Povertà estrema, rapimenti di massa, conflitti intercomunitari: a rischio il futuro delle giovani generazioni in Nigeria
8 min letturadi Antonella Sinopoli - direttrice di Voci Globali, vive in Ghana
Dall’inizio dell’anno in Nigeria sono già rimaste uccise 2408 persone a causa delle violenze che periodicamente scoppiano nel Paese. La media è di oltre 10.000 ogni anno (il periodo più feroce si registrò nel 2014 quando le vittime di violenza arrivarono a 22.870). Nessuno dei 36 Stati di cui è composto il Paese è totalmente sicuro, ma ce ne sono alcuni, come il Borno, segnati in rosso sulle mappe. Seguono, al Nord Zamfara, e poi Kaduna, Plateau, e scendendo verso Sud, e Sud Ovest, lo Stato di Benue, River, il Delta, Ogun.
Una nazione ricca, la Nigeria, a cominciare dal petrolio. In quel Delta del Niger, paradosso estremo tra ricchezza, povertà, insicurezza. Paradosso tante volte portato a galla e tante volte silenziato. Anche con la violenza di Stato. Come accadde, ormai 26 anni fa, quando Ken Saro-Wiwa, scrittore e attivista ambientale venne mandato a morte per aver sfidato le multinazionali del petrolio, la Shell in testa, ma anche il suo governo, colpevole di complicità in un’operazione di distruzione del territorio e degli Ogoni, popolo indigeno dell’area. Un esempio, una grande storia in un panorama fatto di sfruttamento, di giochi di forza, di arroganza del potere. Che vesta abiti occidentali o tradizionali.
Non è mai stata una nazione “facile” la Nigeria, oltre 923mila chilometri quadrati, oltre 200 milioni di abitanti, quasi 250 gruppi etnici (sebbene i più numerosi siano tre: Hausa, Yoruba, Igbo) e due religioni dominati, quella musulmana (53.5% ) e quella cristiana (45.9%). Un mix di lingue, culture, tradizioni di grande interesse storico e etnologico, ma che hanno determinato spesso lotte interne legate al dominio nella politica, di parti del territorio, al diritto di pascolo o di coltivazione. Rivalità che alcuni studiosi hanno definito l’”afflizione fatale” che coinvolge tutto il Paese. E che, andando indietro nel tempo, si fa risalire – pensiamo al lavoro di Chinua Achebe - alle conseguenze della colonizzazione.
La composizione delle strutture politico istituzionali dovrebbe garantire un’equilibrata rappresentanza politica (e all’interno del governo) per ognuno degli Stati e quindi dei gruppi etnici, ma a fare la differenza non sono certo le regole costituzionali. E lo dimostra la cronaca di questi ultimi anni. Cronaca che testimonia la proliferazione di gruppi armati, spesso senza nome e dediti ai rapimenti, con differenti motivazioni e con poco da perdere. Se fino a pochi anni fa il target le vittime dei rapimenti erano camion e bus in viaggio sulle strade nel Nord-Ovest della Nigeria, ora la nuova tecnica è quella dei rapimenti di massa. Centinaia di ragazzi e ragazze portati via con la forza dalle classi o dai dormitori delle boarding school. L’ultimo in ordine di tempo risale al 12 marzo, almeno 30 gli studenti rapiti durante un attacco armato in un college nello Stato di Kaduna. Il 26 febbraio scorso, invece, 317 studentesse erano state prelevate dalla Government Girls Science Secondary School a Jangebe, nel Zamfara State (rilasciate poi dopo qualche giorno). E siamo già al quarto rapimento di questo genere in meno di quattro mesi in aree nord occidentali (o adiacenti) del Paese. Pochi giorni prima erano state liberate 47 persone, inclusi 27 studenti, tre membri dello staff scolastico e 12 familiari dei ragazzi, che erano stati rapiti in un college di Kagara nello Stato del Niger. E poi va ricordato il caso dei 300 ragazzi rapiti da una scuola secondaria nello Stato Katsina.
