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Le manovre militari della Cina nello stretto di Taiwan

14 Dicembre 2024 9 min lettura

Le manovre militari della Cina nello stretto di Taiwan

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“Stavolta c'è qualcosa di nuovo”. In un briefing con la stampa, un funzionario della difesa di Taiwan ha lasciato intendere che il processo di messa in discussione dello status quo sullo Stretto non solo continua, ma potrebbe entrare in una nuova fase. Nei giorni scorsi, Taipei ha segnalato a più riprese intense manovre militari della Cina nella regione. Pechino non ha mai annunciato né confermato nulla. Una novità assoluta, considerato che nei precedenti e sempre più frequenti round di esercitazioni militari, le autorità cinesi hanno sempre fornito diversi dettagli. Un modo per segnalare la capacità di esercitare le proprie pretese di sovranità sulle acque intorno a Taiwan, “punendo” le cosiddette “forze indipendentiste” e le “interferenze straniere”.

Ci si chiede allora come mai, se davvero l'Esercito popolare di liberazione ha dispiegato la più ampia flotta navale dai tempi della Terza Crisi sullo Stretto del 1996, questa volta si sia deciso di non comunicare niente. Tanto da far credere a qualcuno che in realtà possa essersi trattato di operazioni di addestramento, più che di veri e propri giochi di guerra. O, forse, di una mossa puramente scenografica di postura per tracciare una linea rossa nelle acque più strategiche al mondo: segnale a uso e consumo degli Stati Uniti e in particolare della prossima seconda amministrazione Trump.

Ma che cosa si sa esattamente su queste manovre? Lunedì 9 dicembre le forze armate di Taipei hanno comunicato di aver elevato il livello di allerta, nonché di aver attivato un centro di risposta alle emergenze in seguito a movimenti “anomali” da parte cinese. In particolare, sarebbero state istituite sette zone di interdizione aerea tra il 9 e l'11 dicembre, dispiegate su un vasto territorio che va dal largo della costa della provincia del Guangdong fino alla metropoli Shanghai, passando per le province del Fujian e dello Zhejiang. Ciò ha fatto subito venire in mente quanto accaduto ad agosto 2022, quando in risposta alla visita a Taipei di Nancy Pelosi, allora presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, Pechino predispose sette aree militari tutto intorno a Taiwan. In alcune di esse fu imposta l'interdizione aerea, con coordinate precise. Fu il preludio a esercitazioni a fuoco vivo e il lancio di 11 missili Dongfeng, cinque dei quali sorvolarono a grande altezza l'isola. Questa volta, però, le zone di interdizione erano assai più vicine alle coste della Cina continentale, quasi come a schermarle e proteggerle. Non sono state segnalate esercitazioni a fuoco vivo, né si è registrato un qualsivoglia impatto sui voli civili, a differenza di agosto 2022. 

Fonti della sicurezza di Taipei hanno fatto trapelare alla Reuters che nelle manovre sarebbero state impiegate almeno 90 navi, di cui circa due terzi della marina militare e il restante terzo della guardia costiera. Si tratta di un numero più che doppio rispetto ai precedenti round di esercitazioni intorno a Taiwan, anche più di agosto 2022. A essere coinvolto non solo lo Stretto, ma anche zone del Mar Cinese orientale e del Mar Cinese meridionale, dove Pechino è coinvolta in dispute territoriali irrisolte con Giappone e Filippine. 

Questo elemento rappresenta di per sé una novità perché mostra la capacità di coordinamento tra almeno tre diversi comandi dell'Esercito popolare di liberazione: non solo quello del teatro orientale, che ha in carico il dossier taiwanese, ma anche quelli dei teatri meridionale e settentrionale. Pressoché immediato il collegamento alle indiscrezioni apparse qualche settimana fa sull'agenzia di stampa giapponese Kyodo, secondo cui gli Stati Uniti starebbero elaborando nuovi piani militari di emergenza, col possibile dispiegamento di truppe e di missili tra le isole meridionali del Giappone e quelle settentrionali delle Filippine. Manovre così ampie delle forze armate cinesi potrebbero avere dunque lo scopo di segnalare la futilità dei piani di Washington, manifestando la capacità da parte di Pechino di presidiare un'area talmente ampia da rendere lo Stretto di Taiwan una sorta di “mare interno”. Il tenente generale Hsieh Jih-sheng, alto funzionario dell'intelligence militare di Taipei, ha dichiarato in conferenza stampa che la conseguenza simbolica delle operazioni è quella di creare due “pareti” a est di Taiwan, in grado di assumere idealmente il controllo dell'unica via di fuga dell'isola (le cui coste nord occidentali si affacciano sullo Stretto e dunque verso la Cina continentale) e impedire l'accesso di entità esterne. Sempre secondo fonti taiwanesi, gli aerei cinesi avrebbero simulato attacchi a navi straniere e si sarebbero esercitati ad allontanare aerei militari e civili come parte di un “test di blocco”.

