“All’Occidente manca una strategia per i diritti umani”: le voci di Narges Mohammadi, premio Nobel iraniana in carcere, e del marito giornalista, Taghi Rahmani
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I governi occidentali “non dovrebbero posporre la democrazia e i diritti umani, adottando strategie incentrate sulla continuazione del dominio della Repubblica islamica”. Parole di Narges Mohammadi, tratte dal discorso da lei indirizzato, dal carcere di Evin, al Comitato per il Premio Nobel per la Pace che le ha tributato il riconoscimento. “Le politiche e le strategie dei governi occidentali sono state inefficaci nel dare veramente potere al popolo iraniano”, aggiunge. “Ci si aspetta che la società civile globale fornisca un sostegno più tangibile agli sforzi del popolo iraniano per la transizione democratica e la lotta non violenta per la pace, la democrazia e i diritti umani, senza ulteriori ritardi”.
Andrebbe riletto integralmente quel discorso di Narges Mohammadi, pronunciato a Oslo dai suoi figli, per comprendere in tutta la sua portata il movimento Donna Vita Libertà, che va ben oltre la rivendicazione dei diritti delle donne, per trainare le più diverse istanze provenienti dalla società iraniana. Ma qui ci vogliamo interrogare proprio sul tema di cosa dovrebbero concretamente fare le società civili e i governi occidentali per sostenere il movimento che lotta per una vera democrazia in Iran.
Sono infatti questi alcuni degli interrogativi che abbiamo posto, proprio in occasione della cerimonia a Oslo, a Taghi Rahmani: il quale, prima che marito di Narges Mohammadi e padre dei loro figli, è lui stesso giornalista e attivista politico, condannato tra il 1981 e il 2005 a circa 5mila giorni di carcere. Da anni vive a Parigi con i gemelli Ali e Kiana, ora diciassettenni, e da qui fa da tramite per i messaggi dal carcere della moglie. Anche se ognuno di questi messaggi verrà pagato a caro prezzo, perché aprono nuovi procedimenti destinati ad aggiungersi alle precedenti condanne per un totale di 31 anni di carcere.
Narges - ci risponde Rahmani, grazie alla collaborazione di un giornalista iraniano - ne dovrà scontare ancora dieci: “una pena crudele” per la sua attività, “ma noi insistiamo affinché riceva almeno assistenza medica”. Più importante però del suo rilascio, aggiunge, “è lottare per la libertà della società civile, perché altrimenti, “come dice sempre Narges”, se la liberano “la arresteranno di nuovo”. Dunque, “dovrebbe essere lanciata una campagna per il rilascio di Narges e di altri prigionieri politici, e ci aspettiamo che le istituzioni internazionali e le organizzazioni per i diritti umani si muovano per questo”.
Cos’altro dovrebbero fare l’Europa e l’Occidente? “I diritti umani dovrebbero essere una strategia nei negoziati – risponde - ma credo che europei e occidentali non abbiano una strategia nei confronti della Repubblica islamica e perfino del Medio Oriente, e che le loro politiche siano contraddittorie”.
Come noto, l’accordo più importante tra Iran e l’Occidente fu quello del 2015 per la riduzione del suo programma nucleare, dal quale gli Usa si ritirarono unilateralmente nel 2018, vanificando così ogni possibile ritorno economico per Teheran e inducendo i vertici della Repubblica Islamica a una nuova e pericolosa accelerazione dell’arricchimento dell’uranio. Per Rahmani tuttavia il punto non sta nell’accordo in sé, ma nell’assenza dei diritti umani dal tavolo negoziale.
