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L’università pubblica italiana e i mali del neoliberismo che non si vogliono vedere

4 Agosto 2021 12 min lettura

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L’università pubblica italiana e i mali del neoliberismo che non si vogliono vedere

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di Ignazio Ziano - Laureato in Psicologia a Torino, ha un dottorato in Business Economics all’Università di Ghent, Belgio, e dal 2018 è Assistant Professor (~Ricercatore a tempo indeterminato) nel Dipartimento di Marketing alla Grenoble Ecole de Management.

È una bella giornata in fondo al mare, e ci sono due pesci che nuotano insieme. Uno dice all’altro: “Bella l’acqua oggi, eh?”. E l’altro pesce: “Ma che cos’è l’acqua?”. Questa storia è stata adattata da un famoso discorso che David Foster Wallace fece agli studenti del Kenyon College. Si applica perfettamente ad alcuni argomenti che spesso si sentono quando qualche voce isolata si lamenta della situazione dell'università pubblica italiana e ne attribuisce i mali al neoliberismo. L’ultimo esempio, un articolo di Claudio Giunta, professore ordinario di Lettere a Trento, che ha criticato un discorso pronunciato da Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi, tre studentesse della Scuola Normale di Pisa in occasione della consegna dei diplomi, scritto a nome delle diplomate e dei diplomati della Classe di Lettere e Filosofia. Ma Giunta non è il solo a dire che il neoliberismo non esiste proprio, e che anche se esistesse, comunque nell'università italiana non è stato applicato o non è stato applicato abbastanza. Altri, come ad esempio Michele Boldrin, hanno aspramente criticato il discorso delle studentesse. Ecco, secondo me queste persone sono come il pesce della storiella di Foster Wallace: talmente abituate a respirare attraverso l’ideologia in cui nuotano che non se ne accorgono nemmeno. “Che cos'è l’acqua?”.

Nel loro discorso, le studentesse hanno criticato alcune dinamiche interne alla Scuola Normale – la competitività esasperata che produce malessere psicologico, l’indifferenza di alcuni professori alla didattica, e le prospettive incerte per il futuro accademico -  ma le inseriscono nel quadro più ampio delle riforme dell'Università pubblica italiana dell’ultimo decennio o giù di lì. In questi anni, si è assistito a un taglio dell’organico e del finanziamento pubblico degli atenei, che ha colpito selettivamente. In particolare, è diminuito molto il numero di borsisti di dottorato e di ricercatori, soprattutto nel Meridione; la maggior parte delle posizioni di ricercatore è diventata a tempo determinato, senza nemmeno la garanzia di una valutazione a fine contratto per diventare associato a tempo indeterminato (come avviene invece negli USA o in Olanda per posizioni simili); e si sono inseriti dei meccanismi per orientare il finanziamento verso alcuni dipartimenti particolarmente “produttivi” e verso alcuni “poli d’eccellenza”, tra cui ad esempio la Scuola Normale stessa, tramite meccanismi che si vogliono chiamare di “mercato”, o di “merito”. Le studentesse definiscono “neoliberali” queste riforme e ne criticano gli effetti sull'equità della carriera accademica e sul benessere fisico e psicologico di chi la intraprende.

Sono effettivamente neoliberiste queste misure? Giunta dice di no, e che anzi i prof sono troppo protetti, soprattutto gli ordinari, e che i problemi vanno cercati nella divisione troppo rigida delle discipline e dei corsi di laurea. In più, prosegue Giunta, non si capisce bene cosa sia questo neoliberismo, dato che tanta gente lo invoca a sproposito. È vero che molti –  anche alcuni politici – usano questo termine un po’ per tutto. A questo si aggiunge la confusione terminologica per cui in lingua inglese si dice neoliberalism, mentre in Italia evitiamo una sillaba e diciamo neoliberismo per indicare la stessa cosa. Ma basta una conoscenza anche superficiale del termine “neoliberismo”, della sua storia intellettuale e di quello che comporta a livello monetario e sociale per concludere che le riforme dell'università pubblica italiana sono neoliberiste da cima a fondo, e seguono per quanto possibile i dettami di economisti e filosofi che si autodefinirono neoliberisti e lavorarono insieme per porre le basi per un nuovo liberismo in prospettiva anti-socialista e pro-mercato, come i due premi Nobel per l’economia Milton Friedman e Friedrich von Hayek. 

