Da Tesla a ExxonMobil: come le grandi multinazionali stanno erodendo la democrazia
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Nel 1970, il futuro Premio Nobel per l’Economia Milton Friedman scrisse un editoriale sul The New York Times. Nel suo pezzo, Friedman sostiene che il compito fondamentale di chi dirige un’azienda non sia rispondere ai bisogni della società o perseguire obiettivi di natura sociale o ambientale, quanto il massimo ritorno finanziario per coloro che possiedono l'azienda. Friedman, ovviamente, ammette che ci sono limiti legali ed etici che le imprese devono rispettare. Le aziende devono rispettare leggi e regolamenti, e non devono ricorrere a pratiche di dubbia legalità o ingannevoli. Tuttavia, se restano all'interno di queste regole, l’unico obiettivo deve essere quello di massimizzare i profitti.
Da quando Friedman ha scritto quell’articolo, le cose sono cambiate. Le aziende hanno raggiunto dimensioni mai viste prima, con la nascita di colossi come Amazon, Apple e le altre big tech; la quota salari - cioè la percentuale di reddito nazionale che va a retribuire il fattore lavoro - è in declino; per molte persone anche della classe media il lavoro è diventato sempre meno soddisfacente e retribuito, con prospettive di deterioramento dovute all’automazione; la crisi climatica, alimentata anche dalle pratiche delle grandi aziende, porta con sé conseguenze nefaste sulle persone più povere e sulla classe media; i partiti populisti e di destra radicale hanno preso piede nelle nostre democrazie anche grazie alla diffusione di fake news e ingerenze, con conseguenze anche sulla polarizzazione che affligge il dibattito politico, dove il ruolo dei social media e dei media tradizionali è cruciale.
D’altronde gli indicatori dello stato di salute delle democrazie, come quello redatto dal The Economist, mostrano che una crisi è in atto. Anche solo i segnali degli ultimi mesi sono eloquenti: la Francia è in una situazione di instabilità politica inedita per la Quinta repubblica, con la destra radicale del Rassemblement National che gioca un ruolo di primo piano nel governo e attende con ansia le prossime presidenziali; la Germania si trova invece con un’ascesa costante dell’AfD, complice anche la crisi della coalizione semaforo che in questi anni non ha saputo costruire consenso attorno alla sua proposta politica; gli Stati Uniti rischiano un ritorno di Donald Trump con una retorica più aggressiva rispetto a quanto visto sia nel 2016 sia nel 2020. Per non parlare di altri segnali, come nuovi fenomeni di repressione del dissenso e di controllo.
Questa situazione estremamente delicata per le democrazie è causata, anche, dallo strapotere delle imprese che, nel tentativo appunto di massimizzare i loro profitti, hanno innescato degli effetti a cascata che erodono, giorno dopo giorno, il supporto verso la democrazia e quindi il suo corretto funzionamento, come rileva anche un report pubblicato qualche giorno fa dalla International Trade Union Confederation (ITUC), la più grande confederazione sindacale al mondo.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Barare seguendo le regole: il caso dell’elusione fiscale
Il primo tema su cui vale la pena porre l’accento è quello fiscale, ovvero su come le aziende, per aumentare i loro profitti, sfruttino il sistema fiscale implementato dagli Stati per raccogliere le imposte e le tasse. È necessario fare una premessa. In Italia si parla spesso del problema dell’evasione fiscale che, secondo i report del Ministero dell’Economia e delle Finanze, vale tra i 90 e i 100 miliardi l’anno. Si tratta di un tema importante, ma che non riguarda le grandi imprese: l’evasione fiscale infatti è concentrata su vendita al dettaglio e lavoratori autonomi, dove è possibile nascondere le transazioni.
Nel caso delle grandi imprese le cose si fanno più delicate: non siamo più nel campo dell’evasione fiscale, quanto dell’elusione fiscale. Si tratta di un fenomeno in cui le aziende sfruttano lacune normative, trattati fiscali favorevoli e strutture societarie complesse per ridurre il carico fiscale che dovrebbero pagare allo stato. Le grandi aziende sono presenti in vari paesi e possono sfruttare questa caratteristica per sfuggire a sistemi fiscali più rigidi e sfruttare invece vari paradisi fiscali in cui la tassazione sulle imprese è molto bassa.