Dinamiche che ad occhi poco esperti possono apparire assurde e prive di senso logico. Eppure, è la facilità con cui si possono rapire e “nascondere” centinaia di ragazzi e ragazze che lascia intendere quanto il controllo del territorio sia in mano a gruppi capaci di agire indisturbati, quando e con il grado di terrore che scelgono di diffondere. Mentre sembra consolidarsi lo scacchiere della violenza: il Nord Ovest e le aree centrali dove è in atto la competizione tra agricoltori e pastori che si contendono la terra e le sue risorse e il Nord Est, centro dell’attività del gruppo jihadista Boko Haram. Un nome che, dalla lingua hausa, è generalmente tradotto “l’educazione occidentale è proibita”. È qui, nel Borno State, che nel 2014 furono rapite, dalla città di Chibok, 276 studentesse. Allora si sviluppò un massiccio movimento di opinione. #Bringbackourgirls fu una campagna mondiale urlata dalle donne nigeriane sui social e per le strade e sostenuta in tutto il mondo. Per tre anni e mezzo queste ragazze, per la maggior parte di religione cristiana, rimasero nelle mani dei loro rapitori. Un centinaio non sono mai tornate a casa. Traumi che difficilmente saranno ricomposti. Traumi che affliggono singoli individui e l’intera nazione.
A distanza di anni fa sorridere (o fa rabbia) quella dichiarazione di Muhammadu Buhari che in un tweet del gennaio 2015 dichiarava: “Come è possibile che 219 ragazze non si trovino e i nostri leader sono così incapaci di azione?”. E lanciò l’hashtag #ThingsMustChange. A maggio 2015 sarebbe diventato capo di Stato, sarebbe stato lui la massima espressione di quella leadership che fino a pochi mesi prima aveva criticato. In quanto al cambiamento si è visto poco o niente.
Rapire rimane un’attività assai lucrosa nel Paese, serve a sostenere le battaglie ideologiche, i gruppi armati e le loro famiglie e naturalmente a consolidare la propria forza. Un recente report di SB Morgen concentrato sull’"industria economica dei rapimenti in Nigeria” ha stabilito che dal 2011 al 2020 i cittadini nigeriani hanno pagato almeno 18 milioni di dollari per riacquistare la libertà o liberare i propri parenti. Il 60% di questa grande quantità di denaro è stata spesa nella seconda metà del periodo in questione, a dimostrazione del deterioramento del grado di sicurezza nel Paese e della sostanziale impunità di chi si macchia di questo crimine. È chiaro che il Governo non riesce a garantire protezione ai propri cittadini e così, anziché rapire gente che viaggia in autobus o uno straniero (cosa che tra l’altro mette in allarme e in movimento ancor di più la diplomazia internazionale) è più “conveniente” agire su grandi numeri. Le famiglie hanno dimostrato di fare qualunque cosa per riportare a casa i propri figli.
Dopo l’ultimo “incidente” Buhari ha lanciato non troppo velate accuse ai governatori locali di alimentare la crisi e ha chiesto di sospendere o rivedere la politica del “dono in cambio del perdono”. Lo scorso anno il governatore del Zamfara State, Bello Matawalle, aveva annunciato l’iniziativa di dare ai banditi (così nel paese vengono generalmente chiamati gli appartenenti a gruppi armati) che rinunciano all’attività criminale, due mucche per ogni Ak-47 consegnato in segno di resa. E qualche mese fa il leader del gruppo criminale dietro il rapimento dei 300 ragazzi in una scuola di Kankara, si è “consegnato” insieme agli altri uomini della gang. A loro è stato promesso un alloggio e mezzi di sostentamento. Una filosofia e un’apertura di dialogo con i gruppi criminali che, ripetiamo, non convince il presidente e che comunque dà la misura della difficoltà dello Stato e delle sue forze di polizia di contenere l’anarchia causata dai gruppi armati. Una situazione che aveva spinto membri del Senato a chiedere lo stato di emergenza dopo il rapimento dei ragazzi di Kagara. E mentre si discuteva della chiusura delle scuole e di misure di sicurezza in un altro Stato si stava già programmando l’ennesimo rapimento.
Insomma, è chiaro che la costante insicurezza sta mettendo a rischio il futuro delle giovani generazioni già segnato da altri fattori, prima fra tutti la mancanza di mezzi. Barriere economiche e socio-culturali che incidono soprattutto sulla vita delle bambine e delle ragazze. I dati forniti dall’Unicef parlano di una frequenza scolastica al di sotto della media di altri Paesi africani, persino nella scuola primaria che è gratuita e obbligatoria. Circa 10.5 milioni di bambini non vanno a scuola. Inoltre, negli Stati del Nord-Est e del Nord-Ovest rispettivamente il 29 e il 35% dei bambini di religione musulmana ricevono solo un’educazione coranica – afferma sempre l’organizzazione delle Nazioni Unite – che non include lezioni basilari, come leggere e fare di conto. Intanto negli anni i gruppi armati si sono consolidati – parliamo di quelli legati a Boko Haram. Una forza letale che dal 2011 al 2019, come spiega un focus di Crisis Group, ha provocato la morte di 8.000 persone solo nei sette Stati Nord occidentali del paese, e nel 2020 le violenze hanno costretto alla fuga almeno 260.000 persone, la maggior parte nel confinante Niger, andando così ad incidere sulla già difficile situazione ambientale ed economica di quel paese.