Cominciamo dai tagli. Ormai tutti sanno che l’Italia spende in ricerca e università molto meno – sia pro capite sia in rapporto al PIL – rispetto a paesi che vorremmo emulare, come gli USA o la Francia. Questa situazione era già critica prima del 2010, ed è peggiorata ulteriormente dopo i tagli all'università pubblica che sono seguiti alla cosiddetta riforma Gelmini (L. 240/2010). È neoliberismo questo? Vediamo. I tagli sono stati giustificati come “inevitabili” perché l’Italia doveva raggiungere il pareggio di bilancio dopo che il deficit di bilancio pubblico era esploso in seguito alla crisi del 2008-2009 (vi ricordate quando tra 2010 e 2011 si parlava in continuazione di “spread”? Ecco, quello). L’idea che l’Italia dovesse fare pesantissimi tagli al proprio stato sociale affinché il deficit pubblico fosse ridotto è uno dei cardini della politica monetaria neoliberista, propalata ad esempio da Milton Friedman e anche nota come “monetarismo”. Questa visione della politica monetaria impone che le Banche Centrali (ad esempio la Banca Centrale Europea che Draghi ha diretto per tanti anni) non possono creare moneta in eccesso di una certa quantità, stabilita da economisti “indipendenti” dalla politica, con metodi molto discussi anche tra gli addetti ai lavori. La recente crisi legata alla pandemia del nuovo coronavirus ha sospeso un po’ in tutto il mondo questa visione del ruolo delle Banche Centrali, Europa inclusa. Lo spread non sembra interessi più a nessuno e le Banche centrali stanno creando moneta a tutto spiano. Quasi nessuno dice niente. Una impostazione monetarista, e pertanto neoliberista, della politica monetaria impedirebbe invece alle Banche Centrali di finanziare lo Stato e quindi porta gli Stati a fare pesanti tagli alla spesa pubblica (ad esempio all'università), soprattutto dopo momenti di recessione in cui il deficit dello Stato è salito sopra alcune soglie di allarme (ad esempio quelle stabilite dal Trattato di Maastricht). 

Questo avvenne negli anni 2011-2015 nell’Unione Europea. Se alzi le tasse ai ricchi e alle multinazionali, questi smetteranno di investire e di lavorare, scrivono Friedman e Hayek. E per questo si decise piuttosto di tagliare la spesa pubblica, rinunciando a un gettito potenziale nell’ordine delle centinaia di miliardi di euro che le tasse più alte ai ricchi e alle multinazionali avrebbero portato. Questo fenomeno di riduzione della spesa pubblica è anche detto “austerity”, ma deriva dal fatto che la Banca Centrale, secondo economisti neoliberisti alla Friedman, non può creare più moneta oltre un certo limite, altrimenti scatta l’inflazione. Non esistono dati empirici a sostegno della bontà delle soluzioni di austerity, anzi, recenti studi dimostrano che diminuiscono la crescita economica e che rendono la società più diseguale, gerarchica, con ricchi sempre più ricchi e potenti, e poveri sempre più poveri e inermi. Inoltre, sembra che tagliare le tasse alle aziende non aumenti la crescita economica. Alcuni studi – che avevano sostenuto che avere troppo debito fosse deleterio per la crescita economica – sono stati poi smentiti, perché gli autori (Reinhart e Rogoff di Harvard, non due studiosi alle prime armi) avevano fatto diversi errori in una formula Excel (escludendo alcuni dati cruciali e calcolandone altri con formule sbagliate) che, corretti, ne cambiavano le conclusioni senza più trovare un collegamento significativo tra debito pubblico alto e crescita economica. L’austerità (tagli all’università pubblica inclusi) è stata fallimentare, ha creato povertà e sfruttamento, e rivoluzionato lo scenario politico in mezzo mondo. Non capire che i tagli hanno avuto una precisa impostazione economica, politica e filosofica – neoliberista, appunto – è come, per un pesce, non accorgersi dell’acqua. 

