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Il bullismo di Stato di Salvini, la risposta di Murgia: se il problema è come si dissente e non le ragioni del dissenso

20 Aprile 2019 11 min lettura

Il bullismo di Stato di Salvini, la risposta di Murgia: se il problema è come si dissente e non le ragioni del dissenso

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Tra le strategie comunicative di Matteo Salvini e del suo staff rientra il quotidiano additare nemici dati in pasto ai fan, che possono così sfogarsi e rafforzare il legame con il leader. Ne avevamo già parlato su Valigia Blu: tra baci e sorrisi, il Ministro dell’Interno sistematicamente organizza un bullismo di Stato ai danni di specifiche categorie di cittadini. Talvolta è lo stesso spin doctor di Salvini, Luca Morisi, a rendersi protagonista.

In ciò Morisi non si cura delle conseguenze al di fuori della costruzione del consenso per il leader, come dimostra la spregiudicatezza nel rilanciare bufale o profili fake, anche quando ciò è palese.

Tra le categorie prese di mira rientrano gli intellettuali, rigorosamente “radical chic”. Ovvero persone di sinistra che parlano in astratto, lontano dai problemi veri della gente, e pure un po’ snob. Così è successo il 16 aprile, quando in un tweet Matteo Salvini ha attaccato per l’ennesima volta la scrittrice Michela Murgia, rilanciando un articolo di Nicola Porro, che il giornalista ha pubblicato sul proprio sito. Da notare il virgolettato per "intellettuali", come a dire: "intelligenti per modo di dire".

Il casus belli è stato il rifiuto di Michela Murgia di rilasciare una dichiarazione per la trasmissione Quarta repubblica sul tema dei migranti, trasmissione condotta per l’appunto da Porro. A far infuriare il giornalista non sarebbe stato tanto il rifiuto, quanto il post su Instagram con cui la scrittrice ha motivato la decisione:

Esiste una regola semplice negli ingaggi della comunicazione mediatica: se hai davanti qualcuno che ha già deciso cosa farti dire o come farti apparire, non sei obbligato a lasciarglielo fare. Per questo non rilascio interviste a Libero, al Giornale o a trasmissioni televisive condotte da persone di cui non riconosco l'onestà intellettuale. Conosco la differenza tra comunicare e manipolare e non mi faccio usare per raccontare palle sul dramma delle persone lasciate morire nel Mediterraneo dalla politica del ministro Salvini. C'è un solo modo per vincere ai giochi truccati ed è non giocare.

Dell’articolo di Porro, più degli insulti e dei ringhi, è interessante il titolo, “Murgia, la nuova Boldrini”. Non c’è traccia di Laura Boldrini nell’articolo, perché qui è intesa come antonomasia: vale per “radical chic snob un po’ troppo buonista e filo-immigrazionista”. L’antonomasia è infatti quella figura retorica che evidenzia delle qualità attraverso un nome celebre, e viceversa (es: “sei un Einstein” per dire “sei un genio”, il “sommo poeta” per dire “Dante Alighieri”).

Dunque la scrittrice rifiuta di rispondere a una domanda perché non vuole avvalorare un format più simile a un tavolo truccato che a un programma d’informazione - e tutti i torti non li ha, anzi - e questo rifiuto, dichiarato, le vale un consumato repertorio d’insulti dal conduttore del programma stesso: “ignorante” (nel senso che ignora, eh!), cuore a sinistra portafogli a destra, prendi i soldi di Berlusconi, vai nelle periferie invece dei salotti, e così via. Evidentemente Porro si sentiva a disagio nel difendere il diritto del giornalismo a fare domande, e il diritto d’informazione in generale, e ha pensato bene di usare Laura Boldrini come insulto - immagino non abbia in programma di invitarla in trasmissione, o che se lei rifiutasse scriverebbe un post dal titolo “La solita Boldrini”.

Come se ciò non bastasse, Murgia per questo rifiuto deve passare sotto la gogna del bullismo di Stato, a mezzo profilo Twitter del Ministro dell’interno. Naturalmente a Salvini tutto questo non interessa particolarmente, la polemica Porro-Murgia fornisce al suo staff una nuova “radical chic” da esibire ai fan, e tanto gli basta. Solo che Michela Murgia risponde per le rime a Salvini, in un post su Facebook che ha realizzato un numero davvero impressionante di condivisioni, commenti e reazioni:

Ieri il ministro degli interni Matteo Salvini ha pensato bene di fare l’ennesimo tweet contro di me virgolettandomi come...

