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Tra le vittime di Netanyahu c’è paradossalmente anche la memoria dell’Olocausto

9 Giugno 2024 8 min lettura

Tra le vittime di Netanyahu c’è paradossalmente anche la memoria dell’Olocausto

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Reductio ad Hitlerum. È questa l’espressione che il filosofo tedesco naturalizzato statunitense Leo Strauss conia, con una punta di sarcasmo, nel suo saggio Natural right and history del 1953. Ricalcandola sul modello della reductio ad unum appartenente alla filosofia scolastica medievale, Strauss definisce questo espediente come l’abilità di vincere una discussione riuscendo a dimostrare che il pensiero dell’interlocutore si avvicina a quello del dittatore nazista: se riesci a dimostrare che il tuo avversario la pensa come Hitler, hai vinto.

Leo Strauss, pensatore di famiglia ebraica sfuggito alle persecuzioni nella Germania nazista, tratteggiando i confini di questo artificio discorsivo ne nota al contempo le opportunità e i rischi: la forza retorica di tale modo di dire dimostra, già negli anni Cinquanta, il radicamento dell’idea che il nazismo incarnato dal suo Führer sia stato uno dei punti più bassi dell’umanità se non, con un’altra espressione di derivazione filosofica, “il Male Assoluto”. Sancendo l'acquisizione culturale di questo concetto, Strauss non manca di porne in luce gli aspetti meno positivi: su tutti la possibile banalizzazione, e progressiva normalizzazione, del discorso su Hitler.

Il nazismo e, in particolare, la sua espressione più evidente e terribile, Auschwitz, sono uno dei punti di svolta del pensiero occidentale dopo la fine della Seconda guerra mondiale. In generale, tra chi riflette sul senso dell’esistenza e sulla filosofia sociale, la messa in produzione del campo di sterminio (Vernichtungslager) segna un punto di non ritorno nella concezione dell’essere umano. Per Theodor Adorno, Auschwitz è lo “sterminio amministrativo e tecnico” e il “culmine dell’inumanità”. Günther Anders pone Auschwitz, accanto a Hiroshima, in una nuova età del mondo in cui l’umanità è “irrevocabilmente in grado di autodistruggersi”.

Hannah Arendt percepisce le camere a gas come una vera e propria frattura all’interno dei millenni di cultura occidentale che fino a quel momento, retoricamente, avevano contrapposto civiltà e barbarie. La barbarie non è altro che un risvolto dialettico della civiltà delle macchine: è il risultato di un Uomo che perde di vista se stesso nella tecnica. Per Arendt Auschwitz è il frutto, non il fallimento, della moderna civiltà: è l’espressione della prassi di una filosofia supportata da un apparato tecnico industriale che ha il solo fine dell’annientamento. A differenza di altri anche numericamente molto più estesi genocidi, la persecuzione degli Staatsfeinde, dei nemici dello Stato nei fascismi europei, non ha altro scopo se non l’annientamento stesso. In questo appare ben presto chiara, nell’elaborazione culturale di quel dramma che fu la violenza nazista in Europa, la necessità di espandere dalla pur enorme contingenza di quella mattanza continentale l’orizzonte dello sterminio dell’essere umano sull’essere umano. 

Filosofi come Karl Jaspers ed Herbert Marcuse, intellettuali come  Thomas Mann e Jean Paul Sartre, e pure quella figura eccezionale (in senso etimologico) di “pensatore dello sterminio da dentro” che è Primo Levi, insistono sulla necessità di allargare il quadro smettendo di pensare la Shoah unicamente come il risultato distruttivo dello scontro tra il razzismo nazista e la popolazione ebraica europea, vedendo quegli eventi per ciò che significano: la negazione del diritto all’esistenza di un’intera categoria umana portata avanti con tutti i mezzi della tecnica moderna e con tutte le forze di una delle più efficienti compagini statali della storia. Auschwitz non è solo un fatto storico, ma è la storicizzazione di un aspetto prima mai esploso in queste dimensioni di quel che significa essere umani nella modernità.

