Gaza, Hamas e Israele tra negoziati e scontri di potere interni
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Immersi nei nove mesi che hanno già cambiato la storia di Israele/Palestina, è difficile rendersi conto di quanto la cronaca di questi ultimi giorni sia sempre più rapida. È un accavallarsi di inchieste, prese di posizione, richieste di provvedimenti giudiziari, riapertura di giochi diplomatici, colloqui dietro le quinte, e ancora scoop, gole profonde che parlano, e tanto.
Molto è concentrato su quanto è successo e sta succedendo nelle strutture di potere in Israele. In particolare, sulle violazioni dei diritti, sui veri e propri crimini per i quali Israele e dirigenti israeliani rischiano ancor di più di essere condotti di fronte a tribunali internazionali. Sde Telman, il centro di detenzione militare in cui migliaia di palestinesi di Gaza sono e sono stati detenuti, in completa violazione di tutti i più elementari diritti, e in cui si pratica la tortura, è divenuta notizia quando sono aumentate le voci israeliane. Sono voci di dentro che dicono che Sde Telman è oltre Abu Ghraib, è oltre Guantanamo. E se non bastasse Sde Telman, si conferma – grazie a una inchiesta di Haaretz a firma di Yaniv Kubovich – ciò di cui si parla da mesi. Le forze armate israeliane hanno ordinato di applicare la direttiva Hannibal per fermare la possibile presa di ostaggi il 7 ottobre 2023, provocando l’uccisione di israeliani, e non solo dei miliziani palestinesi delle brigate al Qassam (Hamas) e delle brigate al Quds (Jihad Islamico).
Entrambe le questioni, la tortura dentro Sde Telman e l’intero sistema carcerario, e poi la questione della direttiva Hannibal e della ricostruzione di ciò che è successo il 7 ottobre, sono dentro la velocizzazione della Storia. E sono, proprio per questo, dentro la riapertura dei negoziati per il cessate il fuoco, altro capitolo di un estenuante processo.
Dove eravamo rimasti? A uno schema di accordo per il cessate il fuoco tra governo israeliano e Hamas che, formalmente, è rimasto sempre lo stesso su cui negoziare. Lo stesso dalla fine di aprile, dalle prime notizie sui dettagli dell’accordo fatte filtrare da Hamas. E poi, neanche una settimana dopo, con la dichiarazione pubblica di Hamas di accettazione della proposta fatta dai mediatori, Stati Uniti, Egitto e Qatar. Su quel “sì” di Hamas era calato immediatamente il gelo della risposta israeliana: non eravamo nei negoziati, è una proposta che noi non abbiamo mai accettato, era stata la sintesi del premier Benjamin Netanyahu. E da lì, da quel momento, la situazione è ancor più precipitata nell’intera di Striscia di Gaza, con le truppe israeliane dentro Rafah, i bombardamenti sino ai campi degli sfollati, la distruzione del valico di Rafah con l’Egitto e la totale chiusura della Striscia, compreso il blocco degli aiuti umanitari. Non era riuscito a smuovere le acque il discorso del presidente Joe Biden, il 31 maggio, in cui descriveva la “nuova proposta” di Israele come una “road map per un cessate il fuoco durevole e il rilascio di tutti gli ostaggi”. Il risultato, semmai, era stato quello di infragilire Biden, e ancor di più la sua candidatura alle presidenziali.
Sono passati due mesi. Le vittime palestinesi degli attacchi israeliani a Gaza hanno superato abbondantemente i 38mila uccisi, secondo i dati raccolti dal Ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas. Quasi novantamila i feriti, distrutto il sistema sanitario di Gaza, la fame colpisce tutta la popolazione, e in particolare il nord della Striscia. L’assedio per fame è in corso da mesi.
A una situazione che dire insostenibile è un tragico eufemismo, si aggiungono le notizie oltre i confini di Gaza. In Cisgiordania, i raid delle forze armate israeliane nelle città palestinesi sono quotidiani, così come gli attacchi dei coloni alle piccole comunità. Le carceri israeliane sono piene oltre i limiti: vi sono detenuti 21mila palestinesi, un terzo in più oltre la capacità dei penitenziari. E i numeri li ha dati Ronen Bar, il capo dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno.
Il governo israeliano ha cominciato un processo di annessione della Cisgiordania, attraverso atti che vedono protagonista soprattutto Bezalel Smotrich, ministro delle finanze e di fatto governatore della West Bank, vero ideologo dell’estrema destra. È stato, poi, dato il via libera al più imponente esproprio di terra palestinese, sempre in Cisgiordania. Israele è sempre più spaccata, le manifestazioni contro Netanyahu e il suo esecutivo sono sempre più imponenti, la sinistra prova a ricostituirsi e su tutto questo c’è, imponente, il dossier della violazione dei diritti umani, compresa la tortura nel centro di detenzione militare di Sde Teman. Talmente imponente, in particolare quello che è in corso a Sde Teman, che è già intervenuta la corte suprema israeliana e la procuratrice generale ne ha chiesto l’immediata chiusura. Le testimonianze, che da mesi escono non solo da fonte palestinese, ma da fonte israeliana, sono a dir poco raccapriccianti.
