La narrazione sul lavoro da rovesciare e un futuro al di fuori del ciclo produci-consuma-crepa
7 min letturadi Giulia Blasi
Domenica scorsa, 30 maggio, il Cammino degli Invisibili ha fatto tappa a Roma per parlare, ancora una volta, di lavoro, precariato, inclusione sociale, sfruttamento. È il tema e il motore alla base dell’associazione Invisibili in Movimento, ideata e promossa da Aboubakar Soumahoro (fra le altre cose, leader della Lega Braccianti), il cui obiettivo non è assicurare lavoro ma interrogarsi sulla natura stessa del lavoro, su quello che tendiamo a dare per scontato quando parliamo di lavoro, e su come (cito direttamente dal sito dell’associazione), “Ci siamo abituati ad accettare che le discriminazioni, le sofferenze, la violenza, la precarietà, il disagio, la rassegnazione siano elementi imprescindibili della nostra vita.”
Se da un lato è ancora presto per capire quali forme e azioni prenderà Invisibili in Movimento, dall’altro questi incontri tracciano un quadro sempre più chiaro del problema occupazionale, e altrettanto chiaro dell’impossibilità di risolverlo con i mezzi, i metodi e la mentalità corrente. L’Italia, dice la Costituzione, è una repubblica democratica fondata sul lavoro: ma il lavoro del 1946 non era il lavoro del 2021, e fra quel lavoro e questo lavoro ci sono allo stesso tempo differenze insanabili e tratti in comune che ci trasciniamo dietro, appunto, dandoli per scontati. La stessa idea che il lavoro debba essere il fondamento di un paese è tanto poetica quanto fragile, perché chi un lavoro non ce l’ha – per qualsiasi motivo – è automaticamente tagliato fuori dalla vita pubblica, in quanto non in grado di dare il suo contributo alla spinta fondativa del paese. Il lavoro, inteso come attività che produce reddito al di fuori delle mura domestiche (è lavoro anche quello di cura, in gran parte a carico delle donne: ma tendiamo a darlo per scontato) è assunto come valore positivo in assoluto. Chi lavora contribuisce al benessere collettivo. Chi non lavora, no.
Articolo 4: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.” Il lavoro è un dovere sociale. Nessun cittadino (o cittadina, dando per scontato che il maschile universale del linguaggio usato qui includesse anche le donne) può sottrarsi a questo dovere. Il lavoro del 1946 definisce e identifica, forma la base della coscienza di classe, è mezzo di promozione sociale e di partecipazione alla vita della Repubblica. Il mestiere, la professione, l’occupazione diventano parte fondante dell’identità privata e pubblica: siamo quello che facciamo, quello per cui veniamo pagati e che ci dà da vivere. Siamo avvocati, operai, ingegneri, agricoltori, pizzaioli, impiegati, musicisti. E siamo anche quello che non facciamo: disoccupati, oppure NEET, l’acronimo con cui chiamiamo i giovani che hanno rinunciato a formarsi e a lavorare. Così è sempre stato.
In almeno un modo, il lavoro del 2021 è uguale a quello del 1946: è svolto per lo più per conto di qualcun altro. Un padrone, si diceva un tempo, che ti paga per la tua prestazione e si intasca gli utili derivanti dalla cessione del prodotto o servizio che hai realizzato. Questo vale per l’operaio che avvita bulloni alla catena di montaggio della Fiat come per chi scrive articoli per testate che pagano una manciata di euro a pezzo, per il bracciante e per la traduttrice. Adesso parlare di “padroni” è passato di moda, la Contessa di Pietrangeli sembra che non esista più, e ogni rider diventa imprenditore di se stesso. La gig economy, come la chiamiamo (forse perché l’inglese ci aiuta a sentire meno la puzza di sfruttamento), viene raccontata dagli organi di stampa conservatori come una grandissima occasione di “lavoro flessibile”, addirittura “meritocratico”, sbandierando storie di rider che guadagnano fino a “3.000 euro al mese”. Giovani intraprendenti! Che hanno voglia di lavorare! Mica come quelli che non vogliono fare la stagione al mare, e i ristoratori poi chiudono perché non trovano manodopera, o addirittura vogliono sapere quanto si guadagna, signora mia. La storia del giovane che guadagna bene perché si ammazza in giro per la città in bici senza assicurazione, ferie, malattia è complementare a quella del giovane che non vuole faticare e dice no all’assunzione nel ristorante o nella panetteria, o peggio, va al colloquio con la pretesa di sapere a quanto ammonta la retribuzione. Nella narrazione, la voce del padrone è l’unica che conta, la sua versione l’unica rilevante. Le successive verifiche su retribuzione, inquadramento contrattuale e tutele, se vengono fatte, occupano molto meno spazio della lamentela.
Le disuguaglianze non sono una falla del sistema. Le disuguaglianze sono il sistema. Il capitalismo e il liberismo, che abbiamo assunto come unica via possibile alla realizzazione individuale e unica forma di società sostenibile, sono interamente basati sulla disuguaglianza, sulla possibilità di pagare le persone sempre meno e sempre peggio e sulla catena di sfruttamento generata da questo dumping salariale, più o meno volontario. Il lavoratore della cultura pagato in spicci comprerà frutta e verdura a basso costo, raccolte da braccianti pagati ancora meno. La junior che cerca di campare a Milano con mille euro al mese si vestirà con abiti cuciti da donne del Bangladesh, perché costano poco: e buona fortuna a verificare che i brand di fascia più alta non facciano altrettanto. Ogni tanto arriva qualcuno che predica la scelta etica, che a volte è percorribile, a volte no, e rimane una decisione individuale presa all’interno di un sistema che rimane immutato. La gente che votiamo è quasi sempre gente che promette di mettere pezze qua e là, di alleviare un poco la pressione su questa o quella categoria, lasciandone scoperta una o più altre. Chi si occupa degli imprenditori si dimentica dei lavoratori. Chi si occupa dei lavoratori non viene più votato neanche da quelli.
