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Se il governo di Bibi Netanyahu avesse accettato l’accordo di fine maggio, almeno diecimila palestinesi sarebbero ancora vivi

16 Gennaio 2025 6 min lettura

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Se il governo di Bibi Netanyahu avesse accettato l’accordo di fine maggio, almeno diecimila palestinesi sarebbero ancora vivi

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La strana notte del cessate il fuoco annunciato dagli schermi tv di tutto il mondo ha – a Gaza - due immagini, diametralmente opposte. I morti e i camion di aiuti umanitari. Sono le immagini, soprattutto i video che, come in tutti questi quindici mesi crudeli, arrivano dall’interno della Striscia, dai giornalisti palestinesi di Gaza, anche dalla popolazione di Gaza, e raggiungono l’enorme pubblico globale attraverso le piattaforme social. 

Le prime immagini, i primi video sono quelli, sorprendenti, di decine di camion di aiuti umanitari che entrano da sud nella Striscia di Gaza, i primi camion dell’intesa che prevede, per così dire a regime, seicento camion al giorno, una goccia nel deserto per oltre due milioni di persone alla fame, affamate da oltre un anno. Le seconde immagini, al contrario, hanno il sapore amaro di un incubo che non si ferma. Mostrano gli obitori, i sudari improvvisati, le vittime di questa notte. Le tende bruciate a Deir el Balah, le zone residenziali bombardate a Gaza City.

Perché i bombardamenti israeliani non si sono mai fermati, neanche quando il primo ministro del Qatar ha annunciato in una conferenza stampa, ieri in serata, il raggiungimento dell’accordo tra Israele e Hamas, mediato in primis da Doha assieme a Egitto e Stati Uniti. E neanche quando Joe Biden, presidente agli sgoccioli, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, si è presentato assieme alla vice Kamala Harris e al segretario di Stato, Antony Blinken, per assumersi la primazia dell’accordo e ricordare, senza un tentennamento, il sostegno incondizionato a Israele. Aveva parlato anche il presidente israeliano Ytzhak Herzog, per provare a mettere il suo peso in gioco e affermare che, secondo lui, l’accordo raggiunto era buono, e avrebbe dovuto essere approvato giovedì mattina dal governo presieduto da Benjamin Netanyahu. Israele, infatti, non ha ancora formalmente detto sì all’accordo, come invece ha fatto Hamas, anche per bocca di colui che già da mesi si profila come il leader dei negoziati e il ponte con Gaza, Khalil al Hayya.  

Decine i palestinesi di Gaza uccisi nella notte in cui, dopo quindici mesi, è stato annunciato un cessate il fuoco all’interno di una intesa complessa in tre fasi, e proprio perché complessa molto fragile. Decine i palestinesi uccisi alla vigilia di un cessate il fuoco che ha un giorno e un tempo preciso in cui inizierà: domenica 19 gennaio alle ore 12,15.  Dal momento dell’annuncio della tregua al suo formale inizio, sono gli stessi palestinesi a prevedere un incubo nell’incubo: l’intensificarsi dei bombardamenti israeliani. “Pregate per noi”, dicono i messaggi sui social, e le prime testimonianze parlano di bombardamenti che ricordano la prima notte dopo il 7 ottobre 2023. 

La carneficina continua, nonostante le celebrazioni spontanee delle prime ore del pomeriggio di mercoledì, quando sono diventate reali le notizie che già da giorni davano per fatto l’accordo. Di nuovo arrivano i video spediti dalla Striscia in soccorso di noi tutti che siamo lontani da Gaza. Canti, slogan, assembramenti, urla di gioia rischiarate solo dalle luci dei telefonini, nella dimensione surreale di Gaza senza elettricità. E perfino gli uomini delle Brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato di Hamas, che si fanno vedere per strada per rivendicare vittoria. Di quale entità, misura, ampiezza è ancora tutto da vedere. 

Nelle prime ore di una tregua annunciata e non ancora cominciata, si conosce già la schema, molto complicato, della prima fase, segnata dal rilascio dei primi ostaggi israeliani da parte di Hamas in cambio di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Si conoscono anche i dettagli sugli ostaggi: i bambini, gli anziani, i malati, le soldate. Non si conoscono quelli sui prigionieri palestinesi, anche se si sa che ne dovrebbero essere liberati circa 2.500 per i 98 ostaggi israeliani ancora sequestrati a Gaza. E poi si sa dell’allontanamento graduale delle aree più densamente popolate da parte dell’esercito israeliano e la fine dei bombardamenti: le famose mappe che Hamas chiedeva tra martedì e mercoledì per poter dare il suo assenso collettivo, dopo il sì delle brigate al Qassam attraverso uno dei suoi comandanti, Mohammed Sinwar, il fratello minore di Yahya Sinwar, nome meno conosciuto nonostante il suo ruolo sia stato centrale nella gestione della madre di tutte le trattative. E cioè il rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit, della sua detenzione per cinque anni nella Striscia di Gaza, e del negoziato che, nel 2011, ha portato al suo rilascio in cambio della liberazione di 1.027 prigionieri palestinesi.

