‘Io sto con Napolitano’, ‘Io sto con i magistrati’. Ma di che stiamo parlando?
11 min letturaAggiornamento del 5/12/2012: la Corte Costituzionale ha accolto il ricorso del Capo dello Stato. Fermo restando che occorre attendere le motivazioni per una analisi approfondita, la decisione della Consulta si può riassumere nei seguenti punti:
1) le intercettazioni indirette del Capo dello Stato sono inutilizzabili;
2) la Procura di Palermo non avrebbe dovuto valutare le conversazioni del Capo dello Stato;
3) la Procura di Palermo avrebbe dovuto chiedere la distruzione delle conversazioni al Giudice per le indagini preliminari.
Il primo punto era sostenuto anche dalla Procura di Palermo, ma la Consulta indica che le intercettazioni sono inutilizzabili a prescindere da qualsiasi valutazione. Infatti la Consulta dà torto alla Procura che valutò le intercettazioni nel momento in cui le ritenne irrilevanti per il procedimento penale. Infine la Corte sostiene che la Procura era tenuta a chiedere la distruzione delle intercettazioni al Giudice per le indagini preliminari, con modalità tali da garantire la segretezza delle conversazioni. In realtà anche la Procura sostiene che la distruzione delle intercettazioni deve essere ordinata dal Gip, ma la Consulta aggiunge che la Procura era obbligata alla richiesta e che comunque la conversazioni non devono essere poste a conoscenza delle parti del procedimento penale (gli indagati), quindi in sostanza di quelle conversazioni nessuno deve saperne nulla.
La Corte Costituzionale ha basato la decisione sull'art. 271 c.p.p., comma 3, così accogliendo la tesi dell'Avv. Pellegrino (vedi punto 5 nell'articolo).
Qui potete leggere i due commenti alla decisione della Corte, pubblicati da La Repubblica di oggi 6/12/2012, completamente opposti di Franco Cordero e Gianluigi Pellegrino
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I fatti. Domande e risposte
a cura di Andrea Zitelli
Il ricorso alla Consulta sollevato da Giorgio Napolitano nasce in un preciso contesto. Il 13 giugno scorso la Procura di Palermo chiude le indagini sulla trattativa Stato-Mafia. Boss di Cosa Nostra, uomini del Ros e politici, gli indagati. Tutti tranne uno sono accusati di violenza o minaccia ad un Corpo politico dello Stato (art. 338 del codice penale). A Nicola Mancino, infatti, ex ministro dell'Interno, i PM contestano di aver mentito, durante l'audizione al processo Mori – Obinu, su fatti successi tra il 1992-1993 - periodo in cui Mancino era Ministro dell'Interno -.
Il 15 giugno la Repubblica rivela che da parte di Mancino, il giorno dopo l'audizione incriminata, ci sono state “pressioni sul Quirinale”. Dalle intercettazioni predisposte dalla procura di Palermo è emerso che l'ex vice presidente del Csm avrebbe contattato Loris D'Ambrosio, consigliere giuridico di Giorgio Napolitano, per chiedere un intervento del Presidente della Repubblica in suo aiuto. Cinque giorni dopo Panorama pubblica la notizia secondo cui tra le intercettazioni vi sono anche le conversazioni telefoniche avvenute tra Mancino e lo stesso Napolitano.
Nino Di Matteo, uno dei Pm dell'inchiesta sulla trattativa, pochi giorni dopo conferma l'esistenza di quelle telefonate, specificando però che non sono presenti negli atti depositati perché “non sono minimamente rilevanti” ai fini processuali. “Noi applicheremo la legge in vigore" spiega. "Quelle che dovranno essere distrutte con l'instaurazione davanti al gip saranno distrutte (...)”. Volontà confermata dallo stesso procuratore capo Messineo in una nota pubblicata sempre da la Repubblica il successivo 10 luglio “Alla distruzione si procede esclusivamente previa valutazione della irrilevanza e con la autorizzazione del gip, sentite le parti”.
Ed è proprio per via di questa posizione della procura di Palermo che Giorgio Napolitano avanza ricorso alla Consulta: una volta portate avanti al gip e sentite le parti in causa – accusa e difesa - quelle conversazioni tra il Capo dello Stato e Nicola Mancino possono diventare pubbliche. Prassi giuridiche ritenute da Napolitano lesive “delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica”, in quanto, come poi viene spiegato e argomentato nel ricorso presentato dall'avvocatura dello Stato il 16 luglio scorso, “a norma dell'articolo 90 della Costituzione e dell'articolo 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219 - salvi i casi di alto tradimento o attentato alla Costituzione e secondo il regime previsto dalle norme che disciplinano il procedimento di accusa - le intercettazioni di conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, ancorché indirette od occasionali, sono invece da considerarsi assolutamente vietate e non possono quindi essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione”.
