzare la formula ‘Famiglia, natalità e pari opportunità’ è un chiaro messaggio politico a chiunque non rientri all’interno di questo canone: per voi ci saranno meno tutele.
Immagine in anteprima: Quirinale.it, Attribution, via Wikimedia Commons