Secondo i dati dell’Eu Tax Observatory (un istituto di ricerca indipendente dedicato allo studio dell'evasione e dell'elusione fiscale nell'Unione Europea), questo fenomeno in Europa porta a una perdita del 20% del gettito, una percentuale particolarmente alta. Eppure anche in seno al vecchio continente vi sono paesi che possono essere ascritti a Paradisi Fiscali, cioè regioni in cui la tassazione per le imprese è particolarmente. Un esempio su tutti è quello dell’Irlanda che, in questi ultimi anni, ha visto il suo gettito da imposte e tasse su imprese aumentare notevolmente, con il 90% proveniente da aziende estere.
Nel corso degli ultimi anni gli Stati stanno cercando di porre un freno a questa pratica. L’esempio paradigmatico riguarda proprio la diatriba tra l’Europa e l’Irlanda che ha permesso ad Apple di godere di una tassazione fino allo 0,005 per cento sui profitti provenienti da varie regioni del mondo. Questa strategia avrebbe minacciato il mercato unico, secondo la Commissione Europea. Dopo una lunga diatriba legale, la Corte di Giustizia dell’UE ha stabilito che la società americana dovrà versare nelle casse dell’Irlanda, che continua appunto a essere un paradiso fiscale, 13 miliardi di euro per compensare le tasse dovute tra il 2003 e il 2013. Quanto di più sorprendente è che fin dall’inizio della causa il paese europeo ha preso le parti della multinazionale di Cupertino, nella paura che la sentenza potesse incentivare anche altre multinazionali che sfruttano i suoi regimi fiscali ad abbandonare il paese.
Ciò mostra un altro problema: al netto delle necessità di bilancio, quello che innesca una situazione di questo tipo è una corsa al ribasso per la tassazione delle grandi imprese, lasciando indietro gli Stati che non possono permetterselo.
Questa pratica non solo danneggia la collettività, ma in senso lato danneggia anche l’impresa stessa. Oltre ad altri strumenti come il ricorso al debito o i profitti di aziende statali, sono proprio imposte e tasse che garantiscono l’erogazione di beni pubblici cruciali per la crescita economica di un paese. Questo significa che se determinate aziende decidono di spostare la loro sede fiscale, quei soldi non potranno essere utilizzati per infrastrutture, scuole e sanità. Eppure senza un tessuto infrastrutturale in grado di collegare le varie zone del paese, le imprese faranno più fatica a consegnare i loro prodotti incorrendo in dei costi - di tempo, per fare un esempio - maggiori. Lo stesso vale per l’istruzione e per la sanità: è proprio una forza lavoro che ha accumulato capitale umano e allo stesso tempo è in salute che permette a queste imprese di funzionare e di poter fare profitti. Il deterioramento dei servizi pubblici ha poi dei risvolti politici. L’insoddisfazione della popolazione può portare a un aumento dei consensi per i partiti o istanze populisti, come dimostra il caso Brexit. Durante la campagna referendaria, infatti, uno degli slogan più in voga del Vote Leave era proprio che fuoriuscire dall’Europa avrebbe garantito maggiori risorse per l’NHS, cioè il Sistema Sanitario Britannico. Ovviamente, quando Johnson e i sostenitori della Brexit sono arrivati a Nr. 10 Downing Street, la situazione non ha fatto altro che peggiorare.
La tendenza al monopolio: dal potere economico a quello politico
Il secondo aspetto è quello della tendenza al monopolio e oligopolio. Uno studio accademico ha preso in considerazione le aziende americane tra il 1955 e il 2016 andando a misurare l’aumento del mark up, cioè la differenza tra il costo di produzione di un prodotto e il suo prezzo finale di vendita al consumatore. L’andamento dei mark up rappresenta un buon indicatore della tendenza all’oligopolio/monopolio. I risultati dello studio mostrano che dopo una fase di stallo tra il 1955 e il 1980, i mark up sono andati aumentando, con una crescita concentrata in particolare nella coda della distribuzione, cioè nelle aziende di più grandi dimensioni, per dirla in modo semplice. Secondo un report del Brooking Institute, questa tendenza è destinata a peggiorare a causa delle nuove tecnologie. Tra i motivi c’è il cosiddetto effetto network. Questo si verifica quando un servizio diventa più appetibile con l’aumentare del numero degli utenti: più persone lo utilizzano, più il suo valore cresce per tutti.