Pubblicato da Michela Murgia su Mercoledì 17 aprile 2019

Il frame di Salvini è il solito: “gli intellettuali sono radical chic lontani dal paese reale (a differenza mia)”. Murgia attacca la falsa equivalenza “Salvini = paese reale”, e denuda quel vittimismo di rappresentanza di Salvini (lui pensa alla povera gente, lui pensa ai terremotati, agli italiani onesti, eccetera), facendo presente alcune contraddizioni tra la propaganda e la realtà attraverso la propria storia professionale e il confronto con quella di Salvini:

Lei invece prendeva la tessera giornalistica facendo pratica alla Padania e a radio Padania, testate di partito che si reggevano sui finanziamenti pubblici, ai quali io non ho nulla in contrario, ma contro i quali lei ha invece costruito la sua retorica. [...] Nello stesso periodo lei a Bruxelles bruciava un quarto delle sedute del parlamento ed era già lo zimbello dei parlamentari stranieri, che nelle legislature successive le avrebbero poi detto in faccia quanto era fannullone. Io sono a favore della retribuzione dei politici, purché facciano quello per cui li paghiamo. [...] Dal 2007 in poi ho vissuto delle mie parole, della fiducia degli editori e di quella dei lettori e delle lettrici. Negli stessi anni lei ha campato esclusivamente di rappresentanza politica e da dirigente in un partito da dove – tra il 2011 e il 2017 – sono spariti 49 milioni di soldi pubblici senza lasciare traccia. [...] Tra noi due è lei quello che non sa di cosa parla quando parla di vita vera, di problemi e di lavoro, dato che passa gran tempo a scaldare la sedia negli studi televisivi, travestirsi da esponente delle forze dell’ordine e far selfie per i social network a dispetto del delicatissimo incarico che ricopre a spese dei contribuenti. Lasci stare il telefonino e si metta finalmente a fare il ministro, invece che l’assaggiatore alle sagre. Io lavoro da quando avevo 14 anni e non mi faccio dare lezioni di realtà da un uomo che è salito su una ruspa in vita sua solo quando ha avuto davanti una telecamera.

Tra gli apprezzamenti, sono state rivolte varie critiche alla Murgia per il contenuto della replica - è opportuno tirare fuori il proprio storico e farne materia politica? Nella replica non si rafforza una retorica anti-casta che vede l’attività politica come un male? Non si cede così a quella polarizzazione che fa il gioco di Salvini?

Questo focalizzare l’attenzione su contenuto e modalità del dissenso, e quindi sulle parole di Michela Murgia, ha dei tratti in comune con episodi recenti, sebbene riguardanti contesti diversi. Mi riferisco per esempio al 15enne di Torre Maura che risponde al militante di CasaPound, o alla mobilitazione Verona città transfemminista organizzata da Non una di meno in risposta al World congress of families, o all’attivista Greta Thunberg e alla mobilitazione contro il riscaldamento globale.

Una parte non indifferente del dibattito, anche in questi casi ha visto un grado variabile di stigmatizzazione delle modalità di dissenso. Per il 15enne abbiamo avuto Elena Stancanelli che si è allarmata per il dialetto del ragazzo - e polemiche a seguire. Per Verona città transfemminista si è parlato di attacco alla libertà di espressione e di censura - con Cruciani, classe ‘66, che interviene congresso per difendere la libertà di parola dei presenti, proprio lui che su molti temi è agli antipodi, tanto che ricorda sue precoci lotte per l’aborto (legge del 1977, referendum del 1981) e il divorzio (legge del 1970, referendum del 1974).

Senza contare le reazioni all’attivista Greta Thunberg, tra il trolling a mezzo stampa di Libero, gli insulti e i tutorial non richiesti su “come si protesta per evitare la catastrofe ambientale”, o le argomentazioni alla “eh, però anche chi protesta inquina”.