Parafrasando Arendt, è la “universale banalità” del volto di Adolf Eichmann, il contabile della soluzione finale, a inchiodarci: sono quegli occhiali spessi, la fronte ampia, i suoi tic verbali, il tutto così comune, ordinario, a rendere di tutti quello sterminio. Per decenni espressioni come “fabbriche della morte”, “genocidio organizzato” e “burocrazia del genocidio” hanno costituito il sottofondo retorico entro cui discutere di Olocausto sottolineandone le implicazioni e il peso.

Auschwitz è un unicum della storia non solo occidentale nella misura in cui il pensiero occidentale ha portato l’occupazione dello spazio di pensiero globale attraverso l’espansione culturale, militare ed economica. Ovunque si conosca l’Occidente, anche per contrasto, lì si dovrà avere a che fare con Auschwitz.

Su ciò si sono costruite le prime politiche di memoria di respiro realmente globale: il primo novembre 2005 la risoluzione A/Res/60/7 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha designato il 27 gennaio, giorno della liberazione del campo di Auschwitz, come “giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto”, inaugurando una nuova stagione nelle pratiche del ricordo che sul calco di questo approccio hanno poi basato le politiche memoriali nazionali e locali.

Questo modello, evolutosi nel tempo, è stato per molto un baluardo imprescindibile, almeno a livello pubblico, per tracciare i confini di un equilibrato rapporto con il passato. Uno spunto di studio efficace e anche, come già paventava Leo Strauss, una clava potente da maneggiare nei contesti di racconto pubblico. Un’arma potente, da usare con cautela.

Come ricorda tra gli altri lo storico Claudio Vercelli in saggi come il suo Storia del conflitto israelo-palestinese (Laterza), quando si proclamò come Stato, Israele non inserì immediatamente nel proprio pantheon fondativo il trauma della Shoah: nel 1948 la conoscenza dei confini di quella tragedia erano ancora piuttosto vaghi, tanto che molti intellettuali anche di origine ebraica non ne avvertivano del tutto la portata. La proclamazione dello Stato ebraico venne vista per lo più come il naturale coronamento degli sforzi pluridecennali portati avanti dalle varie anime del movimento sionista. Le camere a gas furono per molti l’ultima e più spaventosa conferma della necessità di uno Stato che fosse focolare per gli ebrei di tutto il mondo, ma non un fu visto sul momento come un “risarcimento dovuto”  per le violenze subite. 

Quando la conoscenza dello sterminio si ampliò e il consolidamento di Auschwitz come archetipo della violenza totalitaria divenne una certezza nell’immaginario pubblico, quella stessa storia di violenza si rafforza in Israele come parte imprescindibile della mitopoiesi della realtà ebraica. Oggi chiunque frequenti con assiduità, come chi scrive, l’Auschwitz memorial di Oświęcim, coi campi di concentramento di Auschwitz 1 e Birkenau, sa che questi luoghi sono meta di migliaia di ragazze e ragazzi provenienti da Israele che vivono la visita al campo come una tappa imprescindibile della propria storia nazionale. 

Auschwitz oggi è parte della memoria pubblica dello Stato ebraico oltre che delle memorie pubbliche occidentali. Una realtà innegabile che implica una necessaria, particolare attenzione alle politiche internazionali sul tema e che nel corso del tempo è stata anche causa di frizioni tra gli Stati: ad esempio più volte negli ultimi anni Israele è entrato in aperto conflitto coi governi di destra polacchi in merito alle possibili interpretazioni del coinvolgimento della popolazione della Polonia nello sterminio.

La delicatezza del tema suggerirebbe dunque prudenza, anche in considerazione dell’evoluzione della memoria pubblica di molti Stati – la crescita dell’estrema destra tedesca ne è un sintomo preoccupante - che fino a questo momento sono stati un baluardo dell’universalità di Auschwitz e quindi, in sintesi, della sua efficacia (riguardo al messaggio, alla sua costruzione, alla sua disseminazione).