Le questioni tecniche, di cui l’accordo è pieno, sono questioni eminentemente politiche, in questo caso. Fanno comprendere chi potrebbe aver perso e chi potrebbe aver vinto. A perdere, a perdere la vita sono stati anzitutto circa diecimila palestinesi di Gaza, in gran parte donne e bambini, uccisi dopo la fine di maggio. Perché? Perché il 27 maggio 2024 è la data della bozza di accordo su cui si basa questa intesa di tregua. Messa nero su bianco: le parti, dice l’accordo del 15 gennaio 2025, hanno lavorato per raggiungere un “consenso al fine di realizzare l’accordo del 27 maggio 2024”. Lo stesso che Hamas aveva accettato, prima che Israele uccidesse a Teheran il capo del politburo di Hamas, Ismail Haniyeh. Se il governo di Bibi Netanyahu avesse accettato quell’accordo di fine maggio, almeno diecimila palestinesi sarebbero ancora vivi. È, infatti, già chiaro da mesi che Netanyahu non voleva raggiungere un’intesa.  Lo hanno urlato nelle manifestazioni i familiari degli ostaggi, lo hanno scritto a più riprese i giornalisti e opinionisti israeliani. E ora lo ha confermato uno dei ministri che nei due anni di vita del sesto governo Netanyahu ha rappresentato, per il premier, il puntello. Itamar Ben Gvir, destra estrema, ministro della sicurezza nazionale, ha candidamente ricordato, arrabbiato per l’accordo raggiunto, di essere  riuscito a bloccare sempre le possibili intese nei mesi precedenti.

Itamar Ben Gvir ha detto anche un’altra cosa, che ben indica il chi può vincere/chi può perdere nei prossimi giorni e settimane. Ha detto che l’accordo è una sconfitta, per il governo israeliano. E a leggere bene l’accordo, tutto ciò che per Netanyahu era una linea rossa da non superare, o una conquista da cui non si poteva retrocedere, viene messo in discussione nella lettera dell’intesa. Il corridoio Philadelphi a sud, per esempio, assieme a quello che, a Netzarim, spacca la Striscia quasi a metà. Israele se ne dovrebbe andare, e anche consentire ai profughi di tornare alle loro case, in gran parte nel nord di Gaza, dopo che per oltre un anno aveva costretto la popolazione al trasferimento forzato e ad ammassarsi nel sud estremo della Striscia.

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Hamas, indebolita dal punto di vista militare e politico, canta invece vittoria, sostenendo che Israele non è riuscito ad annientare il movimento. Dimenticati, in entrambi i casi, i civili, la popolazione civile e il prezzo altissimo, impressionante, unico pagato in questi quindici mesi in cui l’accusa di genocidio dei palestinesi a opera di Israele si è rafforzata. Quasi 47mila palestinesi uccisi, dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, in cui a morire sono stati 1.140 israeliani. Quasi 47mila è il numero ufficiale dei corpi delle vittime, ma è ormai chiaro – anche per l’ultimo studio pubblicato su The Lancet – che le vittime palestinesi potrebbero essere almeno 70mila, a cui va aggiunto tutto, tutta la catastrofe. Almeno centomila feriti, gli amputati, gli affamati, e una intera popolazione piegata da 15 mesi di indicibili sofferenze inflitte come una punizione collettiva.

Ha vinto, per ora, Donald Trump, l’artefice di una pressione su Bibi Netanyahu che l’amministrazione Biden non aveva mai osato fare in modo così efficace. C’erano le elezioni presidenziali, c’era la decisione di Biden di sostenere Israele, senza se e senza neanche un ma. Trump vuole insediarsi il 20 gennaio con un cessate il fuoco, una parvenza di calma nel quadrante mediorientale. Non solo per questioni di immagine. C’è anche una parte di elettorato che lo ha votato chiedendo la fine della carneficina a Gaza. E una parte degli alleati arabi che su questo ha esercitato ed esercita la sua pressione. 

Immagine in anteprima: frame video BBC via YouTube

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