Un esempio è fornito non solo dai social media, ma anche dai provider di musica e intrattenimento. Se utilizzo Spotify, ad esempio, e il numero di utenti è molto basso, le raccomandazioni di Spotify non soddisfano i miei gusti perché ha a sua disposizione un numero limitato di dati. Al contrario, quando il numero di utenti aumenta, attraverso degli algoritmi che riescono a raggruppare utenti con gusti simili, la piattaforma è in grado di fornire raccomandazioni più accurate, garantendo un’esperienza migliore per l’ascoltatore. Poiché questo meccanismo dipende dal numero di utenti che lo utilizzano, questo porta a dinamiche che distorcono la concorrenza e creano barriere all’entrata.
La discussione sulle implicazioni economiche della tendenza all’oligopolio o monopolio sono enormi, ma in questo caso è più cocente concentrarci su come il potere economico influenza altre forme di potere all’interno della società.
In primo luogo il potere di lobbying di queste aziende sulla politica - e anche sul settore accademico. Le grandi aziende possono infatti influenzare i legislatori, grazie al potere che hanno dal punto di vista economico e alle eventuali ricadute economiche che un loro disimpegno potrebbe avere. Questo porta a legislazioni che sono fatte appositamente per fornire un vantaggio alle grandi imprese - o a proteggerle da determinate spinte nella società - andando quindi ad aumentare ancora di più il potere economico.
Uno dei casi più eclatanti è quello degli Uber Files, migliaia di documenti interni trapelati a giornalisti, che hanno rivelato tattiche aggressive da parte di Uber per consolidare la propria presenza nei mercati internazionali tra il 2013 e il 2017. L’azienda avrebbe infatti fatto pressione su vari governi, tra cui quello francese. La corrispondenza tra Uber e l'allora ministro dell'Economia durante il governo Valls Emmanuel Macron, poi diventato Presidente della Repubblica, ha suscitato particolare indignazione, tanto da spingere le opposizioni a chiarimenti. Secondo i documenti emersi, Macron si sarebbe impegnato a sostenere Uber contro le resistenze dei sindacati dei tassisti, negoziando direttamente con i leader dell'azienda.
Secondo le mail, anche economisti sarebbero stati coinvolti in questo scandalo tra cui il compianto Alan Krueger, ex Consigliere Economico alla Casa Bianca durante l’Amministrazione Obama.
Un altro caso riguarda la crisi climatica. Secondo i dati del Carbon Majors Database, sono 57 le imprese che da sole sono responsabili dell’80% delle emissioni di CO2 dal 2016. Tra queste ci sono i nomi di imprese importanti nel campo dell’energia come ExxonMobil, Shell, BP. Ma questo impatto devastante sulla crisi climatica è mediato dall’attività di lobbying che queste imprese fanno e dal loro controllo dei media. Un esempio recente è fornito da un’inchiesta del The Guardian. Secondo il giornale britannico, le grandi compagnie petrolifere avrebbero fatto pressione e lavorato dietro le quinte assieme ai legislatori di alcuni Stati degli USA per inasprire le pene per coloro che protestano per la crisi climatica.
Inoltre, sono gli stessi dirigenti delle aziende inquinanti a detenere quote delle compagnie, proseguendo quindi con il “business as usual” rispetto agli investimenti necessari per la transizione ecologica.
Il secondo aspetta riguarda invece gli equilibri nel mercato del lavoro, in particolare nel rapporto coi sindacati. L’esempio svedese è paradigmatico: il sistema che ha portato a una prosperità diffusa ed egualitaria nella Svezia del dopoguerra si basava appunto su una forte presenza dei sindacati che, grazie al loro potere contrattuale, potevano garantire alti salari e tutele nei confronti dei lavoratori.