Una questione che, precisiamo noi, allora venne esclusa dai 5+1 (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania, con l’attivo ruolo diplomatico dell’Unione Europea) proprio per facilitare il già difficile accordo sul nucleare: intesa che avrebbe dovuto garantire non solo una maggiore sicurezza in Medio Oriente ma anche, con la sospensione di quelle specifiche sanzioni, una serie di importanti accordi di cooperazione economica, in particolare con l’Europa. E così si fece - per la stessa urgenza di chiudere almeno uno dei tanti tavoli aperti ma anche per favorire un clima di distensione nel quale poter aprire in future altre trattative - per altri due possibili temi di negoziato: l’arsenale missilistico di Teheran e le milizie filo-iraniane impiegate per la sua strategia di difesa avanzata tra Siria, Libano, Gaza, Iraq e Yemen.
Secondo Rahmani, l’intera vicenda va ricondotta agli interessi dei paesi occidentali, e anche il ritiro deciso dall’allora presidente USA, Donald Trump – sottolinea - nulla aveva a che fare con i diritti umani. Tuttavia, aggiunge, anche gli interessi dell’Occidente “a lungo termine impongono che la questione dei diritti umani venga considerata a monte delle relazioni economiche. Se intendono avere queste relazioni con l’Iran, i governi occidentali devono agire in modo che alcuni prigionieri politici siano liberati e che la società civile non subisca più pressioni”.
Quanto alle sanzioni, imposte (e re-imposte) in gran numero alla Repubblica Islamica dalla presidenza Trump e mai rimosse dal suo successore, a suo avviso non hanno avuto alcuna efficacia. L’ha spiegato alla Commissione Esteri della Camera – ha aggiunto a proposito della sua visita di metà novembre a Roma, quando ha incontrato anche la Commissione Diritti Umani del Senato: “L’Occidente ha bisogno di un’alleanza strategica, non si può avere comodità e democrazia in un angolo del mondo e iniziare una guerra in un altro per quelle stesse comodità e per la democrazia: quella guerra infatti influenzerà anche voi”. “Il problema è che l’Europa e l’Occidente – afferma - non hanno una strategia specifica per i diritti umani, ma politiche diverse e variabili, dove questi diritti non sono affatto il fattore principale nel dialogo con i governi. Anche per l’Italia è così, e questo finirà per avere ripercussioni sulla società italiana come sulla sicurezza dell’Europa”.
Sostenere gli oppositori interni invece di contrapporsi al governo
“Il mio consiglio – prosegue Rahmani - è che i governi europei abbiano un atteggiamento positivo verso gli oppositori iraniani, aiutandoli ad acquisire potere, invece di un atteggiamento negativo verso il governo iraniano”. Insomma, traduciamo noi, serve un maggiore sostegno alla società civile che lotta per il cambiamento, invece di una semplice contrapposizione con la Repubblica Islamica. E questo perché, considerato che le sanzioni non hanno avuto alcun impatto e che nessuno presumibilmente vorrebbe un’altra guerra in Medio Oriente, “l’evento finale” del processo di cambiamento deve avvenire all’interno dell’Iran.
Proprio dall’interno, infatti, giungono – evidenzia – le voci più autentiche: quelle di “studenti, insegnanti, attori del cinema, attivisti sindacali e personaggi politici in carcere o agli arresti domiciliari, detenute delle carceri femminili” – quelle stesse fra le quali, sottolineava in uno dei suoi più recenti messaggi Narges Mohammadi, cresce la determinazione per porre fine alla Repubblica Islamica. E “la transizione”, sottolinea più volte Rahmani, deve partire “dall’interno del paese”.
Ma perchè tale transizione avvenga, prosegue, serve una strategia che veda la Repubblica Islamica sfidata da tre grandi questioni insieme: “L’apartheid di genere” e la parità tra uomini e donne; le rivendicazioni delle organizzazioni dei lavoratori e della società civile; il dissenso presente tra le diverse componenti religiose, etniche e culturali dell’Iran. Un paese dove, ricordiamo, la popolazione di etnia persiana rappresenta solo la metà del totale, e alla pur maggioritaria religione sciita si affianca una consistente minoranza sunnita, oltre a quelle cristiana, ebraica, zoroastriana, tutte minoranze ufficialmente riconosciute. Viene invece duramente perseguitata quella dei Bahai, la stessa per la quale Narges Mohammadi ha cominciato, proprio nel giorno della consegna del Nobel, un nuovo sciopero della fame.
