Sull’Aventino ci sono Musk e Zuckerberg, non chi fugge dai loro recinti elettronici
12 min letturadi Carlo Gubitosa* - Fondatore e admin di www.sociale.network
La fuga dalle piattaforme commerciali di molti giornalisti, testate, ricercatori e produttori di contenuti, viene spesso sminuita come un velleitario lavaggio della coscienza di chi vuole rifugiarsi in una bolla comunicativa.
In realtà si tratta di una assunzione di responsabilità sociale davanti alla storia, scomoda per chi ha “frequentazioni digitali” molto radicate in una specifica piattaforma, ma necessaria per liberare noi, i nostri contatti e le interazioni della nostra vita digitale dal controllo algoritmico, dal cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”, da aziende e piattaforme lontane da qualunque idea di etica, e utilizzate con successo in tutto il mondo da regimi estremisti, nazionalisti e suprematisti per la loro propaganda.
L’alternativa è abbandonarsi a un degrado digitale che è diventato un neologismo, la “enshittification” dei servizi commerciali di comunicazione, e subire minacce digitali che colpiscono tanto la sfera privata dei singoli quanto la sfera politica degli Stati.
Ma le alternative libere, decentralizzate, trasparenti e senza algoritmi di profilazione esistono da anni, e sono già popolate da milioni di persone in tutto il mondo. C’è vita, buon giornalismo e community vivaci anche al di fuori dei recinti aziendali di Musk e Zuckerberg, sempre più incapaci di controllare una pesante emorragia di utenti con un progressivo degrado nei loro servizi, che diventano sempre più costosi per per persone sempre meno tutelate dal discorso d’odio.
Sull’Aventino digitale ci sono loro e una base di utenti costruita a immagine dei loro interessi politici e aziendali, non chi abbandona le loro piattaforme cercando alternative nelle reti federate e decentralizzate, assieme a milioni di altri soggetti che nella loro ricerca di libertà digitale si riscoprono nuovamente persone dopo anni di sudditanza trascorsi come “utenti”.

Il primo febbraio gli attivisti per le libertà digitali hanno celebrato il “Global Switch Day”, festeggiando tutti quelli che hanno felicemente realizzato il passaggio dalle piattaforme social aziendali e centralizzate ad una delle 25mila community decentralizzate, autogestite e federate che formano il “fediverso”, un universo federato popolato da undici milioni di persone in tutto il mondo, dove Mastodon ha rimpiazzato Twitter, PixelFed ha rimpiazzato Instagram, PeerTube ha rimpiazzato YouTube.
In concomitanza con il “Global Switch Day” c’è stato anche il Fosdem, “Free and Open Source Software Developers' European Meeting”, lo storico raduno degli hacker e degli appassionati di tecnologie libere di tutta Europa, che quest’anno ha celebrato i suoi 25 anni di attività. E anche nei seminari del Fosdem, il fediverso ha avuto un ruolo da protagonista.
Sono sempre di più, infatti, le piattaforme che scelgono per la distribuzione dei loro contenuti il protocollo aperto “activitypub” su cui si basa lo scambio di contenuti tra le piattaforme del fediverso, una tecnologia sviluppata dal World Wide Web Consortium per far parlare tra di loro le piattaforme social: come se da Twitter potessimo interagire anche con le persone che seguiamo su Facebook o YouTube, e loro potessero parlarci dalle loro piattaforme.

La mappa concettuale qui sopra è la visione della rete di Tim Berners-Lee, inventore del World Wide Web e fondatore del consorzio W3C, dove ci si impegna affinché il linguaggio HTML (con cui vengono scritte le pagine web), il protocollo di comunicazione HTTP (con cui le pagine vengono trasmesse) e linguaggi fondamentali per altri servizi della Rete restino uno standard comune, aperto e non controllato da nessuna azienda, che consenta a siti web con tecnologie differenti e programmi di navigazione differenti di comunicare senza barriere. È per questo motivo che non si pagano diritti d’autore o royalties per l’utilizzo di un brevetto ogni volta che scriviamo “www” per collegarci a un sito internet.
Sui social network commerciali, invece, sta accadendo l’opposto: le piattaforme sono recinti chiusi e centralizzati che non comunicano tra loro, come se usando gmail fosse impossibile spedire una email a indirizzi che non sono di Google. Per affermare una idea del web come luogo pubblico e inclusivo, il consorzio W3C ha sviluppato il protocollo aperto “activitypub”, una “lingua franca” che sostituisce i “dialetti aziendali”, e consente di abbattere i recinti, gettare ponti tra piattaforme e aggirare gli algoritmi di filtraggio.

