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Myanmar: la strage dei Rohingya, 80000 bambini senza cibo e il silenzio del Nobel Aung San Suu Kyi

22 Settembre 2017 12 min lettura

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Myanmar: la strage dei Rohingya, 80000 bambini senza cibo e il silenzio del Nobel Aung San Suu Kyi

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Strage dei Rohingya in Myanmar, San Suu Kyi all'Aja difende l'esercito: «Non si può escludere che i militari abbiano usato una forza sproporzionata. Ma genocidio non è unica ipotesi»

Aggiornamento 11 dicembre 2019: Non è possibile parlare di genocidio, ma non si può escludere «che ci sia stata una risposta sproporzionata da parte dei membri dell’esercito e che ci siano state in alcuni casi violazioni del diritto internazionale umanitario».

Aung San Suu Kyi, premio nobel per la pace e Consigliera di Stato del Myanmar, è intervenuta oggi di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU a L’Aia per difendere l’azione del suo governo contro la minoranza musulmana dei Rohingya nello Stato del Rakhine, a ovest del paese, vicino al Bangladesh, nel 2017. 

La Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha iniziato le udienze per valutare se avviare un processo contro il governo del Myanmar per la persecuzione dei Rohingya dopo un’azione legale presentata dal Gambia (uno Stato africano a maggioranza musulmana che difende i Rohingya a nome dell'Organizzazione della cooperazione islamica) basata su testimonianze di esperti in materia di diritti umani e su quanto accertato da una missione delle Nazioni Unite nel paese.

Il Gambia denuncia la Birmania di aver tradito la Convenzione sul genocidio adottata nel 1948 e chiede un’ingiunzione temporanea che obblighi il Myanmar a proteggere i Rohingya ancora all’interno del paese. Le accuse si basano su inchieste dell'Onu che hanno raccolto oltre 600 testimonianze nei campi profughi del Bangladesh e secondo le quali il genocidio è ancora in corso. Oltre 700mila Rohingya sono stati costretti a fuggire nel Bangladesh e 10mila sono stati massacrati dall'esercito birmano.

Nel corso del suo intervento Aung San Suu Kyi ha sostenuto che l’intento genocida non può essere l’unica ipotesi in campo e ha definito le accuse di genocidio contro il governo birmano come «un quadro incompleto e fuorviante della situazione nel Rakhine». Non si può parlare di genocidio perché l’esercito sarebbe intervenuto in risposta agli attacchi compiuti dai ribelli Rohingya: «Abbiamo a che fare con un conflitto armato interno, iniziato da attacchi coordinati dall’esercito per la salvezza dei Rohingya nel Rakhine (ARSA), a cui le forze di difesa del Myanmar hanno risposto». Aung San Suu Kyi ha aggiunto – come detto – che non si può escludere che la risposta dell’esercito è stata sproporzionata e, in alcuni casi, abbia violato il diritto umanitario internazionale, ma ha accusato, al tempo stesso, gli «attori internazionali di essere impazienti» perché non stanno aspettando che si concludano le indagini condotte dal governo, dando «l'impressione che solo i paesi ricchi di risorse possano condurre indagini e azioni penali nazionali adeguate». Il premio nobel per la pace ha omesso di dire, però, che il suo governo ha impedito l’accesso agli inviati delle Nazioni Unite del nord Rakhine, l'epicentro della violenza, scrive il New York Times.

Non è la prima volta che Aung San Suu Kyi difende l’azione dell’esercito nei confronti dei Rohingya. Già due anni fa il premio nobel per la pace non aveva criticato le forze militari per le violenze compiute nello stato del Rakhine, sottolineandone invece l'impegno nel prendere tutte le misure necessarie per non colpire i civili innocenti e per evitare danni collaterali.

A maggio i due giornalisti della Reuters, Wa Lone e Kyaw Soe Oo, incarcerati dopo essere stati condannati per aver violato il "Official Secrets Act", sono rilasciati dopo aver trascorso più di 500 giorni in prigione grazie a un’amnistia del presidente Win Myint che ha permesso la scarcerazione di oltre 6mila persone in occasione delle  celebrazioni del Nuovo Anno, iniziato il 17 aprile. I due giornalisti erano stati incarcerati mentre indagavano sulla pulizia etnica della minoranza musulmana dei Rohingya. La loro inchiesta giornalistica era stata premiata con il premio Pulitzer.