1) Perché Mancino viene intercettato?
Salvo Palazzolo, in un articolo su la Repubblica, riporta le motivazioni che il Gip Ricciardi ha fornito per concedere di intercettare due uomini politici che furono ministri tra il '92 e il 1993 - periodo in cui viene circoscritta la trattativa -, Giovanni Conso e, appunto, Nicola Mancino: “È verosimile che possono entrare in contratto tra loro in vista degli interrogatori prefissati. (…) È verosimile che gli esponenti politici possano anche entrare in contatto con altri soggetti che rivestono cariche di rivelante importanza all'interno del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria per riferire elementi utili alla indagine sulla trattativa di cui non si è ancora a conoscenza se non per concordare tra loro versioni di comodo”.
2) Mancino essendo un non indagato poteva essere intercettato?
Quando partirono le intercettazioni sulle utenze di Nicola Mancino, regolarmente autorizzate dal giudice per le indagini preliminari, Mancino non era ancora indagato, perciò alcuni hanno erroneamente asserito che egli non potesse essere intercettato.
L'intercettabilità di un soggetto non (ancora) sottoposto a indagini evidentemente può risultare di difficile comprensione per chi non ha dimestichezza col diritto. L'art. 267 c.p.p. prevede che il Pm, per ottenere l'autorizzazione a intercettare una persona, debba allegare la sussistenza di “gravi indizi di reato”, elemento che è sicuramente diverso dai “gravi indizi di colpevolezza” richiesti, ad esempio, per l'applicazione di misure cautelari. La differente terminologia chiarisce che nel caso delle intercettazioni i gravi indizi devono riguardare l'oggetto dell'indagine, e non l'intercettato. Molto spesso, infatti, le intercettazioni sono disposte in procedimenti contro ignoti (nei quali quindi non esistono ancora indagati), per scoprire elementi che possano indirizzare le indagini. Un esempio classico è il procedimento per sequestro di persona, quando si intercettano i parenti del sequestrato in attesa di un contatto dei rapitori.
3) Come mai è stato intercettato anche Napolitano?
A essere sotto controllo era il telefono di Mancino. Per questo motivo quando ha contattato il Presidente Napolitano, la voce del Capo dello Stato è stata registrata accidentalmente. Ecco perché l'intercettazione in questione si definisce “indiretta”.
4) Il ricorso alla Consulta del Presidente della Repubblica condiziona in qualche modo l'esito dell'inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia? Ci sono state pressioni da parte di Giorgio Napolitano o da altre personalità istituzionali nei confronti dei magistrati di Palermo?
Il procuratore capo Francesco Messineo, il 17 luglio ha chiarito che “l'iniziativa del Quirinale non collide minimamente con l'indagine (...)”.
Antonio Ingroia, altro magistrato della procura di Palermo, invece, in varie occasioni pubbliche precisa, sia a giugno che a luglio, che “la Procura di Palermo si è sempre mossa senza condizionamenti o pressioni di sorta. (…) Non è arrivato nessun intervento, né dalla Cassazione né da altri.” Insomma, per il noto PM siciliano “il nostro ufficio non ha subito nessuna interferenza”.
5) La nostra Costituzione ammette l'intercettazione diretta o indiretta del Presidente della Repubblica?
Questa domanda merita una risposta un po' più complessa, considerando anche il dibattito che si è scatenato. Rimandiamo perciò alla seconda parte dell'articolo.
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II PARTE
Il dibattito giuridico
a cura di Bruno Saetta
Nel corso del procedimento giudiziario relativo alla “trattativa Stato-mafia”, i Pm della Procura di Palermo hanno sottoposto a intercettazione (debitamente autorizzata) alcune utenze telefoniche dell'ex Ministro Nicola Mancino. Si sono così occasionalmente registrate alcune conversazioni tra Mancino e un collaboratore dell'attuale Presidente Napolitano, nonché discorsi con quest'ultimo. Soggetti questi ultimi verso i quali non era diretto il decreto autorizzativo delle intercettazioni, per cui sono da ritenersi indubitabilmente intercettazioni indirette.
Dalla vicenda sono scaturite innumerevoli valutazioni giuridiche, ma anche politiche, creando una polarizzazione tra costituzionalisti, giuristi e commentatori, a difesa delle prerogative del Capo dello Stato, oppure a difesa dei Pm siciliani. In merito alla questione il Presidente della Repubblica ha sollevato conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale, con decreto del 16/7/2012.
Qui di seguito riporto le posizioni, per una migliore comprensione del problema.
1) Immunità-inviolabilità
PRO
L'articolo 90 della Costituzione prevede una generale immunità del Capo dello Stato. Non è perciò assoggettabile a procedimento penale nel corso del suo mandato, tranne che per alto tradimento e attentato alla Costituzione, al fine di proteggere le sue funzioni da ingerenze di altri poteri, in primis la magistratura. Questa immunità comprende una generale inconoscibilità del conversazioni Presidente, le quali vanno perciò distrutte senza che un giudice le valuti o si pronunci su di esse.