Contestualmente, negli ultimi 30 anni, abbiamo assistito a livello globale a una trasformazione – anch’essa di stampo neoliberista – dell’organizzazione e della governance dell’università che hanno condotto le istituzioni universitarie nelle acque del mercato della conoscenza con grosse implicazioni sulla didattica, sulle pratiche accademiche, sul reperimento dei fondi, sulla destinazione dei finanziamenti, sul reclutamento, sulla valutazione della ricerca e delle carriere, sul modo stesso di intendere la conoscenza, sempre più un bene da piazzare sul mercato (o che può creare dei mercati) che un bene pubblico. 

Accanto ai tagli, le università pubbliche italiane hanno perseguito una politica di precarizzazione selvaggia del personale, che ha colpito con più violenza i soliti noti (ad esempio le donne e le università del Sud Italia). Questa è in parte una conseguenza diretta dei tagli stessi: il personale precario costa meno del personale strutturato. Per molte borse di studio, assegni di post-dottorato o contratti di docenza una tantum non è necessario preoccuparsi di piccolezze come contributi pensionistici o tredicesima, che invece sono dovuti al personale strutturato. Ma avere tanti precari e precarie con contratti poco garantiti, in continua competizione con altri precari e precarie per posti permanenti sempre meno numerosi, è una situazione che non dispiace a tanti intellettuali neoliberisti, perché porta a un aumento della competizione tra lavoratori. Questi intellettuali neoliberisti – un esempio italiano su tutti, Pietro Ichino in questa intervista e quest’altra - sono generalmente ostili a molto di ciò che garantisce il posto di lavoro. L’idea è che se un dipendente è garantito, si siede e smette di produrre, provocando a cascata terribili distorsioni nel mercato del lavoro che rendono tutto il sistema meno efficiente e produttivo. Il fatto che il dato empirico contraddica queste affermazioni (ad esempio, togliere protezioni ai lavoratori non pare aumentare l’occupazione) non scalfisce le loro convinzioni. E quindi, precarizzare è bene ed è bello, e non viene venduto come una scelta politica, ma come una scelta tecnica, neutrale, scientifica. D’altronde, se assumessimo tutti questi precari, costerebbero di più, e allora si dovrebbe alzare il deficit o alzare le tasse ai ricchi. Ma questo  - come ho detto prima - non è gradito in un’ottica neoliberista. O si poteva fare altrimenti, garantendo stipendi dignitosi e posizioni permanenti? Penso che chi legge possa intuire la mia opinione.

Altri aspetti critici individuati dal collettivo della Normale riguardano il finanziamento basato su criteri “meritocratici” – definiti dallo storico Alessandro Barbero “una superstizione”. In sintesi, questo vuol dire che i dipartimenti i cui membri pubblicano di più, su riviste di grande fama, e che vengono citati tanto da altri, ricevono più soldi degli altri (come finanziamento di ricerca e punti organico, che vuol dire che hanno più risorse per fare ricerca e assumere più personale). Si premia il “merito”? Grazie a questo sistema, si può dire di avere introdotto “il mercato”, o almeno averlo scimmiottato, all’interno dell'università pubblica. L’idea che lo Stato possa avere priorità che deviano da quelle di questo “mercato” è considerata molto pericolosa dai neoliberisti. Per alcuni semplicemente conduce a un sistema economico inefficiente che produce povertà e poca crescita; per altri è l’inizio di un inevitabile cammino verso il socialismo reale (ad esempio da Hayek). Il “mercato”, per gli economisti neoliberisti, è e deve essere il giudice ultimo di ogni performance, per quanto possibile. Se non c'è, ce lo inventiamo, e ve lo imponiamo. 