Grazie a questo protocollo e al lavoro volontario di tante comunità di hacker, il fediverso è ormai un “ecosistema digitale” abitato da milioni di individui e caratterizzato da una grande “biodiversità”, dove migliaia di piattaforme consentono a milioni di utenti miliardi di interazioni decentralizzate e sostenibili, dove i costi di creazione di una nuova piattaforma sono dell’ordine delle centinaia di euro all’anno, le funzioni del software sono superiori a quelle delle piattaforme commerciali e, se non ci riconosciamo in nessuna delle community esistenti, possiamo creare una piattaforma su misura dei nostri interessi e principi. Come può fare, ad esempio, qualunque appassionato di fotografia che grazie a Pixelfed può creare un “instagram personale” che però non rimane una bolla chiusa come un sito web, ma interagisce con tutto l’ecosistema già esistente al contorno.
È quello che ha fatto ad esempio Elena Rossini utilizzando il software libero Pixelfed per creare sulla sua piattaforma photos.elenarossini.com dove ha raccolto già 1500 follower provenienti da altre piattaforme del fediverso, dimostrando che per mettere in piedi una piattaforma come Instagram non c’è bisogno di chiamarsi Zuckerberg e comprarsela a suon di miliardi.

Il risultato è che in un mondo digitale con meno barriere possiamo comunicare meglio e con più efficacia di quello che consentono gli algoritmi di filtraggio delle piattaforme finalizzate al profitto, che monetizzano il discorso d’odio, e la schedatura degli utenti che raccoglie “metadati”, tracce lasciate dalle nostre attività elettroniche e utilizzate per individuare elettori indecisi e consumatori compulsivi, bersagli facili per il marketing commerciale e politico.
I “padroni dei social” restano impermeabili a ogni considerazione etica anche quando i rapporti delle Nazioni Unite documentano l’utilizzo delle loro piattaforme come “strumento per la diffusione dell’odio” nel contesto del genocidio birmano della minoranza rohingya, mentre milioni di persone per bene si sentono in dovere di partecipare a una conversazione globale pilotata da un miliardario che fa i propri interessi e non quelli degli utenti, sostiene l’estrema destra tedesca che non si tiene a distanza di sicurezza dal neonazismo, scambia complimenti con ricercati per crimini di guerra e crimini contro l’umanità e mette una potente macchina di propaganda camuffata da “free speech” a disposizione di chi attacca i tribunali chiamati a giudicare quei criminali di guerra, taglia i finanziamenti alle agenzie umanitarie statunitensi e alle istituzioni sanitarie internazionali, rinuncia a ogni tentativo di mitigare gli effetti devastanti della crisi climatica in corso, smantella ogni spesa pubblica che non avvantaggia armieri e tecnocrati.