L'allarme per le conseguenze di quanto sta accadendo nelle ultime settimane nello stato di Rakhine, nel Myanmar occidentale, al confine con il Bangladesh, era stato già lanciato, per l'ennesima volta, lo scorso luglio, dal Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite che, in un rapporto, aveva denunciato la grave condizione di malnutrizione in cui si trovavano più di 80mila bambini al di sotto dei cinque anni.

via VOA

Il dossier dell'agenzia, elaborato sulla base di dati raccolti nei villaggi abitati dalla minoranza Rohingya, di fede musulmana, documentava la fuga di 75mila persone scappate dalla violenza dell'esercito di Myanmar.

Chi aveva scelto di rimanere, per lo più donne e bambini, soffriva la fame, non avendo possibilità di mangiare, a volte, anche per più di 24 ore.

Una bimba nel campo profughi di Kyaukpyu nello stato di Rakhine – Reuters/Soe Zeya Tun

"Si stima che, nei prossimi 12 mesi, 80500 bambini sotto i cinque anni necessiteranno di cure a causa di una grave malnutrizione", dichiarava il rapporto che confermava un peggioramento della situazione della sicurezza alimentare in aree già vulnerabili a seguito degli incidenti e della violenza scaturita nell'ottobre del 2016, quando attacchi di militanti Rohingya alla polizia di frontiera, che avevano causato nove morti, avevano provocato pesanti ritorsioni dell'esercito mediante incursioni aeree.

In quell'occasione, a causa della risposta armata brutale del governo di Myanmar, più di una dozzina di eminenti personalità fortemente critiche nei confronti della leader di fatto del paese, Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, scrissero una lettera aperta al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite denunciando una tragedia di portata tale "che includeva pulizia etnica e crimini contro l'umanità".

Ai funzionari delle Nazioni Unite, che avrebbero voluto condurre un'indagine su omicidi, stupri e torture subiti dai Rohingya da parte delle forze di sicurezza, è stato sempre negato l'accesso. Non era la prima volta che venivano formulate simili accuse nei confronti dell'esercito di Myanmar. Nell'aprile 2013, Human Rights Watch aveva denunciato una vera e propria campagna di pulizia etnica contro i Rohingya da parte del paese. Le autorità di Myanmar, allora come adesso, hanno negato tali accuse.

Ma chi sono i Rohingya e perché continuano a essere perseguitati dalle autorità di Myanmar?

La definizione più frequente con la quale sono descritti è "la minoranza più perseguitata al mondo". I Rohingya sono un gruppo etnico, per la maggior parte di fede musulmana, che vive dal XII secolo a Myanmar, paese prevalentemente buddista. Attualmente, sono poco più di un milione.

Non inclusi nell'elenco dei 135 gruppi etnici ufficiali del paese, dal 1982 sono di fatto apolidi. Quasi tutti vivono nello stato di Rakhine, che non possono lasciare senza permesso del governo, in condizioni di estrema povertà e senza servizi minimi che garantiscano una vita dignitosa.

Nel corso dei cento e più anni di dominazione britannica (dal 1824 al 1948), un consistente flusso migratorio di operai è giunto a Myanmar proveniente da India e Bangladesh. Poiché l'amministrazione britannica considerava Myanmar una provincia dell'India, tale migrazione, malvista dalla maggioranza della popolazione nativa, era ritenuta interna.

In un rapporto del 2000 di Human Rights Watch, si documenta che dopo l'indipendenza, la migrazione avvenuta nel periodo britannico sia stata considerata dalle autorità birmane "illegale ed è su questa base che alla maggioranza della popolazione Rohingya viene rifiutata la cittadinanza".

Quando nel 1948 è stato approvato lo Union Citizenship Act, che ha definito le etnie alle quali veniva concessa la cittadinanza, i Rohingya furono esclusi. Tuttavia l'atto consentiva ai Rohingya che avevano familiari che avessero vissuto in Myanmar per almeno due generazioni di poter chiedere il rilascio di un documento d'identità. Durante questo periodo diversi cittadini Rohingya vennero anche eletti anche in Parlamento.

Dopo il colpo di stato militare del 1962, la situazione è cambiata drasticamente. Ai Rohingya sono stati concessi esclusivamente documenti d'identità stranieri che offrivano poche opportunità di lavoro e di frequenza scolastica.