CONTRO
Il Presidente della Repubblica è protetto solo da specifici privilegi in relazione ai reati commessi nell'esercizio delle proprie funzioni, espressamente elencate nella carta costituzionale.
L'art. 90 Cost. si applica ai casi di alto tradimento e attentato alla Costituzione, ma non ai reati extrafunzionali, per i quali il Capo dello Stato è soggetto alla giurisdizione ordinaria. Non si può a maggior ragione applicare l'art. 90 ai casi in cui il Presidente non è indagato, come quello in questione (Zagrebelski). Il Capo dello Stato è sorretto da una irresponsabilità politica non penale, nel senso che nessuno può chiedere conto dei suoi atti funzionali. Al di fuori degli atti funzionali il Capo dello Stato risponde come un cittadino comune, come prevede appunto l'art. 10 della legge 219/1989 (Carlassarre).
A riguardo si è già espressa la Corte Costituzionale con la sentenza 154 del 26/5/04 (Pres. Zagrebelski; Redattore Onida). La Corte ha respinto la tesi per cui anche gli atti extrafunzionali del Presidente della Repubblica dovrebbero ritenersi coperti da irresponsabilità. Nell'occasione ha chiarito inoltre che spetta al giudice procedente (e non al Capo dello Stato) accertare se le dichiarazioni (nel caso specifico si trattava di diffamazione) del Presidente della Repubblica costituiscano esercizio delle sue funzioni oppure no, e quindi se siano o meno coperte dalla tutela di cui all'art. 90 Cost. (Li Gotti-Carlassarre).
La tesi che, come per i parlamentari, vede una generale immunità del Capo dello Stato, non tiene conto che i pprimi esercitano il potere legislativo, mentre il secondo ha una funzione di guardiano e custode della Costituzione. I suoi atti richiedono la controfirma del Presidente del Consiglio (art. 89 Cost.). Gli atti del Capo dello Stato sono sostanzialmente decisi dal Governo, e ne risponde appunto quest'ultimo, tranne che per i due casi indicati nell'art. 90 Cost.
Nei lavori preparatori della Costituzione (Tinti), il Presidente della Repubblica è definito “un cittadino fra i cittadini, anche se ricopre il più alto ufficio politico”. Si scarta la soluzione di porlo “come il sovrano del vecchio statuto, al di sopra delle leggi penali, il che sarebbe stato in contrasto con i principi democratici della Costituzione” nonché quella di “considerarlo esente da pene, sia durante il mandato sia dopo” (Bettiol).
Quando nel 1989 il Parlamento ha emanato il regolamento sui procedimenti d’accusa del Capo dello Stato, il relatore Labriola precisò che “il Capo dello Stato, a differenza di quanto proclamava lo Statuto, non è né sacro né inviolabile. La nostra è una Repubblica i cui organi rispondono sempre delle loro azioni”. L'immunità, infatti, è una deroga rarissima all'articolo 3 della Costituzione, che sancisce l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
2) Riservatezza
PRO
Come corollario dell'inviolabilità del Capo dello Stato e della sua irresponsabilità, va rafforzata la riservatezza delle sue conversazioni. Quindi al Presidente va applicato severamente l'art. 15 Cost., che tratta questo aspetto.
CONTRO
La riservatezza del Presidente della Repubblica non è mai stata violata, visto che le sue conversazioni sono tenute segrete e mai divulgate. Non esiste alcuna norma che vieti di intercettare il Capo dello Stato. Esistono solo norme che impediscono di metterlo sotto processo per reati commessi nell'esercizio delle sue funzioni, tranne i casi previsti dall'art. 90 Cost. Napolitano non è nemmeno indagato nel procedimento siciliano; le conversazioni con Mancino sono private, e non rientrano nell'esercizio delle funzioni presidenziali. Infine il Presidente avrebbe potuto essere intercettato anche direttamente, se sospettato di reati extra funzionali (Cordero).
3) Intercettazioni
PRO
La legge 219/1989 prevede la procedura per porre in stato d'accusa il Presidente, quindi per i reati previsti dall'art. 90 della Costituzione (alto tradimento e attentato alla Costituzione). Non si applica ad altri reati, né ai casi in cui il Capo dello Stato non è indagato. Inoltre si riferisce ai soli casi di intercettazioni dirette.
Per distinguere tra intercettazioni dirette e indirette (Corte Costituzionale sent. 149/2007; 390/2007) va vista la “direzione dell'atto di indagine”. Ai sensi dell'art. 68 della Costituzione i parlamentari hanno una tutela che mira proteggerli da interferenze nell'ambito del loro mandato rappresentativo. Ciò non si riscontra nel caso di “intercettazioni casuali” (cioè quelle indirette), ossia non mirate ad “accedere alla sfera delle comunicazioni del parlamentare”.