È una sintesi necessaria, e di certo non esaustiva, per capire in quale clima si inseriscono le notizie del negoziato sul cessate il fuoco che si riapre. Il primo atto è stata la telefonata a Netanyahu fatta da un Biden sempre più a rischio (ri)candidatura. Il secondo atto: la visita lampo in Qatar, in giornata lo scorso venerdì, del capo del Mossad, David Barnea, poi rientrato subito dopo l’incontro con il primo ministro di Doha per riferire al governo Netanyahu. L’esecutivo israeliano ha dunque deciso di partecipare ai negoziati, questa settimana, ma con un mandato che ha gli stessi limiti di prima, ribaditi ancora una volta da Netanyahu. La sconfitta totale di Hamas, e nessun cessate il fuoco permanente come precondizione delle trattative.
In questo terreno, che sembra lo stesso di prima, si muovono anche i medesimi protagonisti. Quelli che dovrebbero portare a casa il risultato: David Barnea, e il capo della CIA William Burns, a cui tocca il compito di raggiungere un accordo che Netanyahu non vuole, e soprattutto non vuole prima delle elezioni presidenziali statunitensi di novembre. La conferma arriva da quello che, come sempre in questi mesi, viene fatto filtrare – sempre in chiave anonima – da persone informate dei fatti, vicine alle delegazioni: la ripresa dei negoziati dovrebbe, già di per sé, durare non giorni, bensì settimane. E il gioco macabro al rinvio in atto da mesi sembra aver già avuto il suo risultato: per Biden la strada verso le presidenziali è sempre più un percorso a ostacoli, sia nel caso concorresse per le elezioni, sia nel caso ritirasse la candidatura. Non cambiano neanche i paesi mediatori: Egitto, Qatar, e Stati Uniti.
Neanche lo schema su cui lavorare cambia di molto. Lo schema prevede, infatti, una prima fase di sei settimane per il cessate il fuoco e il primo scambio tra ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, e prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Nel frattempo, le parti dovrebbero negoziare le fasi successive, cioè un cessate il fuoco permanente, il ritiro delle truppe israeliane, lo scambio degli altri ostaggi ancora a Gaza, gli ostaggi ancora in vita e le salme che, purtroppo, fanno parte di questi tipo di tragici scambi in Medio Oriente.
Un elemento è cambiato. Hamas non considera pregiudiziale all’accordo l’accettazione preventiva che si arriverà a un cessate il fuoco permanente, ma che di questo si discuterà durante le sei settimane della prima fase. La guerra incide, eccome, sui negoziati. La potenza di fuoco di Hamas sembra, con evidenza, diminuita di molto, nonostante gli scontri in corso in diverse località della Striscia. E le condizioni in cui versano i civili non possono non essere una pressione oggettiva sul Movimento di Resistenza Islamica, che comunque sul terreno ha messo insieme tutte le fazioni armate palestinesi già presenti a Gaza. In questo caso, i protagonisti del negoziato sembrano confermati: Ismail Haniyeh e il responsabile delle relazioni internazionali, Khalil al-Hayya.
Convitato da pietra, ancora una volta, è la politica palestinese nel suo complesso. Da una parte, il grande assente è – attraverso il silenzio di Mahmoud Abbas – il presidente dell’ANP, che non vuole nessun accordo con Hamas, sostenuto in questo dalle figure politiche a lui più vicine, il segretario del comitato esecutivo dell’OLP Hussein al Sheykh e il premier Mohammed Mustafa. Dall’altra, la politica palestinese che non governa, e cioè le fazioni riunite nell’OLP e gli indipendenti, è al centro di colloqui, contatti, incontri già resi pubblici (come quello che si terrà a Pechino, non si ancora quando). In gioco c’è la necessità di un governo di tutti i palestinesi, non tecnocratico e allo stesso tempo senza la presenza formale di Hamas, che però vuole avere voce in capitolo sulla scelta del premier.
Non è solo Gaza la questione aperta, con una ricostruzione che, oggi, sembra solo un esercizio intellettuale. È la riconfigurazione della governance palestinese nello Stato di Palestina. Per tutti i palestinesi, ora, i due Stati possono attendere: è la propria struttura nazionale al centro della discussione. Soprattutto dopo che Netanyahu, il suo governo, e molti esponenti politici israeliani hanno detto, con parole e fatti, che non riconosceranno uno Stato palestinese.
Immagine in anteprima: frame video CBS via YouTube