Musk, da tech guru a più odiato di Trump
7 min lettura“È un voto che deciderà il futuro della civiltà occidentale”. Sono le parole pronunciate da Elon Musk, riferendosi all’elezione, svoltasi martedì, di un giudice della Corte Suprema del Wisconsin. La campagna è stata caratterizzata da un’ingente spesa personale del miliardario sudafricano, che ha donato venti milioni al candidato repubblicano, Brad Schimel, e ha indetto una lotteria con cui gli elettori conservatori hanno potuto vincere un milione di dollari a testa: nonostante questo, la candidata democratica Susan Crawford ha vinto con un distacco di ben 10 punti percentuali.
Il giorno dopo, uno scoop di POLITICO ha rivelato che Trump avrebbe fatto sapere internamente che “Musk a un certo punto tornerà a fare il suo lavoro”, mettendo le basi per porre fine alla collaborazione diretta tra i due al termine dei 130 giorni in cui l’imprenditore avrebbe dovuto rivoluzionare la burocrazia federale, a suo dire eliminando tutti gli sprechi. La portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, ha bollato la storia come “spazzatura”, ma sempre più fonti d’informazione confermano che il prossimo ruolo di Musk sarebbe solo consulenziale, e non avrebbe più la visibilità centrale che ha fatto dire ad alcuni democratici di essere di fronte alla “presidenza Musk”. Lo stesso vicepresidente JD Vance ha parlato di come Musk rimarrà “un amico e un consigliere non appena lascerà DOGE”.
Pubblicamente, Trump ha mostrato sempre profonda ammirazione e amicizia per Musk, che lo ha sostenuto subito dopo l’attentato del luglio 2024, infondendo denaro in una campagna che arrancava nella raccolta fondi; una scelta decisa e pianificata mesi prima, culmine della trasformazione politica del miliardario. In questi mesi, poi, Trump ha beneficiato della sua presenza, che gli ha permesso di ricevere meno critiche. Tra le decisioni prese, Musk ha licenziato dipendenti, imposto di rispondere a mail riassuntive ogni lunedì mattina e tolto fondi alle agenzie per lo sviluppo. La sua popolarità è così colata a picco in pochissimo tempo. Durante riunioni interne del gabinetto, Trump ha dovuto rimarcare ai suoi ministri che non dovevano seguire pedissequamente tutte le opinioni di Musk, dato che poi era in capo a loro la responsabilità politica dei tagli. Se Trump è sceso al tasso di approvazione più basso toccato in questo mandato, con solo il 43 per cento di fiducia, Musk è disprezzato dal 60 per cento degli americani, tra cui il 20 per cento repubblicani, e i suoi programmi di tagli alla spesa pubblica non sono ben visti da gran parte della popolazione.
Da quando è diventato una figura politica, la sua azienda principale, Tesla, ha subito forti perdite, tra cui un calo del 13 per cento nelle vendite nel primo trimestre 2025, ancora più vertiginoso se pensiamo che la vendita globale di veicoli elettrici sta aumentando. In tutto il mondo si sono susseguite proteste, boicottaggi e pubblicità satiriche per denigrare l’azienda: nel Regno Unito sono comparsi annunci alle fermate degli autobus che parlavano della “Swastikar”, in Italia il gruppo Extinction Rebellion ha occupato il negozio Tesla di Milano, negli Stati Uniti le proteste contro la compagnia di auto elettriche sono sempre più forti.
Per di più, le sue mosse hanno ricompattato un Partito Democratico che faticava a trovare una sintesi nel modo di fare opposizione: l’attacco diretto a tutte le iniziative del dipartimento DOGE, responsabile di tagli di spesa a ogni livello e settore della burocrazia federale statunitense, e il tentativo di difendere il settore pubblico sono stati centrali nella comunicazione dei democratici dell’ultimo mese, soprattutto nella campagna in Wisconsin, e vorrebbero usare lo stesso pattern per le prossime elezioni alla carica di governatore della Virginia.
Questo perché la figura politica di Musk, in questa rapida ascesa e caduta in meno di un anno, è stata caratterizzata da una massiccia centralità: in contrarietà a quei miliardari che finanziano l’uno o l’altro partito privatamente, dando flusso di cassa alle campagne ma senza apparire, la vicinanza a Trump del sudafricano è stata evidente. Comizi insieme, inviti a Mar-a-Lago e all’inaugurazione presidenziale alla Rotunda del Campidoglio, fino al dipartimento creato apposta per lui: accettare i suoi soldi vuol dire essere consapevoli di fare i conti con una personalità che vuole stare al centro della scena e veicola verso di sé tutta l’attenzione mediatica. Una presenza massiccia, anche nell’ultima tornata elettorale, che ha giovato ai democratici: un’elezione per una carica giudiziaria è diventata in breve un referendum sulla figura del magnate, che ha consentito all’opposizione di rifiatare dopo la sconfitta di novembre. Le dichiarazioni seguite al voto da parte degli esponenti del partito sono state perentorie: un incoraggiamento a Musk di continuare a fare campagna direttamente, in modo da migliorare esponenzialmente la loro condizione e fare vincere sempre di più l’opposizione.
Se i democratici hanno ricevuto una scarica di energia da questa situazione, la posizione dei repubblicani è molto più complessa. Da un lato, in attesa delle elezioni di metà mandato che dovranno svolgersi a novembre 2026, molti repubblicani continuano a volersi dichiarare vicini a Musk, perché sanno che questo garantisce loro la possibilità di avere accesso a molti più fondi. Ritengono che, se affiancato da professionisti, Musk possa garantire un’energia e un’attenzione mediatica verso elezioni di scarsa rilevanza nazionale e a energizzare la base repubblicana, che si presenta in massa alle urne quando bisogna votare Donald Trump, certificato dalle grandi performance in voti assoluti del partito alle elezioni presidenziali del 2020 e 2024, ma che diserta tutte le altre. Altri, invece, hanno reagito al probabile allontanamento da Washington del magnate con sollievo: sono principalmente i deputati di collegi a rischio e a tasso elevato di povertà, dove la sanità pubblica è molto utilizzata e i tagli di spesa stanno peggiorando la vita delle persone. Chi deve vincere elezioni di questo tipo vuole porsi il più lontano possibile da Musk, considerato a tutti gli effetti tossico.
È poi presente un terzo tipo di repubblicani, i trumpiani della prima ora che si rifanno alla corrente di estrema destra ed etnonazionalista capeggiata da Steve Bannon. Quest’ultimo non ha mai avuto parole di stima nei confronti di Musk, definito “immigrato illegale parassita”. Nonostante ciò, nell’ultimo periodo i due hanno trovato un punto di contatto nell’attacco alle istituzioni percepite come progressiste, come le università, o alle politiche di diversità e inclusione delle grandi aziende: se Musk si dovesse allontanare da Washington, le opinioni di Bannon avrebbero ancora più presa sull’amministrazione. Già oggi Trump, nell’imporre dazi elevatissimi a quasi tutti i suoi alleati, ha il plauso incondizionato di Bannon stesso, che ha definito il giorno dell’annuncio “magnifico”: Musk, invece, come annunciato al Congresso della Lega nel weekend, auspica a breve che non ci saranno dazi tra Usa e Unione Europea, in una sconfessione palese delle politiche del presidente. Sconfessione che ha portato a uno scontro con il consigliere economico di Trump, Peter Navarro, che ha accusato Musk di essere un assemblatore di automobili che cerca pezzi stranieri; Musk ha risposto che Navarro, pur con un dottorato in economia a Harvard, non ha costruito nulla nella sua vita.
Da luglio, quando ha annunciato su X che avrebbe sostenuto Trump, a oggi, Musk ha provato a diventare centrale nella scena politica mondiale, ponendosi come una figura di riferimento per l’internazionale delle destre sovraniste. Dal suo profilo ha elargito endorsement a molti partiti di estrema destra europei, da AfD in Germania, al Reform Party di Farage nel Regno Unito, e ha attaccato frontalmente i leader progressisti, spesso attraverso un utilizzo spregiudicato di notizie false, come quando attaccò il premier britannico Starmer dopo l’uccisione di tre bambine a Southport, arrivando ad asserire che la guerra civile in Gran Bretagna “sarebbe stata inevitabile”.
Nell’ultimo periodo, però, anche la popolarità internazionale è evaporata. Complice la politica aggressiva di Trump verso i paesi tradizionalmente amici degli Stati Uniti, definita da molti analisti del tutto simile a quella di un gangster, l’endorsement pubblico di Musk su X è oggi un problema, più che un asset da sfruttare. Pierre Poilievre, il leader dei conservatori canadesi, che aveva ricevuto l’endorsement sia del presidente che del magnate, sembrava destinato a una brillante vittoria a gennaio, mentre oggi le sue chance di formare un governo in solitaria sono poche.
Come ha detto al Wall Street Journal il sondaggista Whit Ayres, l’approccio duro verso la burocrazia, e la volontà di tagliare tutto il possibile, non funziona negli Stati Uniti. Musk si è imposto come il leader di successo che doveva scoprire gli sprechi in un apparato non funzionante: dal 20 gennaio ha spesso annunciato di aver tagliato decine di miliardi di sprechi, ma la realtà è che non ha mai prodotto prove concrete di frodi su larga scala. Nel frattempo, è stato visto con sempre più sfavore da tutti quegli elettori repubblicani che per via delle sue politiche si sono impoveriti, in una parabola che è stata deleteria per la sua immagine e le sue finanze.
Immagine in anteprima via Bluesky