Ma le alternative tra l’isolamento e la connivenza con una tecnocrazia malata iniziano a farsi strada: l’idea di un “fediverso interconnesso” come alternativa alle piattaforme monolitiche non è più una utopica visione del futuro condivisa solo tra attivisti per le libertà digitali, ma è una realtà concreta che si sta affermando anche all’interno di solide realtà editoriali e commerciali.
Lo ha confermato al Fosdem John O’Nolan, CEO di Ghost.org, un software libero per il giornalismo indipendente realizzato da una fondazione non-profit con un modello di business circolare: il software libero attira utenti che lo usano sui loro siti, qualcuno di questi utenti vuole usare i servizi di hosting a pagamento per affittare computer che usano il software offerto dalla fondazione, i proventi sono utilizzati per migliorare il software, e nuovi utenti si aggiungono a quelli esistenti.
In un workshop del primo febbraio scorso, intitolato "Networked Journalism: Bringing long-form publishing to the Fediverse", O’Nolan ha annunciato al Fosdem l’introduzione del protocollo Activitypub su Ghost, già rilasciato con una licenza “Open Source” che lo rende utilizzabile gratuitamente anche da piccole realtà editoriali, aumentando il valore di questo prodotto anche per questa nuova capacità di interagire con altre piattaforme.
“I social network commerciali - ha spiegato O’Nolan - vanno bene per il marketing, quando devi raggiungere nuovi lettori che non ti conoscono, ma non vanno bene per la distribuzione dei tuoi contenuti, perché la tua base di lettori e follower viene tenuta a distanza dai filtri e dagli algoritmi delle piattaforme. Spesso si pensa che le redazioni abbiano come unico scopo quello di mettere i loro contenuti in bocca al maggior numero possibile di persone, ma noi sappiamo che le redazioni vogliono sapere anche quello che si dice in giro, che cosa si sta raccontando su un determinato argomento. E il modo migliore per farlo è affacciarsi sul fediverso con la propria piattaforma editoriale”.
Che il fediverso sia più efficace per incontrare altre persone e comunicare con loro lo conferma anche la mia esperienza personale come cofondatore e admin di sociale.network, dove ho raccolto 8mila contatti dal 2020, anno di fondazione della piattaforma, e vivo interazioni umanamente e culturalmente più interessanti di quelle che mi è stato consentito di costruire con 11mila follower di un account twitter nato nel 2009 e ormai abbandonato alle ortiche e ai bot.
E nell’esplorazione del fediverso non capita solo di scoprire account interessanti, a volte emergono intere comunità. Mentre scrivo, mi raggiunge l’annuncio di Sayansi.social, una nuova community Mastodon per gli amanti della scienza, dove il confronto sarà libero dal complottismo antiscientifico proprio come nella comunità ecopacifista di sociale.network abbiamo deciso di proteggerci dal discorso d’odio razzista, bellicista e colonialista, con una moderazione dei contenuti molesti trasparente e autogestita dalla stessa community.
Un gruppo di “active & retired journalists, media scholars, and a variety of news and journalism adjacent professionals” ha dato vita a journa.host, ricercatori e giornalisti scientifici si stanno ritrovando su sciencemastodon.com, e queste sono solo due delle diecimila community che usano mastodon tra le venticinquemila community che popolano il fediverso, una frontiera da esplorare con curiosità in alternativa alle piattaforme da subire passivamente, con funzionalità del software superiori a quelli dei loro equivalenti commerciali.
Come si vede nello schema qui sotto, tutto quello che è a pagamento su X (ex Twitter), su Mastodon è una funzionalità liberamente utilizzabile, al netto dei servizi che funzionano solo nella bolla degli utenti paganti e di quelli che avvelenano la vita digitale delle persone, con un processo di degrado definito – dicevamo – “enshittification” delle piattaforme, un neologismo coniato nel 2022 e premiato come “Word of the Year” nel 2023 dalla American Dialect Society.

La creazione di un nuovo termine conferma quanto fosse urgente il bisogno di descrivere un ricorrente circolo vizioso: aziende che raccolgono con servizi gratuiti una grande massa di utenti nelle loro piattaforme, fanno degradare i servizi offerti sperando che il maggior numero possibile di persone voglia pagare per quello che prima aveva gratis, e scoprono che alla fine non basta più nemmeno quello, e portano a estreme conseguenze la “enshittification”, sperando di generare nuovi profitti con servizi gratuiti sempre più scadenti e servizi “premium” sempre più costosi.
Agli antipodi del degrado commerciale c’è il processo di miglioramento continuo del software libero: su ogni piattaforma che utilizza mastodon posso utilizzare dei bot “benigni” che invece di generare traffico molesto, spam e fake news generano automaticamente un testo descrittivo delle immagini che pubblichiamo, a beneficio di chi non le può visualizzare, le previsioni del tempo da spedire ogni mattina all’orario che preferiamo, collane di libri immaginari di cui esiste solo la copertina o infografiche aggiornate in automatico per applicazioni di data journalism basate sul microblogging.
L’unico limite è la fantasia, e bot di servizio, giocosi o creativi sono già disponibili per essere attivati sul proprio nodo Mastodon, anche per importare su un account del fediverso le notizie del proprio sito di informazione preferito, “pescate” dal “feed Rss” dove vengono segnalate automaticamente tutte le nuove pagine.
È la presenza di una enorme massa di utenti, l’inerzia e la forza dell’abitudine che spingono le persone a restare su X (ex Twitter) anche se i servizi sono peggiori e costosi, ma ognuno ha la sua goccia che fa traboccare il vaso, e per molti questa goccia è stata la trasformazione di questa piattaforma in un organo di propaganda del suprematismo bianco statunitense.
La cultura social di “un account per piattaforma” che ha soppiantato la cultura dell’interoperabilità dell’email è un sintomo del bisogno di ripensare internet come spazio sociale dopo averla subita come spazio aziendale, ma il fastidio di superare questa cultura è minimo, soprattutto se confrontato alle gravi responsabilità di cui ci facciamo carico rinnovando ogni giorno il sostegno a questo sistema di potere mediatico, politico, simbolico ed economico.
Nel Novecento non potevamo costruire l’alternativa al potere industriale della FIAT con quattrocentomila lire, ma oggi possiamo costruire l’alternativa al potere digitale delle piattaforme anche con meno di quattrocento euro.
È questo potere nonviolento delle tecnologie libere che mi ha spinto a creare sociale.network come piattaforma libera, gratuita e federata, dove sono al tempo stesso un amministratore di sistema che garantisce alla sua comunità una privacy e una protezione dal discorso d’odio migliori di quelle che offrono le piattaforme commerciali, un giornalista che ha scelto spazi liberi dove può sentirsi altrettanto informato e meno filtrato, una persona che sta riscoprendo relazioni serene e costruttive, senza monetizzazione dei bisticci e dei discorsi d’odio, un pacifista che prova a creare nuovi spazi di cultura e di informazione anziché affannarsi a fare il debunking della narrazione dominante e della propaganda di guerra prodotta su più fronti, un europeista che vuole decentralizzare il potere delle piattaforme dopo aver scoperto che grazie a questo potere è stata resa possibile la Brexit e si sta cercando di favorire l’ascesa dell’estrema destra in Europa.

Nell’esperienza di Valigia Blu vedo un potenziale di alternativa e aggregazione attorno ad una piattaforma pensata per facilitare lo scambio di informazioni giornalistiche e il lavoro dei giornalisti, senza rinchiudersi in una bolla e facendo un uso intelligente delle nuove tecnologie per creare nel fediverso servizi con policy e regole di partecipazioni conformi alla propria etica del giornalismo e non all’etica aziendale altrui.
Giornalisti, videomaker, fotografi e storyteller meritano spazi liberi dove esprimersi senza il filtro degli algoritmi, e condividere post, articoli, video, podcast e foto, per interagire col mondo e non solo con i propri follower.
Un tempo i giornalisti italiani si incontravano ai circoli della stampa, nell’epoca dei blog c’era il “Barbiere della Sera”, poi sono arrivati i social. Oggi possiamo incontrarci attorno all’interesse comune per la buona informazione mettendo un piede nel fediverso per essere aperti, federati e interconnessi con migliaia di altre community in tutto il mondo.
Possiamo creare spazi dove promuovere il giornalismo di qualità come strumento per migliorare la vita delle persone. e non come contenuto “acchiappa clic” funzionale a progetti di aziende private. Gli strumenti per farlo ci sono, le conoscenze informatiche non mancano, servono solo persone con la voglia di cambiare rotta, scrollandosi di dosso le vecchie piattaforme, ma soprattutto una vecchia mentalità subalterna e passiva, che le considera (a torto) indispensabili.
*Carlo Gubitosa, giornalista, scrittore e ingegnere delle telecomunicazioni, ha fondato l’associazione culturale Altrinformazione.net che realizza progetti no-profit di microeditoria a fumetti e ha realizzato in collaborazione con PeaceLink.it la piattaforma di microblogging sociale.network. Sui temi della comunicazione elettronica ha scritto i volumi "Telematica per la Pace" (Apogeo 1996), "Oltre Internet" (EMI/FCE 1997), "Italian Crackdown" (Apogeo 1999), "L'informazione alternativa" (EMI 2002), "Elogio della pirateria" (Terre di Mezzo 2005), "Hacker, scienziati e pionieri" (Stampa Alternativa 2007), "Hacking Miracles", (Jaico Publishing 2011). Ha contribuito con un capitolo sulle piattaforme social non commerciali al volume "Ecologia Digitale" (AA.VV, Altreconomia 2023).