E invece, in uno dei momenti più drammatici della storia dell’intero Medio Oriente, sembra che gli attacchi all’unicità, e quindi alla forza argomentativa, del paradigma Auschwitz, sono arrivati anche da alcuni esponenti del governo israeliano. Dopo gli attacchi del 7 ottobre di Hamas sono sempre più le voci di parte israeliana che utilizzano come clava retorica il tema Shoah in contesto internazionale: in pochi mesi esponenti di primo piano del governo Netanyahu hanno accusato di antisemitismo il governo sudafricano, la Corte Penale Internazionale, la Corte Internazionale di Giustizia, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (quella che aveva proclamato il 27 gennaio giornata internazionale della memoria) e di dare un ‘premio per il terrorismo’ ad alcuni governi occidentali che si apprestano a riconoscere lo Stato di Palestina

Ovviamente questo abuso terminologico non è né nuovo né a senso unico, tutt’altro: il primo ministro israeliano si è sentito apostrofare come “nuovo Hitler” da personaggi come Erdogan e viene regolarmente ritratto nei cortei contro il suo governo con svastica al braccio e baffetti. A suo tempo perfino Primo Levi diede del fascista all’allora primo ministro israeliano Menachem Begin. 

Però il punto è che dall’abuso, e quindi dalla banalizzazione, del tema Auschwitz, chi ha maggiormente da perdere è proprio Israele.

L’uso spregiudicato dei termini a livello non più solo di piazza, ma di diplomazia internazionale, sta mietendo una vittima illustre sul piano della comunicazione e della memoria pubblica: Auschwitz stessa. 

Il sintomo più significativo di questa messa in crisi del modello è dato dalle discussioni esplose intorno alla Giornata della memoria del 27 gennaio 2024 durante la quale, in Occidente, si è riscontrata un’estrema difficoltà nello scollegare il ricordo di quel passato dalle vicende del presente proprio a causa del continuo spreco retorico di quella memoria da parte di molti. Qualcosa che francamente risulta inaccettabile da qualsiasi parte provenga, ma che stona provenendo proprio da spezzoni di governo israeliano.

Rivendicare il diritto di usare per uno scontro odierno – per quanto drammatico - questi temi e di affibbiare patenti di “sterminatore nazista” a chiunque si opponga alla narrazione ufficiale ha il paradossale effetto di sminuirne l’efficacia e intaccarne il valore di esempio: come temeva già Leo Strauss quindi, l’evocazione continua e spesso a sproposito del male assoluto lo sta trasformando in un “Male contingente”.

Questo scivolamento è quanto di meglio auspicato dalla mai doma falange revisionista che nel corso dei decenni ha cercato di negare, depotenziare e minimizzare in tutti i modi la portata storica (e quindi la conseguente condanna culturale) dello sterminio nazista. Se la Shoah diviene “un fatto”, e non “il fatto” del Novecento europeo, allora si può aprire la pericolosa via della normalizzazione di ciò che come normale non può essere visto, pena la perdita di un pezzo di valori universali su cui è stato fondato il dopoguerra globale. Una perdita che la retorica del “se non mi appoggiate siete nazisti” dell’ala destra del governo Netanyahu sta inconsapevolmente accelerando.

Oggi chi si occupa di memoria pubblica, come il sottoscritto, si trova nella complessa situazione di dover difendere il principio di unicità dello Sterminio da chi dice di esserne l’erede diretto ed esclusivo, tentando un difficile equilibrismo tra storia, memoria e attualità.

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Lasciando fuori dalla cronaca quotidiana il tema di quel ricordo e permettendo che essa rimanga patrimonio e monito universali, le parti in causa oggi permetteranno al paradigma Auschwitz, con tutte le sue difficoltà, di continuare a costituire un baluardo, e un confine semantico, tra ciò che la nostra società può e deve essere: in rapporto alla tecnologia, al progresso e alla necessità di espandere globalmente i valori dell’umanità all’umanità intera. 

L’unicità di quegli eventi deve essere ancora oggi preservata e difesa. Perché se tutto sarà Auschwitz niente sarà Auschwitz; e Auschwitz sarà niente.

Immagine in anteprima: World Economic Forum, CC BY-NC-SA 2.0, via Flickr.com

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