E a proposito della questione ambientale e della crisi climatica, non va sottovalutato il continuo e crescente conflitto tra nomadi e agricoltori, soprattutto nelle regioni centrale e Nord Ovest del Paese. Un conflitto che ha a che fare con le risorse primarie, quelle della terra. Sebbene la Nigeria sia nota per la produzione di petrolio e gas, l’agricoltura impiega ancora il 70% della forza lavoro. Ma se fino a qualche decennio fa la relazione tra pastori, perlopiù nomadi e perlopiù di etnia fulani con i sedentari agricoltori si svolgeva in modo pacifico, le tensioni nel tempo si sono acuite fino a diventare un vero e proprio conflitto. I fulani da un lato (soprattutto nelle regioni Plateau e Kaduna) che lamentano discriminazioni e attacchi dai locali di religione cristiana e gli altri che invece denunciano un uso abusivo e distruttivo della terra da parte dei pastori con le loro greggi perennemente in cerca di pascoli e di acqua. Le violenze sono dunque molto frequenti e la questione delle risorse si intreccia con motivazioni etniche e religiose. Ecco perché è poi facile che tali conflitti evolvano includendo altri attori, come gruppi armati organizzati e terroristici. I crescenti legami tra terrorismo, criminalità organizzata e violenza intercomunitaria non possono essere sottovalutati, come ha affermato Mohamed Ibn Chambas, Capo dell'Ufficio delle Nazioni Unite per l'Africa occidentale e il Sahel (UNOWAS), in occasione della presentazione dell’ultimo report sulla situazione nell’area in questione. "I terroristi continuano a sfruttare le animosità etniche latenti e l'assenza dello Stato nelle aree periferiche per portare avanti la loro agenda".
Ora, questa situazione non deve far pensare che tutta la Nigeria sia messa a ferro e a fuoco e che non ci sia spazio per una vita di normale quotidianità per 209 milioni di abitanti. Quel che è certo è che i problemi inerenti alla sicurezza hanno un evidente legame con l’estrema sperequazione sociale esistente nel paese. Secondo i dati elaborati dal World Poverty clock quasi 89 milioni di persone vivono in condizione di povertà estrema, vale a dire con meno di 1.90 dollari al giorno. Si tratta del 43% della popolazione. Un dato in crescita rispetto agli anni precedenti nonostante la Nigeria sia una delle economie africane che viaggiano a grande velocità. Un’economia in forte crescita dal 2009 anche se le performance dal 2014 sono scese sotto le potenzialità del paese. Nel 2019, il prodotto interno lordo ammontava a circa 448,12 miliardi di dollari USA. La disoccupazione rimane allarmante (lo è da tempo). E dal 2017 i dati sono in continuo aumento. Secondo un recente report dell’Ufficio nazionale statistiche, nel 2020 il tasso di disoccupazione tra i giovani tra i 15 e i 34 anni era pari al 34.9% (era precedentemente del 29.7%). E non è un caso che disoccupazione e sottoccupazione interessino proprio le aree al centro di violenze e di instabilità. Per non parlare dello stato di corruzione, anche ad alti livelli, che il presidente Buhari aveva promesso di combattere nella sua prima (2015) e seconda candidatura (2019). Su di lui le accuse di usare un doppio standard quando si tratta di giudicare e perseguire persone vicine o lontane al suo entourage. Deodorante per i primi, insetticida per gli altri. Oggi, la posizione della Nigeria, nel Corruption Perception Index, è 149 su 180, peggiorata rispetto agli anni precedenti. La mazzetta (bribe) è una consuetudine: polizia, agenti del traffico, insegnanti, ufficiali del settore immigrazione, persino negli ospedali. È in questo humus (ognuno di questi fattori gioca la sua parte) che si sviluppa l’emigrazione irregolare, come spiega un lungo e dettagliato rapporto dell’UNDP (Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite). Mancanza di opportunità, pressione sociale, timore per il futuro, sfiducia nei propri governi. Una corsa alla ricerca dell’Eldorado piena di insidie e di imprevisti, ma che a molti sembra comunque una via d’uscita.
Foto anteperima CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons