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La morte di Musa Balde è il frutto di politiche e leggi razziste fondate sulla disumanizzazione dell’altro

29 Maggio 2021 6 min lettura

La morte di Musa Balde è il frutto di politiche e leggi razziste fondate sulla disumanizzazione dell’altro

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Musa Balde aveva 23 anni ed era nato in Guinea: la notte di sabato 22 maggio si è tolto la vita nel Centro di permanenza per i rimpatri (CPR) di Torino, dove da tempo era rinchiuso in isolamento sanitario. Lo scorso 9 maggio, a Ventimiglia, era stato aggredito da tre uomini. Lo hanno pestato con bastoni, calci e pugni all’uscita di un centro commerciale, accusandolo di un tentativo di furto di un telefonino. 

Musa era stato portato all'ospedale di Bordighera per le conseguenze delle botte che gli avevano procurato lesioni e trauma facciale. Ma Musa era anche, o forse soprattutto, un migrante senza documenti. Su di lui pendeva un provvedimento di espulsione. E per uno strano meccanismo questo suo status andava a cancellare la sua condizione di vittima. Una volta dimesso dall'ospedale, per Balde si è deciso la prigionia — perché di questo si tratta di fatto — del CPR di Torino, e il ragazzo non ce l'ha fatta.

I Centri di permanenza per il rimpatrio sono strutture di reclusione dove vengono trattenuti i cittadini stranieri irregolari in attesa di essere identificati ed espulsi. Si tratta dell’ultima evoluzione di un sistema iniziato nel 1998 con la legge Turco-Napolitano, che con il tempo ha subito cambiamenti proporzionalmente ai fallimenti delle sue politiche e al tempo di detenzione dei suoi “ospiti”. Inizialmente il CPT (Centro di permanenza temporanea, come veniva chiamato allora) doveva essere un luogo di transito in cui i migranti potevano essere trattenuti per un massimo di 30 giorni, ma la durata è aumentata con il tempo arrivando anche ai sei mesi previsti dai decreti sicurezza di Salvini del 2018. Ciò che non è cambiato è la loro vera funzione che anzi si è andata a rafforzare con gli anni: "lucrare" sulle persone detenute e ampliare la distinzione tra chi è considerato essere umano meritevole di diritti e chi un semplice oggetto, un pacco da spostare da una parte all’altra del paese per far maturare profitti per lassi di tempo sempre più lunghi. Si tratta di luoghi in cui individui che non hanno commesso alcun reato, colpevoli soltanto di aver violato la disposizione amministrativa del possesso del permesso di soggiorno, vengono privati della libertà personale, scrive Open Migration. Come già accertato da diverse associazioni, questi luoghi sono spesso il centro di violazioni dei diritti umani, noti per le basse se non inesistenti condizioni igieniche e per i maltrattamenti dei loro residenti. La mancanza di spazi di socialità e per il consumo condiviso dei pasti in alcuni di essi si aggiunge alla situazione di precarietà in cui versano i migranti. Ma la grande assente è l’assistenza in termini psicologici e sanitaria che lascia queste persone in un vortice di disagi psicofisici che portano all’esasperazione.

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Morti di CPR... Musa non è l’unico.

Il 5 gennaio 2018 è stata la volta di un migrante tunisino di 30 anni (sì, questa è l’unica denominazione che si trova al suo riguardo nei nostri media), ospite dell'hotspot di Lampedusa che si è tolto la vita all'esterno della struttura di contrada Imbriacola. 

Accanto a questi suicidi si accumulano diverse altre morti nei centri di permanenza negli anni. 

L’8 gennaio 2020, muore Vakhtang Enukidze nella struttura di Gradisca d’Isonzo in provincia di Gorizia. Il 38enne georgiano, rimasto coinvolto in una rissa con altri ospiti, sarebbe stato portato prima in ospedale, poi in carcere e infine di nuovo nel Cpr, dove le sue condizioni si sarebbero aggravate. 

“Vakhtang non trova il telefono, non vuole tornare in cella, resiste, viene picchiato finché non ne può più. Viene buttato in cella, nella rabbia prende un ferro in mano e si fa male allo stomaco. Dopo viene portato in infermeria, non più di una ventina di minuti, torna e si mette a dormire, forse per i farmaci. Raccontano che il suo corpo era rosso dai lividi.

[...] Arriva la polizia che chiede a un suo compagno di cella di collaborare passandogli fuori un ferro. Quando V. lo vede aiutarli si arrabbia e i due iniziano a litigare, allora la polizia entra e in otto accerchiano V., iniziano a picchiarlo a sangue, si buttano su di lui con forza finché non sbatte la testa contro il muro.

Lo bloccano con i piedi, sul collo e sulla schiena, lo ammanettano e lo portano via.” 

È la testimonianza raccolta dal gruppo No Cpr e no frontiere – FVG.

Vahktang muore quella notte dopo essere riportato nel centro. In base all'autopsia l’uomo sarebbe deceduto per edema polmonare e non in conseguenza dei traumi del pestaggio. 

Ci sono poi Fathi Manai, originario della Tunisia, trovato morto nel letto della sua stanza nel 2008 a causa di una polmonite mai curata; Faisal Hossai, originario del Bangladesh, morto nell’“Ospedaletto” del centro di detenzione nel 2019, entrambi a Torino. E infine c’è Prince Jerry, che pur non vivendo rinchiuso in uno di questi centri, è rimasto vittima di queste politiche. Jerry era un ragazzo nigeriano di 25 anni residente in Italia in quanto profugo. Due anni fa decise di togliersi la vita a Tortora, dopo che gli era stato negato il rinnovo del permesso di soggiorno, l’unica cosa che avrebbe potuto permettergli di praticare la sua passione, la chimica, per cui aveva già conseguito una laurea nel suo paese d’origine.

Morti di Stato. Morti di politiche migratorie e leggi razziste che fanno della propaganda il loro cavallo di battaglia. Vittime del disinteresse istituzionale e dell'indifferenza sociale raccontate con lo stesso stupore con cui si parlerebbe della caduta di un asteroide sulla Terra, ma che si iscrivono in un progetto ben preciso che nulla ha di sorprendente o inaspettato.

Non stiamo parlando di eccezioni, ma stiamo parlando di un sistema; un sistema reso possibile dalla continua disumanizzazione dei suoi soggetti.

L’immigrato nella narrativa politico-mediatica perde umanità, si spersonalizza e diventa “cosa”, “entità”, ma soprattutto “altro”.

Un altro che rappresenta una collettività che si deve contrapporre ai figli dello Stato e ai valori della Repubblica, per poter delineare al meglio un nemico che per questo è immeritevole di possedere i nostri stessi diritti.

Pensiamo alla narrazione utilizzata quando si racconta di crimini commessi da immigrati o persone di origine straniera. Il soggetto non è mai uno, ma la loro intera etnia, messa ancora prima dei nomi.

Come dimenticarsi dell’episodio del ragazzo fermato mentre cucinava un gatto di fronte a una stazione?

Nel giro di poche ore il ragazzo divenne mezzo di propaganda per le destre, sbattuto sui media come l'emblema di tutti i neri e della “cultura africana”, senza fermarsi a riflettere sui disagi sociali o psicologici che avrebbero potuto portare quella persona a compiere quel gesto.

È un meccanismo sistematico.

Quando sentiamo notizie dall’estero relative ad attacchi terroristici commessi da persone di origine araba questi diventano un simbolo politicizzato di come la minaccia del "fondamentalismo islamico" sia cresciuta a tal punto che anche l’Europa non è più al sicuro.  Al contrario, né l’attacco terroristico di Macerata ad opera di Luca Traini, né le violenze degli anni di piombo sono bastati (giustamente) a definire gli italiani come una “razza” che fonda la propria espressione politica sul terrorismo.

La responsabilità forzata e gli stereotipi che derivano da individui che rappresentano un’eccezione statistica della loro comunità guidano la narrativa bianca del pericoloso altro

Il colore nero è sempre plurale. È collettivo. L'atto di una persona appartenente a una minoranza etnica ci macchia tutti. Le azioni dei neri sono trasferibili e contagiose. La nerezza non è mai individuale. Le azioni della piccola percentuale di estremisti musulmani sono in qualche modo tatuate su ogni singola persona che pratica la religione islamica, chiunque provenga dal Medio Oriente e persino le persone non associate alla religione. 

L’italiano bianco, invece, esiste solo nella sua forma singolare. Non deve navigare in un mondo in cui il colore della sua pelle predetermina il suo impiego, la sua istruzione, la sua relazione con gli altri, la sua propensione al crimine o addirittura la sua possibilità di soffrire di problemi psichici.

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Abbiamo accettato a poco a poco negli anni questo sistema e lo abbiamo rafforzato chi con le proprie azioni — contribuendo a costruire una gerarchia meritocratica dell’inclusione — chi passivamente con il proprio silenzio. E il silenzio è inteso qui non solo come l’atto di tacere, ma anche come atto di far tacere e di addormentare la propria memoria.

Perché di questo si tratta. I corpi di Musa, Fathi, Jerry e i tanti, troppi altri ci servono per la nostra indignazione quotidiana, per la spettacolarizzazione mediatica del loro dolore, per la narrazione paternalistica della loro condizione e poco dopo ci si dimentica di loro e si passa a parlare di altro, finché un altro corpo verrà a bussare alle porte della nostra coscienza per ricordarci che la gente ancora muore di tutto questo.

Immagine in anteprima via "La Talpa e l'Orologio"

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