Poco importa che gli indicatori che contano per ricevere risorse (ad esempio l’Impact Factor, con cui si “misura” quanto è importante una rivista scientifica), quando vai a grattare, siano molto dubbi. Per esempio, non sono garanzia di qualità della ricerca più alta e invece di nascere da un processo “naturale”, “di mercato”, sono il risultato di negoziazioni poco trasparenti tra aziende che si occupano di editoria scientifica. Il dato empirico, come abbiamo già detto, in questi casi conta meno dell’ortodossia ideologica. E poco conta anche che si premino condizioni di partenza favorevoli per quei dipartimenti già più famosi e avanzati, tagliando le gambe agli atenei più piccoli e più giovani. Il “mercato” ha deciso. E cos'è questo mercato? Il mercato può essere costituito dagli altri studiosi che accettano, leggono, e citano lavori scientifici come articoli, monografie e libri. Ma all’occorrenza, il mercato sono anche gli studenti e le facoltà a cui scelgono di iscriversi. E quindi, cosa meglio di assumere i prof in base a quanti studenti vogliono studiare una certa materia, come già succede in Italia? E se gli studenti non la vogliono studiare più, chiudiamo le facoltà, come avviene ad esempio nel Regno Unito, dove accanto a un finanziamento pubblico per studente molto più alto dell’Italia, questo meccanismo “di mercato” è stato spinto anche più in là che qui da noi, penalizzando spesso facoltà umanistiche. Questi cambiamenti rendono l'Università un mero produttore di lavoratori, mettendo le priorità politiche della democrazia in secondo piano rispetto alle richieste delle aziende. C’è un’alternativa a questo modello, ma se non riesci a vederla, allora siamo di nuovo a “cos’è l’acqua?”.

Sono piovute altre critiche sul collettivo di normalisti. C'è chi dice che siccome sono giovani studenti, la loro opinione non ha tutto questo valore e che dovremmo invece cercare le idee di altri studiosi. Questa è una critica francamente pietosa che non avrebbe bisogno di commenti, tanto più grave se arriva da un personaggio pubblico e professore ordinario. Si sperava che il ricorso all'età e all'autorità per zittire gli avversari fosse finito da un po’, ma a quanto pare alcuni prof non si fanno di questi problemi, e se qualcuno non è d’accordo con loro, è perché è troppo giovane e non capisce niente. Speriamo che in classe si comportino in un altro modo.

Gli studenti e studentesse normalisti si lamentano perché la pressione e la competizione esagerata nell’ambiente della Normale hanno provocato a molti dei danni psicologici. Per rimediare a questa situazione, chiedono alla Scuola di considerare forme di didattica più collaborative nei seminari. A questo alcuni rispondono che in fondo, questi studenti sono entrati in una istituzione d’eccellenza molto selettiva attraverso un concorso, una competizione, e volontariamente. E quindi non si devono lamentare tanto se la competizione li stressa e provoca loro ansia: la competizione non finisce mai, la vita è una competizione, e quindi abituatevi. Avete voluto la bici? E ora pedalate! Da un lato, ancora una volta sottolinea l’impostazione ideologica neoliberista di chi la muove, per cui tutto è competizione tra lavoratori, e in fondo va bene così, non può che essere così. Non c'è alternativa. Non ci stai? Vuoi più cooperazione? Affari tuoi, cambia mestiere. Dall’altro, minimizza l’esperienza riferita dagli studenti e dimostra di ignorare la letteratura scientifica sulla prevalenza di problemi di salute mentale tra i giovani ricercatori e studenti. Nel caso della Normale, le studentesse citano una indagine interna che ha portato la Scuola ad adottare un servizio di aiuto psicologico permanente. 