Parlando della necessità di un fronte unico tra tre diversi tipi di rivendicazioni, Rahmani chiama in causa le diverse questioni aperte che il movimento Donna Vita Libertà ha saputo trainare - con quella sua vocazione universalistica che ha fatto delle donne una sorta di avanguardia per la rivendicazioni dei diritti di amplissimi strati della popolazione - nei mesi delle proteste di piazza. Proteste seguite, a partire da febbraio, da una relativa calma, anche se da una parte è continuata la repressione contro donne, attivisti e giornalisti, dall’altra alcune rivendicazioni si sono trasformate in atti di disobbedienza civile, come la perseveranza di molte donne nell’uscire a capo scoperto e, ultima in ordine di tempo, di ballare in pubblico a dispetto di un sempre ondivago divieto.
Alla lotta per pari diritti (sul piano giuridico e sociale) per le donne si sono così collegate quelle del movimento sindacale, che ha una lunga storia anche nella Repubblica Islamica, e delle minoranze etnico-religiose – prime fra tutte i curdi e i baluchi, i più attivi nelle proteste di piazza e i più colpiti dalla repressione –, esasperate da condizioni di decennale, se non secolare, marginalità economica, politica, sociale e culturale. Quello che servirebbe ora per rafforzare l’opposizione alla Repubblica Islamica, secondo Rahmani, è dunque aggregare con il dialogo queste tre diverse componenti e organizzarle in un fronte unico in grado di porre fine alla Repubblica Islamica, già fortemente indebolita sul piano interno nella sua legittimità.
L'occasione persa della diaspora: “Si coordini con l’opposizione interna”
Nel frattempo in questi mesi sono emersi problemi anche in quella parte della comunità iraniana all’estero che si è mobilitata per sostenere Donna Vita Libertà, organizzando grandi manifestazioni e tenendo alta l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica internazionali. Nella diaspora sono emerse alcune figure di riferimento come Hamed Esmailion, già portavoce dal Canada dei familiari delle 176 vittime dell’aereo civile ucraino abbattuto per errore dalla contraerea iraniana nel gennaio 2020; Masih Alinejad, giornalista e attivista per i diritti delle donne, molto attiva sui social media e basata a New York; Reza Pahlavi, il figlio dell’ultimo scià che all’epoca della rivoluzione si trovava negli USA, da dove non è più tornato in patria. Tra queste figure vi è stato il tentativo di costruire una piattaforma politica comune, infine lanciata nel marzo scorso ma naufragata subito dopo. Ricordiamo che il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana guidato da Maryam Rajavi, erede del controverso gruppo dei Mojahedin del Popolo che prese parte alla rivoluzione del 1979, ha sostenuto anch’esso Donna Vita Libertà, ma mantenendo l’usuale distanza dal resto della diaspora militante.
Secondo Rahmani, non vi è ancora un coordinamento efficace tra gli attivisti interni e quelli esterni. Inoltre, a suo avviso, questi ultimi devono porre fine alla “frammentazione” e cercare un “allineamento strategico basato sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani”, con “la scelta di un linguaggio appropriato per il dialogo e l’interazione”. Le forze esterne al paese - sottolinea - prima di farsi portavoce di una parte della società iraniana, devono acquisirne la fiducia”. Senza voler disconoscere gli sforzi compiuti, premette, “non si può agire dall’estero senza essere confermati dalle figure di riferimento interne, né svolgere un ruolo di leadership solo attraverso i social network o le interviste alla stampa”. Piuttosto, “gli attivisti all’estero devono coordinarsi con la base interna”.