Nella situazione odierna, invece, i sindacati sono sempre più deboli. Tra i motivi di questa debolezza, ci sono anche le pressioni fatte da parte delle grandi imprese contro la sindacalizzazione dei propri lavoratori. Negli Stati Uniti, i tentativi di sindacalizzare i magazzini Amazon da parte dei lavoratori sono stati ostacolati con pratiche illegali e intimidatorie, proiettando ad esempio slogan anti-sindacali attraverso gli schermi dei computer e impedendo ai lavoratori di parlare del tema durante l’orario di lavoro. Non è un caso: da anni infatti Amazon viene accusata di condizioni di lavoro insostenibili per i lavoratori che tendono a licenziarsi anche in posti dove le opportunità di lavoro sono risibili.
Il problema non riguarda solo Amazon. Anche Elon Musk ha dichiarato che la sindacalizzazione crea un sistema di “servi e signori” mentre le indagini mostrano come sia i ritmi di lavoro sia le condizioni a cui sono sottoposti i lavoratori delle sue aziende siano insostenibili.
Questi tentativi di ostacolare i sindacati hanno appunto delle conseguenze non trascurabili dal punto di vista sia della disuguaglianza salariale sia del benessere dei lavoratori. Mentre la ricerca sottolinea l’importanza che hanno i sindacati nel negoziare salari più elevati riducendo le disuguaglianze, oggi la situazione è profondamente cambiata: secondo i dati Oxfam, nelle 350 più grandi imprese statunitensi la retribuzione di un amministratore delegato è aumentata in media del 1200% tra il 1978 e il 2022, superando il tasso di aumento dei salari.
Il controllo sui media: social e no
Un elemento centrale nella crescente influenza delle grandi aziende e nella conseguente erosione delle democrazie è il controllo che queste esercitano sui media, sia quelli tradizionali sia i social media. In particolare, i social network hanno radicalmente trasformato il modo in cui l'informazione viene prodotta, diffusa e consumata. Piattaforme come Meta, TikTok, Twitter (ora X), YouTube e Instagram hanno un'influenza enorme sul discorso pubblico globale, e la concentrazione del potere nelle mani di poche multinazionali che gestiscono queste piattaforme rappresenta una minaccia diretta alla pluralità dell'informazione e alla qualità del dibattito democratico.
Uno degli aspetti più preoccupanti è che i social media non si limitano a diffondere informazioni: amplificano divisioni politiche e sociali. Questo effetto è dovuto principalmente agli algoritmi di raccomandazione che privilegiano contenuti emozionali, polarizzanti o estremi, poiché tendono a generare maggiori interazioni. I ricercatori hanno osservato che piattaforme come Facebook tendevano a privilegiare i post che provocano rabbia: l'algoritmo assegna un peso più elevato alle reazioni di rabbia rispetto ai "like", aumentando così la diffusione di contenuti controversi. Anche i media tradizionali hanno alimentato questa dinamica. Nel libro Network Propaganda (2018), i ricercatori del Berkman Klein Center hanno analizzato l'ecosistema mediatico statunitense, evidenziando un'asimmetria: mentre i media progressisti rimangono più vicini a fonti centriste, quelli di destra, come Fox News, adottano un approccio più estremista e fazioso.
Uno studio sulle proteste negli Stati Uniti, inoltre, supporta la tesi dell'“amplificazione della destra”, secondo la quale l'infrastruttura sociale e tecnologica dei social media conferirebbe una maggiore visibilità ai contenuti conservatori.