Nel 1982, la nuova legge, che prevede tre livelli di cittadinanza, ha reso i Rohingya apolidi. Per ottenere il primo livello (naturalizzazione) bisogna dimostrare che la famiglia della persona che lo richiede viva in Myanmar da prima del 1948, nonché la conoscenza fluida di una delle lingue nazionali. Molti Rohingya non hanno questi requisiti perché in passato gli sono stati negati. Come conseguenza della legge, il diritto allo studio, al lavoro, di voto, di viaggio, a contrarre matrimonio, a praticare la propria religione e ad accedere ai servizi sanitari sono stati e continuano a essere limitati.

Dagli anni '70, una serie di violenze perpetrate nei loro confronti ha costretto centinaia di migliaia di Rohingya a fuggire negli stati confinanti del Bangladesh, della Malesia, in Thailandia e in altri paesi del sud-est asiatico per non continuare a subire stupri, torture, omicidi da parte delle forze di sicurezza. Si stima che siano fuggite quasi un milione di persone.

via Al Jazeera

La fuga in Bangladesh è ripresa dallo scorso 25 agosto dopo la risposta militare di Myanmar ad attacchi a posti di polizia e a una base militare ad opera di un gruppo armato Rohingya che hanno causato la morte di 12 addetti alla sicurezza. Il governo del paese ha accusato l'Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA) di atti di terrorismo, dando vita a una reazione violenta e indiscriminata da parte dell'esercito che ha bruciato interi villaggi e perpetrato omicidi e violenze nei confronti di tutta la popolazione, uccidendo 400 persone e costringendo centinaia di migliaia di Rohingya a fuggire, provocando una delle più grandi crisi dei rifugiati degli ultimi tempi.

Da qualche settimana l'ARSA è stato inserito nell'elenco delle "organizzazioni pericolose" stilato da Facebook che ha impedito la pubblicazione di qualsiasi contenuto da parte del gruppo o in suo sostegno.

Mentre le forze militari di Myanmar, accusate dalle Nazioni Unite di esser impegnate in "un esempio da manuale di pulizia etnica", hanno una pagina Facebook seguita da 2 milioni e 600mila follower, numerosi profili di utenti privati sono stati sospesi per aver documentato, con post e immagini, le violazioni di diritti umani avvenute ai danni della popolazione Rohingya.

Facebook ha dichiarato di aver assunto il provvedimento non su richiesta del governo ma a causa della presunta attività violenta dell'ARSA, rifiutandosi di commentare se altri gruppi coinvolti nel conflitto siano stati ritenuti altrettanto pericolosi.

La decisione del social network è stata accolta con favore dal portavoce di Aung San Suu Kyi, Zaw Htay, che il 26 agosto ha condiviso in un post un messaggio inviatogli da Facebook con cui gli viene comunicata la rimozione dei contenuti riguardanti ARSA.

Critiche sono state mosse da rifugiati Rohingya, giornalisti e osservatori per quello che è ritenuto un atto di censura delle segnalazioni di violazioni dei diritti umani commesse nei confronti del gruppo etnico minoritario. Per Phil Robertson, vice direttore di Human Rights Watch Asia, i Rohingya sono stati costretti a raccontare la violenze subite su Facebook e Twitter a causa delle minacce e dei boicottaggi a cui vengono sottoposti i pochi media indipendenti in Myanmar, impossibilitati a parlarne.

«Credo che [Facebook] stia cercando di sopprimere la libertà di espressione e di dissenso in accordo con chi sta commettendo un genocidio nel regime di Myanmar», ha dichiarato al Guardian Mohammad Anwar, attivista e giornalista del sito RohingyaBlogger.com. Anwar, le cui accuse di censura sono state pubblicate dal Daily Beast, ha condiviso gli screenshot di numerosi post rimossi da Facebook per aver violato gli standard della comunità, alcuni dei quali descrivevano le operazioni militari compiute nei villaggi dei Rohingya indotti alla fuga.

Con la disponibilità di spazio estremamente limitata all'interno dei campi profughi gestiti dalle ONG nazionali e internazionali in Bangladesh, i Rohingya hanno costruito baracche con teloni e bastoni di bambù sulle colline sabbiose e in altri spazi all'aperto. La scorsa domenica l'Inter Sector Coordination Group, a cui aderiscono varie agenzie umanitarie, ha denunciato la condizione precaria negli insediamenti improvvisati in cui vivono quasi 327mila persone che necessitano di un riparo di emergenza.