Da Pechino non è arrivato però alcun annuncio. Tanto che, tra mercoledì e giovedì, le autorità taiwanesi hanno parzialmente rettificato. Lo stesso Hsieh ha spiegato che non si è trattato di classici giochi di guerra. Le manovre sono nello stato di “addestramento regolare”, ha dichiarato il funzionario, sottolineando però come fosse poco usuale mobilitare forze militari su una scala così ampia ed effettuare esercitazioni in un'area così vasta. Nel mattino di venerdì 13 dicembre, la guardia costiera taiwanese ha confermato che le navi cinesi sono rientrate nei porti del continente, ritenendo dunque “concluse” le massicce operazioni dei giorni precedenti.

Rompendo il silenzio, il ministero della Difesa di Pechino, ha affermato che la Cina è “l'unica a decidere” sull'organizzazione di eventuali esercitazioni militari. “Se o quando le organizzeremo sarà in base alle nostre esigenze”, ha dichiarato Wu Qian. Da sottolineare anche il silenzio mantenuto dagli Stati Uniti. Un funzionario militare statunitense ha commentato in forma anonima le manovre, definendo i dispiegamenti navali cinesi “elevati ma in linea con altre grandi esercitazioni del passato”. Una valutazione apparentemente in contrasto con quella iniziale (sempre non ufficiale) da parte di Taipei sulle 90 navi nella regione.

Resta, dunque, molto quello che non si sa su quanto accaduto negli scorsi giorni. È una novità che a Taipei lascia qualche inquietudine. Dalla visita di Pelosi in avanti, Pechino ha organizzato quattro round di ampie esercitazioni militari. Dopo i dieci giorni di manovre di agosto 2022, si è passati ai tre giorni di aprile 2023, in risposta al doppio transito negli Stati Uniti dell'allora presidente taiwanese Tsai Ing-wen. In quell'occasione, Tsai incontrò anche Kevin McCarthy, successore di Pelosi. La Cina rispose impiegando per la prima volta una portaerei al largo della costa orientale di Taiwan, ma con manovre meno imponenti rispetto a quelle di otto mesi prima. Dopo un periodo di calma apparente, l'Esercito popolare di liberazione è tornato assai attivo nel corso del 2024. A maggio, subito dopo l'insediamento del neo presidente taiwanese Lai Ching-te, ha lanciato le esercitazioni Spada Congiunta 2024A, durate due giorni. A ottobre, dopo il primo discorso di Lai in occasione della festa nazionale della Repubblica di Cina (nome ufficiale con cui Taipei è de facto autonoma), è stata la volta delle esercitazioni Spada Congiunta 2024B, durate solo 12 ore. 

Stavolta, si dava per scontato il lancio delle esercitazioni Spada Congiunta 2024C. Questo perché Lai – che Pechino ritiene un “secessionista” ben più radicale rispetto alla compagna di partito Tsai – è stato protagonista del suo primo transito sul territorio statunitense da quando ha vinto le elezioni dello scorso gennaio. Dopo mesi di trattative, Lai ha effettuato il suo primo viaggio all'estero tra il 30 novembre e il 6 dicembre. Destinazione i tre paesi del Pacifico meridionale rimasti a mantenere rapporti diplomatici ufficiali con Taipei: isole Marshall, Tuvalu e Palau. Come da tradizione, durante questi viaggi i leader taiwanesi fanno dei cosiddetti “transiti” in territorio statunitense. La prassi prevede passaggi dal “continente” (New York e California) in caso di visite agli alleati dell'America latina, oppure da Hawaii e Guam in caso di visite nel Pacifico meridionale. 

Secondo quanto risulta a Valigia Blu, da Washington è stato suggerito a Lai di optare per la seconda ipotesi. In una fase di transizione politica come quella in corsa, gli USA hanno preferito evitare incontri di alto livello, che sarebbero stati più probabile sul “continente”. Alle Hawaii e a Guam, Lai ha avuto un'agenda pubblica del tutto in linea con le precedenti visite di Tsai, nel 2017 e nel 2019. In quelle occasioni, la Cina non era andata oltre il manifestare il suo disappunto, senza arrivare a manovre militari. Ma oggi è tutto diverso. La visita di Pelosi è stata uno spartiacque che ha generato una sfiducia totale tra i tre attori - Pechino, Taipei e Washington -, deteriorando uno status quo in fase di complicata ridefinizione. La Cina sta testando con sempre maggiore frequenza le linee rosse militari di Taiwan, riducendone lo spazio di manovra. Gli Stati Uniti stanno testando con maggiore frequenza le linee rosse diplomatiche di Pechino, con visite di alto livello e invii di armi che si sono aggiunti alle vendite. Con Lai, Taiwan ha a sua volta adottato una linea meno ambigua sulla sovranità e il suo status. Risultato: tutte e tre le parti stanno portando chiarezza a un'ambiguità strategica che aveva a lungo garantito stabilità. A rafforzare la convinzione di una reazione militare da parte di Pechino, il fatto che durante il suo passaggio da Hawaii e Guam Lai abbia avuto conversazioni telefoniche con diversi politici americani, tra cui Pelosi e soprattutto Mike Johnson, l'attuale presidente della Camera. 