La ragione è semplice. “Gli attivisti in Iran parlano conoscendo le reali potenzialità delle forze interne” e possono dunque realisticamente definire tattiche e strategie, obiettivi, slogan e rivendicazioni. E se è vero che a partire dalle proteste del 2019 - nate da problemi economici e duramente represse nel sangue -, si chiedeva “una transizione” dalla Repubblica Islamica, osserva ancora Rahmani, un indebolimento interno del sistema di potere non porta necessariamente a un cambiamento, per il quale serve anche una strategia dei suoi oppositori. Invece di pensare alla leadership “senza averne i mezzi”, rimarca, gli attivisti della diaspora “avrebbero dovuto impiegare le possibilità dei paesi stranieri per un percorso di sostegno e crescita della società civile iraniana, e non solo in contrapposizione alla Repubblica islamica”: una contrapposizione che del resto, osserva, non aveva obiettivi chiari e per la quale i Paesi occidentali non erano pronti. “Il potenziale che abbiamo visto l’anno scorso nelle manifestazioni in Europa e in America – conclude - non è stato speso bene” ai fini di un sostegno del movimento civile in Iran.
Rahmani si mostra, inoltre, scettico non tanto sui contenuti quanto sull’efficacia di alcune parole d’ordine lanciate dalla diaspora. Ad esempio, la richiesta dell’inserimento delle Guardie della rivoluzione (IRGC) nella lista europea delle organizzazioni terroristiche (per la quale si è pronunciato l’Europarlamento, ma senza seguiti da parte della Commissione, ndr). È vero che le IRGC sono una forza repressiva interna, osserva Rahmani, e che controllano l’economia iraniana, ma continuerebbe a essere così anche se fossero inserite in quella lista. Quanto la richiesta di chiudere le ambasciate iraniane nelle capitali occidentali, a suo avviso, è prematura in questa fase. Ma il “problema più grande di alcune manifestazioni all’estero – conclude - è stato l’arrivo di una corrente con intenti egemonici che ha scoraggiato i manifestanti”, disperdendone le forze. E soprattutto, ribadisce, “rafforzare la società civile iraniana è cosa diversa dal limitarsi a lanciare slogan contro il governo iraniano”.
Hamas non è un agente di Teheran. La soluzione dei due Stati toglierà ragioni anche all’Iran per reprimere gli oppositori
Scontata infine la scelta dell’astensionismo alle prossime elezioni in Iran: “una farsa” in un “governo quasi totalitario” che ormai, dice, guarda al modello politico di Putin in Russia e della Cina.
Quanto alla guerra di Israele a Gaza,“Hamas è sì sostenuta dal governo iraniano, ma non è un agente della Repubblica islamica – precisa Rahmani -. Hamas è un movimento sunnita affiliato ai Fratelli Musulmani ed è fortemente sostenuto e finanziato dal Qatar”, che ospita proprio a Doha la sua leadership politica. “Tutti i governi della regione sono seduti al tavolo insanguinato della Palestina e nessuno di loro ha una strategia per la Palestina. Quella della Repubblica Islamica è l’asse della resistenza, il cui caposaldo principale non è Hamas ma Hezbollah. Il quale non ha fatto estendere la guerra – aggiunge – per una sorta di accordo politico non dichiarato tra Teheran e Washington – perché “quando è necessario le due capitali stabiliscono una relazione, e nel frattempo fanno restare imprigionato la società iraniana”.
“Ma la questione più importante è l'uccisione della popolazione di Gaza, il governo israeliano deve rispettare le risoluzioni ONU”, conclude. Per Rahmani l’unica soluzione è quella dei due Stati: “Ciò farà avanzare la nostra regione verso la pace e verranno meno le scuse di governi come la Repubblica Islamica per sopprimere i loro oppositori”.
* Con la collaborazione di Mostafa Khosravi
Immagine in anteprima: Frame video AP via YouTube