Nonostante gli sforzi dichiarati per combattere la disinformazione, le grandi aziende tecnologiche che gestiscono queste piattaforme, come Meta e X, hanno spesso dimostrato una certa reticenza a prendere misure efficaci. In molti casi, infatti, non hanno alcun incentivo economico a farlo: la viralità di contenuti controversi, falsi o divisivi genera più traffico, il che si traduce in maggiori introiti pubblicitari per le piattaforme. O, in altri casi, a utilizzare le piattaforme per determinati scopi politici. Il caso paradigmatico è l’acquisizione del social Twitter, ora X, da parte di Elon Musk. Questa acquisizione ha sollevato preoccupazioni per l'indipendenza e la trasparenza della piattaforma, soprattutto alla luce del suo approccio permissivo verso la moderazione dei contenuti. La visione di Musk, che promuove la "libertà di parola assoluta", ha spinto molti a temere un aumento della disinformazione e della retorica violenta sulla piattaforma. Come mostrano i dati, infatti, l’utilizzo di termini offensivi è aumentato considerevolmente dopo l’acquisizione, portando però a una fuga degli investitori. Musk non ha poi nascosto le sue simpatie per la destra, arrivando a lanciare la candidatura, poi fallita, di Ronan De Santis alle primarie repubblicane proprio con uno Space di Twitter.
Un altro esempio di questa tendenza si è verificato con l'acquisizione del The Washington Post da parte di Jeff Bezos, fondatore di Amazon, nel 2013. Sebbene Bezos abbia affermato di non interferire con le linee editoriali del giornale, l'acquisizione ha sollevato interrogativi sul crescente controllo delle élite tecnologiche sui media tradizionali. Se per anni Bezos è rimasto abbastanza in disparte riguardo le questioni politiche, nel corso degli ultimi anni è intervenuto maggiormente, innescando ad esempio uno scambio acceso con la Casa Bianca sul ruolo dei profitti delle aziende nella dinamica dell’inflazione e sull’aumento delle imposte, tanto che recentemente il The Washington Post - a ragione o torto - è tornato sull’argomento.
L’acquisizione di media da parte di miliardari non è un fenomeno esclusivo degli Stati Uniti. In Europa - in particolare nel Regno Unito e in Italia - grandi gruppi economici e imprenditori con legami stretti con il potere politico detengono una quota significativa dei principali giornali e canali televisivi: basti pensare al caso Berlusconi in Italia o all’impero creato da Murdoch. Ciò porta a un ulteriore indebolimento del pluralismo. In una situazione di legami sempre più stretti tra il mondo dell’informazione e quello dell’economia, il ruolo dei media sembra scivolare sempre di più verso l’essere una cassa di risonanza per il padrone di turno, più che una fonte di informazione.
Nessuna azienda è un’isola
Quanto detto finora non deve far pensare che l’obiettivo di un’impresa non sia, effettivamente, fare profitti. Al di là dell’eterogeneità che si può trovare, il fine ultimo di un’azienda resta quello - a dire il vero un po’ generico - di vendere i propri prodotti. Non solo: le grandi aziende hanno lati positivi. Sappiamo che sono le grandi aziende a poter puntare di più sull’innovazione e quindi ad avere un maggior impatto sia sulla crescita economica sia sul benessere delle persone. Inoltre, proprio in virtù di questo, sono sempre le grandi aziende a poter fornire, in linea teorica, posizioni e salari competitivi per la forza lavoro.
Sulle grandi aziende è quindi necessario trovare un fragile equilibrio che tenga conto sia dei loro effetti benefici sia del rischio che l’accentramento di potere economico e politico provoca. Ma non tocca alle aziende trovare questo equilibrio, quanto alla politica che può e deve intervenire in maniera più ambiziosa, orientando attraverso i suoi strumenti gli incentivi al funzionamento delle aziende e in generale dei mercati.
Per fare un esempio concreto, recentemente un lavoro di studiose italiane dell’Università di Torino ha evidenziato come il mercato abbia cominciato a ritenere rischioso investire in aziende inquinanti dopo gli accordi di Parigi. Questo, spiegano le ricercatrici, è dovuto alle aspettative degli agenti riguardo l’impegno dei legislatori nel contrastare la crisi climatica. La politica e l’opinione pubblica quindi possono influenzare i comportamenti delle aziende e dei mercati.
Anche in questo caso è necessario non essere troppo ottimisti. Abbiamo visto come le grandi imprese possono esercitare pressione sui legislatori attraverso attività di lobbying e sulla società attraverso social media e media tradizionali. Come riuscire ad arginare questi fenomeni sarà uno dei problemi di cui discutere se vogliamo salvaguardare i processi democratici.
Immagine in anteprima: Mike Mozart via Flickr