Più della metà dei 412000 Rohingya fuggiti da Myanmar vivono in campi improvvisati
Mahmud Hossain Opu/Al Jazeera

Misada Saif, portavoce del Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC), ha dichiarato ad Al Jazeera: «È una crisi enorme e al di là della capacità di molte organizzazioni internazionali che lavorano sul campo: le persone sono ancora in movimento, le famiglie cercano rifugio».

Dallo scorso sabato, inoltre, il governo del Bangladesh sta limitando lo spostamento di più di 400mila migranti Rohingya ordinando loro di rimanere nei luoghi assegnati. L'amministrazione ha anche annunciato la costruzione di rifugi per l'ospitalità di 400mila persone, nei pressi della città di Cox's Bazar.

Intanto le Ong che si occupano della difesa dei diritti umani continuano a documentare e a denunciare le violenze avvenute a partire da agosto. Lo scorso 19 settembre, Human Rights Watch ha pubblicato alcune immagini satellitari dello stato di Rakhine che mostrano la quasi totale distruzione di 214 villaggi. L'Ong ha chiesto ai leader mondiali riuniti in questi giorni a New York, in occasione della 72esima Assemblea generale delle Nazioni Unite, di adottare urgentemente una risoluzione che condanni la pulizia etnica da parte della milizia birmana, e al Consiglio di sicurezza di imporre sanzioni mirate e un embargo sulle armi.

Le immagini documentate da HRW rivelano la distruzione di migliaia di abitazioni nelle municipalità di Maungdaw e Rathedaung. «Queste immagini forniscono prove scioccanti di una distruzione enorme in un tentativo evidente delle forze di sicurezza birmane di impedire ai Rohingya di tornare nei loro villaggi», ha dichiarato Phil Robertson. «I leader mondiali riuniti presso le Nazioni Unite dovrebbero intervenire per porre fine a questa crisi crescente e mostrare ai leader militari della Birmania che pagheranno un prezzo per tali atrocità».

Aung San Suu Kyi interviene sulla crisi in corso a Myanmar
Soe Zeya Tun/Reuters

Dopo settimane di imbarazzante silenzio e l'annuncio del portavoce della mancata partecipazione alla 72esima Assemblea generale delle Nazioni Unite, Aung San Suu Kyi, è intervenuta lunedì scorso, a Naypyidaw, capitale del Myanmar, sulla crisi in corso nel paese, dinanzi a una platea di diplomatici stranieri. Nel suo discorso, il premio Nobel per la pace non ha mai criticato le forze militari per le violenze compiute nello stato del Rakhine, mentre ha sottolineato l'impegno delle forze di sicurezza nel prendere tutte le misure necessarie per non colpire i civili innocenti e per evitare danni collaterali. «Siamo preoccupati di sapere che molti musulmani stanno fuggendo in Bangladesh attraverso il confine. Vogliamo scoprire i motivi di questo esodo», ha dichiarato.

Amnesty International, da anni impegnata nella denuncia degli abusi perpetrati dalle forze di polizia birmane, ha così commentato l'intervento di Aung San Suu Kyi: «Oggi, Aung San Suu Kyi ha dimostrato che sia lei che il suo governo stanno ancora nascondendo la testa nella sabbia rispetto agli orrori che si compiono nello stato di Rakhine. Il suo discorso era poco più di un miscuglio di bugie e accuse nei confronti delle vittime».

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«Ci sono prove evidenti che le forze di sicurezza sono impegnate in una campagna di pulizia etnica attraverso omicidi e sgomberi forzati. Se da un lato è positivo sentire Aung San Suu Kyi condannare violazioni dei diritti umani nello stato di Rakhine, dall'altro continua a rimanere in silenzio sul ruolo delle forze di sicurezza», ha dichiarato James Gomez, direttore di Amnesty International per il Sudest Asiatico e il Pacifico. «Se Myanmar non ha nulla da nascondere, dovrebbe consentire l'ingresso nel paese agli ispettori delle Nazioni Unite, incluso nello stato di Rakhine. Il governo deve inoltre concedere urgentemente agli attori umanitari accesso completo e libero in tutte le aree e alle persone in difficoltà nella regione».

«Aung San Suu Kyi ha giustamente sottolineato le sfide derivanti dai conflitti in altre zone del paese» ha proseguito Gomez «ma resta il fatto che le minoranze etniche stanno soffrendo gravi violazioni dei diritti umani da parte dei militari, in particolare negli stati del Kachin e dello Shan. Queste modalità operative continueranno finché le forze di sicurezza godranno di totale impunità».

Foto in anteprima via The Economist

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