La narrazione sul lavoro è sempre a senso unico: lavoro come dovere, lavoro come necessità, e sempre più spesso lavoro come prova del carattere e dell’entusiasmo del lavoratore, che, come nella celebre scena di Tutta la vita davanti di Paolo Virzì, deve affacciarsi alla sua giornata con il sorriso sulle labbra e la voglia di dare il massimo per il suo team. Quanti colloqui abbiamo fatto, con capi che volevano sapere “Perché vuoi lavorare con noi?” E ogni volta inventarsi una risposta che non fosse “Mi piace mangiare tre volte al giorno”: perché so lavorare in squadra! Perché sono ambiziosa e ho degli obiettivi nella vita! Perché sento di poter dare moltissimo a questa azienda! Lo sanno loro e lo sappiamo anche noi, che è una farsa: che il lavoro ci serve, anche quando non ci piace, perché senza non possiamo provvedere a noi stessi e alle persone che dipendono da noi. Il lavoro dà direzione e struttura alle nostre giornate, scandisce gli orari del sonno e della veglia, inghiotte la maggior parte delle ore. Se va bene, e siamo fortunati, quelle ore saranno occupate da attività che in qualche modo ci rispecchiano, o comunque ci permettono di esprimerci, di non sentirci solo degli ingranaggi in un meccanismo che ci può sostituire da un momento all’altro. Quando va male, sono ore impegnate in compiti che possono essere portati a termine solo spegnendo tutti i recettori della creatività, spesso alle dipendenze di gente priva delle più elementari capacità di relazione o anche solo delle competenze di base necessarie a fare bene il proprio lavoro. Perché quella che chiamano pomposamente “meritocrazia” è solo e soltanto una cosa: la spartizione del potere e del prestigio fra chi parte avvantaggiato, a prescindere dalle abilità personali, raccontata come “se vuoi puoi” e “quelli bravi ce la fanno”. Insomma, se a trenta o quarant’anni ti ritrovi a fare il rider, appeso a un’applicazione per sapere se questo mese riuscirai a mettere insieme il pranzo con la cena, è colpa tua, che non ti impegni. Sei tu ad aver fallito.
Il lavoro è un dovere, ma che fine fa e che valore assume questo dovere nel momento in cui la Repubblica che te lo impone viene meno al suo dovere, speculare, di garantirti non solo l’accesso al lavoro ma anche, come minimo, una paga dignitosa e la sicurezza di non dover fare turni massacranti per portare a casa il minimo indispensabile per la sopravvivenza? Che posto occupa il lavoro nella nostra scala valoriale, quando non è più l’elemento fondante della nostra identità, quando siamo costretti dalle circostanze a definirci in un altro modo, al di fuori di quello che facciamo per vivere? Quando quell’assenza ci porta a domandarci: ma io chi sono, e cosa voglio? Perché sto al mondo? Gli editoriali indignati indirizzati alla Generazione Z, colpevole di occuparsi troppo di diritti civili, salute mentale o di quelle che vengono chiamate con disprezzo “politiche identitarie”, non tengono mai conto del gigantesco buco di indeterminatezza lasciato dalla rottura del nastro trasportatore che ha traghettato le generazioni precedenti dalla scuola all’impiego senza soste intermedie, con qualche sicurezza in più ma senza il tempo di interrogarsi o di domandarsi se fosse così che volevano campare da lì alla terza età. I boomer che sputano sui giovani sono gli stessi che a ogni tornata elettorale si rifugiano nelle loro certezze, nel bisogno di sapere che niente è cambiato, che i ricchi rimangono ricchi e i poveri rimangono poveri, e guai a toccare qualcosa, a suggerire anche solo vagamente che se i ricchi sono ricchi non è perché se lo sono meritato, ma perché hanno usufruito di un vantaggio, che fossero i soldi ereditati dalle famiglie, la possibilità di studiare, la residenza in un luogo ricco di connessioni sociali, essere nati del genere giusto, o tutte queste cose insieme. Chi pretende di dare priorità ai diritti sociali su quelli civili non ha ben chiaro quanto siano connessi, e forse non ricorda che nella Costituzione i diritti civili stanno all’articolo 3.
Potremmo cambiare, certo, ma prima di tutto dobbiamo capire se vogliamo farlo. Se riusciamo a vedere un futuro al di fuori del ciclo produci-consuma-crepa, un mondo in cui il lavoro sia quello che fai e non quello che sei, che non ci chieda di essere disponibili 24/7 e ci rispetti come esseri umani, piuttosto che considerarci sempre e solo manodopera e giudicarci con severità se osiamo mettere noi stessi e i nostri affetti e interessi al primo posto. Dobbiamo domandarci a cosa siamo disposti a rinunciare per costruire una comunità migliore, un modello di società più sostenibile in cui nessuno debba spaccarsi la schiena dodici ore al giorno per fare ricco qualcun altro, e la felicità – intesa come piena realizzazione emotiva, intellettuale e sociale dell’individuo - non sia un concetto astratto, ma una possibilità concreta.
Foto anteprima Charlie Chaplin - Modern Times