I Pm di Palermo hanno detto più volte di ritenere le conversazioni del Presidente irrilevanti ai fini del procedimento giudiziario. Sono quindi favorevoli alla loro distruzione, ma secondo la procedura prevista dal codice di procedura penale,. C'è bisogno (art. 269) di un'udienza filtro nella quale, sentite la parti, il giudice per le indagini preliminari valuta se le conversazioni siano rilevanti o meno. Se le dichiara irrilevanti, si procede alla loro distruzione. Una distruzione senza valutazione nel contraddittorio delle parti è lesiva dei diritti delle parti medesime, compreso l'indagato/imputato: in quelle conversazioni potrebbero esserci degli elementi considerati utili dalla difesa, che avrebbe perciò interesse a utilizzarli.
CONTRO
L'immunità prevista dalla Costituzione trova sua applicazione attraverso, tra l'altro, l'art. 7 della legge 219/1989, che regolamenta la procedura in tema di reati ministeriali e reati previsti dall'art. 90 Cost. In base a questa norma il Presidente della Repubblica (salvo i casi di alto tradimento o attentato alla Costituzione), è intercettabile anche indirettamente (o occasionalmente) solo dopo l'autorizzazione del Parlamento e la sospensione dalla carica decisa dalla Corte Costituzionale (Ainis-Ceccanti-De Siervo-Onida). Questo è infatti il regime previsto dalle norme che disciplinano il procedimento di accusa nei confronti del Capo dello Stato.
Essendo vietate le intercettazioni nei confronti del Presidente al di fuori di questa procedura, i Pm di Palermo avrebbero dovuto distruggerle senza attendere la valutazione del giudice per le indagini preliminari nell'udienza filtro.
4) Reati ministeriali (art. 96 Cost.)
PRO
Questo argomento non è presente nel decreto che solleva il conflitto di attribuzione. Essendo Mancino un Ministro all'epoca dei fatti oggetto del procedimento giudiziario sulla "trattativa Stato-mafia", occorreva procedere ai sensi dell'articolo 96 della Costituzione. L'articolo prevede che i ministri, “anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale”, cioè trasmettendo gli atti alle Camere per ottenere l'autorizzazione a procedere (Barbera-Ceccanti-Onida).
CONTRO
Mancino non è indagato per fatti commessi quando era Ministro. È invece indagato perché, anche tramite le intercettazioni, si è scoperto che, quando ha deposto in merito alla "trattativa Stato-mafia", ha sostenuto cose diverse da quanto a sua conoscenza. Quindi il reato contestato non riguarda la partecipazione alla trattativa, bensì le false dichiarazioni rese ai magistrati, da privato cittadino.
5) Intercettazioni inutilizzabili
PRO
Esistono particolari categorie di soggetti le cui comunicazioni sono severamente protette, per cui se intercettati le conversazioni vanno distrutte, come previsto dall'art. 271 c.p.p. (Pellegrino).
CONTRO
L'art. 271 c.p.p. si riferisce solo alle categorie indicate nell'art. 200, che disciplina il segreto professionale (come per gli avvocati che conversano con i loro clienti). Non è compreso il Presidente della Repubblica. In ogni caso, la distruzione avviene sempre a seguito di una valutazione del giudice per le indagini preliminari.
6) Vuoto normativo
PRO
Manca una normativa specifica che regoli le intercettazioni delle conversazioni del Capo dello Stato. C'è dunque un vuoto normativo da colmare con il ricorso alla Corte Costituzionale e all'interpretazione dei princìpi.
CONTRO
Siamo di fronte a un consapevole silenzio dei Padri Costituenti. Da ciò risulta la volontà di applicare al Capo dello Stato, per tutto ciò che non è regolato diversamente, le regole comuni stabilite per i normali cittadini (Cordero-Zagrebelski). Infatti i Costituenti si sono espressi sull'autorizzazione a procedere per i membri del Parlamento (art. 68 Cost.).
Le leggi sono come una rete a maglie larghe che si cala sulla società, e non un ordinamento fisso che regola il comportamento umano in ogni suo aspetto. Il vuoto normativo, o lacuna tecnica, non è quindi semplicemente il presupposto per la ricerca interpretativa di una norma da “recuperare” dai principi generali dell'ordinamento, ad opera di un soggetto diverso dal legislatore: è la differenza tra la norma (o l'assenza di essa) e un ordinamento ritenuto migliore o più giusto, laddove il più giusto di uno corrisponde talvolta al meno giusto di un altro. Da cui l'obbligo di applicare la regola esistente, non quella che presumibilmente avrebbe potuto emanare il legislatore (Kelsen).