La Cina ha solitamente tutto l'interessa a comunicare anche enfaticamente gli obiettivi delle sue esercitazioni, spesso in realtà annunciando più di quanto non faccia effettivamente sul campo. La ragione non è tanto quella di spaventare i taiwanesi, che in realtà hanno mostrato col tempo che più Pechino mostra i muscoli e più se ne allontanano, quanto segnalare all'opinione pubblica continentale che si stanno facendo passi avanti sulla causa della “riunificazione”. L'assenza di comunicazioni dopo il viaggio di Lai lascia Taipei a interrogarsi sulle ragioni della mancata reazione, quantomeno esplicita. 

“Lai è il primo presidente taiwanese a non recarsi sul continente americano nei primi sette mesi del suo mandato”, sottolinea a Valigia Blu Kuo Yu-jen, direttore esecutivo dell'Institute for National Policy Research, principale think tank indipendente di Taipei. “Pechino si è presumibilmente tenuta uno spazio di manovra per reagire con nuove esercitazioni quando Lai effettivamente transiterà sulla costa orientale o occidentale degli Stati Uniti", aggiunge. 

Quanto avvenuto nei giorni scorsi sembra allora più simile a un esercizio di postura, con la Cina presumibilmente interessata a mandare un segnale implicito, ma strategicamente chiaro, alla futura amministrazione Trump. Come a dire: se volete trattare su qualcosa, possiamo farlo ma non su Taiwan. Il prossimo presidente statunitense è d'altronde stato sempre piuttosto ambiguo sul dossier taiwanese. Durante la transizione del 2016, accettò la telefonata di congratulazioni di Tsai, primo e fin qui unico contatto ufficiale tra due presidenti di Stati Uniti e Taiwan dalla rottura dei rapporti diplomatici nel 1979. Ma, a differenza di Joe Biden, Trump non si è mai impegnato nella difesa di Taiwan, che ha anzi attaccato durante la recente campagna elettorale sul fronte delle spese militari e dell'industria dei microchip.

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Ci sono altri due elementi da tenere in considerazione, uno psicologico e uno operativo. Il primo: la successione di azione e reazione degli scorsi anni ha creato una sorta di abitudinarietà. A ogni visita o incontro di alto livello, a ogni discorso o ricorrenza rilevante, Pechino ha sempre risposto con una certa commisurazione. Quasi a creare una sorta di dialogo perverso, in assenza di un colloquio politico ufficiale tra le due sponde dello Stretto, inesistente dal 2016 e dall'ascesa al potere del Partito progressista democratico (DPP), che non riconosce il famigerato consenso del 1992 e ritiene Taiwan e la Cina continentale due entità separate e non interdipendenti l'una dall'altra. A uno sguardo superficiale, non rispondere ufficialmente al viaggio di Lai potrebbe sembrare un abbassamento della tensione, ma interrompe invece quel dialogo perverso e aggiunge dunque delle incognite. E qui si viene all'elemento strategico: accentuare l'ambiguità tra addestramento ed esercitazioni potrebbe a sua volta accentuare quello tra esercitazioni e azione militare vera e propria. Facendo dunque sì che per Taipei possa diventare più complicato accorgersene in tempo. Di più. Lasciando la comunicazione, recentemente molto più densa di dettagli, a Taiwan si potrebbe puntare ad abbassarne la credibilità. Come la famosa favola dell'urlare “al lupo, al lupo” troppe volte, causando un abbassamento dell'attenzione di chi dovrebbe aiutare. 

Quanto accaduto (o non accaduto), quanto detto (o non detto) negli scorsi giorni, rafforza il senso di incertezza sul futuro di Taiwan. Un tempo si credeva che la migliore soluzione all'enigma taiwanese fosse quella di non avere una soluzione. Ma le domande irrisolte stanno rischiando di diventare troppe, per evitare di avere risposte.

Immagine in anteprima: frame video Reuters

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