Con quale autorità ci si permette di contraddire (e mettere in dubbio) l’esperienza di malessere psicologico degli studenti e le decisioni della Scuola Normale? Chi lo fa, ha valutato l’inchiesta? È psicologo, psicoterapeuta, psichiatra? A me non risulta né l’uno né l’altro. La supponenza con cui si liquidano le osservazioni delle studentesse è la stessa con cui si insinua che le loro opinioni sull’università non siano poi cosi autorevoli perché sono studenti giovani e inesperti della vita. Ma a torto. La Normale non è la sola istituzione di ricerca ad aver fatto i conti con problemi diffusi di salute mentale. Un’inchiesta pubblicata nel 2014 mostra che i problemi di salute mentale – ad esempio, ansia, depressione, stress – sono molto comuni tra i dottorandi fiamminghi (di più che tra i loro coetanei laureati), e dati simili (o ancora peggiori) arrivano da un’inchiesta condotta nel 2018 tra i dottorandi di economia negli Stati Uniti. Tra questi ultimi, l’11% dichiara di avere avuto “ideazioni suicidarie” nelle ultime due settimane. Dubito che gli si andrebbe a dire: “Hai voluto il dottorato? E allora pedala!”, ma è quello che con grande irresponsabilità si sta facendo in questo caso. È vero che l’Italia è indietro rispetto ad altri paesi nelle tematiche di salute mentale, ma questa indifferenza è francamente inaccettabile dal punto di vista umano e contraria a ogni linea guida di associazioni scientifiche psicologiche. 

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E chiudiamo col botto. Siccome le studentesse accusano alcuni docenti di aver ignorato i loro suggerimenti in una direzione di maggior cooperazione, le si accusa di essere loro stesse “neoliberiste” e di accettare la logica secondo cui gli studenti sono consumatori e datori di lavoro dei professori, e quindi i prof devono cambiare i corsi in base al loro feedback. Anche in questo caso, però, la critica è fuori bersaglio. Quando il collettivo studentesco chiede un miglioramento della didattica in un senso cooperativo, sta facendo una richiesta politica, non commerciale, che lo qualifica come collettivo di cittadini - oltre che di studenti - in una democrazia. La partecipazione di studenti e studentesse alla didattica e all'università è parte della nascita dell'università stessa. Prima delle recensioni su Amazon e Tripadvisor, ad esempio, nel Sessantotto italiano o nel Maggio francese, studenti e studentesse chiedevano un aggiornamento dei materiali e delle lezioni più partecipative. Erano neoliberisti anche loro? Credo proprio di no, anzi. Erano cittadine e cittadini che chiedevano che un’istituzione importante, l’università pubblica, diventasse più democratica, meno gerarchica e meno classista. Gli si opponevano professori ordinari reazionari, i quali provenivano in maggioranza da famiglie altolocate e benestanti, e autogestivano l'università spesso ignorando le richieste del corpo docente precario e degli studenti. Non penso che si guardi con nostalgia a un'università corporativa, in cui quello che dice l’ordinario è legge e gli altri eseguono, altrimenti non gli rinnovano il contratto. O forse sì? 

Ci sarebbero tante altre cose da dire sull'università italiana odierna, sull’impostazione ideologica su cui si regge, sull’influenza del neoliberismo e sul dibattito accademico attorno a esso (ad esempio l’attenzione ossessiva di certi intellettuali al “valore legale del titolo di studio”), e sul ruolo e l'utilità delle istituzioni “di eccellenza” come la Normale. Il discorso delle laureate della Normale è stato però una boccata d’aria fresca rispetto alle parole d’ordine che vengono ripetute senza sosta da una ventina d’anni sull’università: merito, eccellenza, selezione. Forse è per questo che in molti, che attorno a queste parole hanno costruito una carriera, si sono sentiti punti nel vivo. O forse è perché le posizioni ideologiche di molti – perché questo sono – sono state smascherate e non possono più nascondersi dietro una finta neutralità tecnica. È decisamente il caso di sostituire queste parole d’ordine con altre parole d’ordine, ad esempio democrazia, salute, eguaglianza. Ma come farlo è un’altra storia, e la racconteremo un’altra volta.

Immagine in anteprima: frame video del discorso pronunciato da Virginia Magnaghi, Valeria Spacciante e Virginia Grossi in occasione della consegna dei diplomi alla Scuola Normale di Pisa

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