Simili discussioni, ancora prima degli argomenti che mettono in ballo, hanno due caratteristiche che si presentano a prescindere dalle intenzioni dei partecipanti - anche solo come effetto collaterale. La prima è la rimozione dal dibattito del contesto di partenza, che passa in secondo piano. Vediamo i contesti:

  1. Nel caso di Torre Maura, l’abbandono delle periferie e i tentativi dell’estrema destra di soffiare sul fuoco per ragioni di consenso, mimetizzandosi nelle sacche di malcotento e compiendo o promuovendo azioni criminali ed eversive. Dove la retorica “prima gli italiani” si è mostrata nella sua strumentalità nell’episodio della distruzione dei panini per i rom: se il problema sono gli italiani che muoiono di fame, quel cibo è andato perso, non redistribuito. Ma, a parte ciò, impedire attivamente rifornimenti alimentari è semplicemente disumano.
  2. Nel caso di Verona città transfemminista, la manifestazione rispondeva al World Congress of Families, la cui agenda politica spazia dalla criminalizzazione di determinati gruppi sociali alla repressione dei loro diritti. Agenda portata avanti da una lobby internazionale che, trincerandosi dietro la retorica dei “poteri forti” e del “pensiero unico dominante”, si affida a posizioni antiscientifiche o su un testo religioso, la Bibbia, o su un fantomatico “diritto naturale”. Curiosamente, chi ha parlato di censura non ha avuto molto da ridire per i casi di giornalisti - tra cui alcuni di testate straniere - cui è stato negato l’accredito, o che venivano seguiti dalla sicurezza quando provavano a intervistare i partecipanti.
  3. Nel caso della mobilitazione Fridays for future,  il problema del riscaldamento globale, i cui effetti catastrofici colpiranno tutti noi, a prescindere dalla quantità di rifiuti che ricicliamo o dalle modalità di viaggio di Greta Thunberg.
  4. Nel caso di Michela Murgia, il problema politico e istituzionale di un ministro - che tra le sue mansioni è responsabile delle attività di polizia e prefetture - quotidianamente dedito a minacciare l’incolumità dei cittadini attraverso l’hate speech, grazie a uno staff che non è pagato da un partito, ma dai cittadini stessi.

La rimozione di contesti così gravi e di rilevanza pubblica è forse l’effetto più problematico di queste discussioni. Metaforicamente, è come se di fronte a una persona che si difende dall’aggressione premeditata di dieci persone, il nostro istinto sia commentare quanto l’aggredito tira male i pugni, o quanto sia violento. Oppure come se, di fronte a un incendio doloso, di fronte a chi lancia l’allarme la nostra preoccupazione fosse recensire le sue grida, intanto che però l’incendio continua a estendersi.

La seconda caratteristica è la sovraresponsabilizzazione. Se l’accountability è un elemento chiave dei processi democratici, e la difficile traducibilità del termine dovrebbe farci riflettere su quanto il nostro sistema sia culturalmente carente a riguardo, nei casi esposti è come se l’accountability agisse al contrario. Si pretende dal singolo, o al gruppo sotto attacco, di sopperire a un quadro più complesso, che vede latitare quegli attori sociali che normalmente dovrebbero farsi carico dei problemi in questione. O si passa al microscopio qualunque gesto, parola, slogan, tweet, con una minuzia e una pignoleria che forse andrebbe diretta altrove, ossia generalmente alla parte contestata e chiamata in causa, che di fatto ha un maggior grado di responsabilità proprio per il ruolo che ricopre.

Se per esempio basta un 15enne sveglio per bucare la propaganda fascista, magari la stampa mainstream deve interrogarsi sugli errori nel coprire certi fenomeni politici, senza contare che “egregio esponente politico di estrema destra, mi permetto di dissentire dalle sue affermazioni in qualità di residente di Torre Maura” sarebbe suonato molto meno efficace e virale. La mobilitazione di Verona chiama in causa l’operato sì del governo, ma anche dell’opposizione. Magari Greta Thunberg il venerdì preferirebbe andare a scuola, e la notte vorrebbe dormire piuttosto che stare col pensiero di un pianeta a rischio distruzione - certe mobilitazioni nascono da colpevoli e sciagurati buchi di agenda setting. Infine Michela Murgia non ha bisogno di un nemico da additare per vendere libri, al limite le bastano un bravo agente e una casa editrice efficiente. O comunque è difficile abbia così tanto tempo e così tanta voglia per replicare a chi la aggredisce online.

Circa la sovraresponsabilizzazione, merita un discorso a parte un argomento specifico, quella di dare visibilità attraverso il dissenso, che è particolarmente odioso e tossico. Succede molto spesso che si dica “ah, a parlarne gli dai visibilità, bastava ignorare la cosa e nessuno se ne sarebbe accorto”, o “continua ad attaccare Salvini, così ce lo teniamo altri vent’anni”. Ma chi dissente lo fa proprio perché ritiene che vada tutelato uno spazio politico sotto attacco, e perché ritiene che quello spazio e quell’attacco abbiano una rilevanza pubblica. Questo tipo di argomentazione è quindi una potenziale forma di victim blaming: non si nega l’attacco né il ruolo avuto dall’aggressore. Invece, da una posizione in genere non direttamente coinvolta, si dice in sostanza “oh, se pigli e stai zitto finisce prima”, o persino “se stavi zitto magari non ti attaccava”. Quanto poi sia pretestuosa questa argomentazione, lo si è visto in particolare per Verona città transfemminista e nella replica di Michela Murgia.

L’attenzione prodotta sul World congress of families, le pressioni e la mobilitazione, per esempio, hanno chiamato direttamente in causa la partecipazione tra i relatori di Antonio Tajani, Presidente del Parlamento europeo. Tajani è in seguito scomparso dall’elenco speaker ma non dalle locandine, ed è ovvio che la sua presenza avrebbe rappresentato un riconoscimento politico alle istanze del Wcf. Tra gli stessi relatori ci sono state delle mezze marce indietro: Luca Zaia, Presidente della regione Veneto, ha bollato l’omofobia come patologia, mentre lo stesso Matteo Salvini ci ha tenuto a precisare che la 194 non si tocca. Vincenzo Spadafora, sottosegretario alla Presidenza del consiglio, a congresso finito ha colto l’occasione per archiviare il Ddl Pillon sull’affido condiviso. Una mossa più tattica che effettiva, proprio per deviare l’attenzione da quell’agenda politica, anche perché l’affido condiviso è tra i punti del Contratto di governo. Tuttavia è opportuno chiedersi: per contrastare il provvedimento è ora opportuno dargli visibilità o no? Ignorare l’iter parlamentare a chi gioverebbe?

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Nel caso di Michela Murgia, appare francamente assurdo che, nello scrivere la risposta a un tentativo di intimidazione, un cittadino - a prescindere dalla popolarità - debba porsi la domanda “un momento, se scrivo così sposto voti a favore del Ministro dell'interno?”. Evitare di spostare voti pro-Salvini è in primo luogo responsabilità dei partiti di opposizione, in caso. Per il resto, il bullismo di Stato ha già creato qualche problema a Salvini e al suo staff, che zitti zitti incassano le figuracce senza dare troppo nell’occhio. È successo che scomparissero dalla pagina Facebook post di dileggio in seguito alla segnalazione di foto usate senza autorizzazione - e anche qui c’è un problema politico e istituzionale che chiama in causa il ruolo di governo di Salvini. Inoltre, la “Bestia” tende a mollare il bersaglio, quando l’engagement si ritorce contro a mo' di boomerang lanciato con troppa foga. Si è visto con Laura Boldrini, da quando ha iniziato a cambiare strategia di comunicazione e a replicare con l’hashtag #maquandolavori, o perché semplicemente da un ministro ci si aspetta capacità di governance, e non che passi il suo tempo a insultare esponenti dell’opposizione da cui, a furia di insistere, sembra ossessionato. C’è da scommettere insomma che per un po’ Salvini eviterà di annoverare Michela Murgia tra gli “intellettuali radical-chic”.

Certo, la discussione sui mezzi con cui si dissente è un momento importante, perché evita la tentazione del dogmatismo e perché se un avversario ha i nostri stessi mezzi alla fine le differenze sono solo esteriori. Ma un conto è fare queste riflessioni a freddo - a bocce ferme, come si suol dire - un conto è farlo quando uno specifico scontro si impone all’attenzione dell’opinione pubblica. Ovvero quando in quello scontro si manifestano dinamiche aggressive che, se rivolte direttamente contro di noi, magari ci vedrebbero bisognosi di più solidarietà e meno voti in pagella. Anche perché i contesti presi in esame mostrano una volontà strategica di reprimere il dissenso, e retrocedere nella metadiscussione presta il fianco a questa strategia.

Immagine in anteprima via La Stampa

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