Mozambico, il paese che combatteva la dittatura portoghese si arrende all’ISIS e alle multinazionali del gas
7 min letturaQuello che sta accadendo in Mozambico è la punta di un iceberg. E così, come spesso accade, la realtà è più complessa del singolo o dei singoli eventi. E per cercare di capirla bisogna andare verso il fondo. Negli ultimi giorni sono arrivate notizie terrificanti da questo paese: attacchi jihadisti a Palma nella provincia di Cabo Delgado, civili e anche bambini uccisi brutalmente, gente che scappa per trovare rifugio dalla furia mortale di uomini armati che non mostrano pietà per nessuno. Tutto questo non accade all’improvviso.
È dal 2017 che nel Nord del paese sono emersi gruppi legati all’ISIS. Scorribande, uccisioni, attacchi a convogli. Ma per quanto la cronaca nuda e cruda si soffermi sulla presenza del gruppo terroristico in realtà il paese è da tempo attraversato da conflitti e contrasti. E i maggiori protagonisti sono i due principali partiti, Frelimo e Renamo. E non da ora, ma dai tempi della lotta per l’indipendenza dal Portogallo. I paesi lusofoni africani sono stati gli ultimi a liberarsi del giogo coloniale, tutti tra il 1974 e il 1975 e tutti come risultato di quella che venne chiamata Rivoluzione dei Garofani, che portò – il 25 aprile 1974 – alla caduta della dittatura, quella di Salazar prima e quella di Marcelo Caetano dopo. Un sollevamento popolare che era stato sostenuto e anche animato dalle forze di liberazione nazionale dei paesi colonizzati: Mozambico, appunto, Guinea Bissau, Capo Verde, Angola. Questi e altri paesi lusofoni da anni stavano tenendo impegnate le truppe portoghesi sui loro territori e nello stesso tempo stavano contribuendo a far crescere la lotta per la democrazia in Portogallo. Erano gli anni dell’entusiasmo e delle passioni. Era nato nel 1962 il Frelimo, Fronte di liberazione del Mozambico, costituito da mozambicani in esilio, costretti a fuggire per aver cercato di rovesciare il governo portoghese in terra africana. Un movimento che fin da subito venne supportato non solo dai paesi comunisti ma anche da molti governi europei. Nonostante le 70.000 truppe portoghesi presenti all’epoca in Mozambico, la guerriglia del Frelimo, l’unità tra i suoi componenti e il sostegno della popolazione locale e della società civile all’estero giocarono la parte del leone. Donne, uomini, ma anche volontari e combattenti provenienti da altri paesi. Tutti a lottare insieme con un unico obiettivo: la libertà, l’indipendenza. Fu un momento di gioia quando Samora Machel, capo del Movimento, venne dichiarato primo presidente di uno Stato indipendente, Repubblica popolare del Mozambico. Era il 25 giugno 1975. Il momento di abbandonare le armi e cominciare a governare.
Ma quelle armi furono solo messe a riposo. E solo per poco. In quegli anni nasceva anche il Renamo (Resistenza Nazionale Mozambicana), gruppo anticomunista, costituito come sorta di riscatto di quella classe conservatrice portoghese che alla proclamazione dell’indipendenza aveva dovuto scappare in tutta fretta (spesso distruggendo prima infrastrutture e beni) per trovare rifugio in paesi limitrofi a dominanza bianca e dove vigeva il regime dell’apartheid, Sudafrica e Rodesia del Sud (attuale Zimbabwe). Non fu difficile reclutare persone scontente, contadini (quelli a cui non piaceva la politica di nazionalizzazione messa in atto dal neonato governo) per provocare quella che si sarebbe trasformata presto in guerra civile. Una guerra che durò dal 1975 al 1992, provocò 5 milioni di sfollati e determinò l’aumento del tasso di povertà. Il conflitto civile trovò una soluzione diplomatica in Italia con un accordo di cessate il fuoco, firmato dai leader del Frelimo e del Renamo, grazie anche alla mediazione della Comunità di Sant’Egidio. Accordo di pace annullato nel 2013 da Renamo che accusava il governo di aver lanciato attacchi ad alcune sue basi. Insomma, se Frelimo continua ad essere a capo della scena politica del Mozambico ininterrottamente dal 1975 – dopo Machel, Joaquim Chissano fu presidente dal 1986 al 2005, seguito dai due mandati di Armando Guebuza e, dal 2015, dalla presidenza di Filipe Nyusi – il paese non ha mai veramente vissuto la pace. La violenza e l'instabilità hanno continuato a regnare frenando fortemente lo sviluppo economico della nazione.
Basta scorrere il database dell’International Crisis Group per verificare la continua alternanza di azioni di guerriglia, incarcerazioni, rapimenti, uccisioni di civili, dialoghi interrotti, attacchi da una parte e dall’altra. Fino ad arrivare al 2019 quando finalmente il terreno di guerra lascia il posto al tavolo delle mediazioni e ad un accordo di pace che punta al disarmo e al dialogo. Accordo firmato (e filmato) in un luogo simbolo, il Gorongosa National Park, per anni mutilato della sua fauna a causa del bracconaggio e devastato dalle numerose battaglie e attacchi in quest’area naturalistica che copre 4.067 chilometri quadrati. L’anno prima emendamenti alla Costituzione avevano in parte soddisfatto le richieste dei leader del Renamo, riguardanti la decentralizzazione del potere. Decentralizzare e dare maggiori poteri alle province voleva e vuol dire dare una maggiore decisionalità sulle risorse, il loro uso, le contrattazioni con investitori esteri. È sulle risorse che va puntata l’attenzione, quelle risorse che avrebbero potuto creare quell’equità e giustizia sociale alla base delle lotte socialiste, ma che invece si sono rivelate esattamente il contrario.
Cabo Delgado, la provincia che ha visto aumentare negli anni la presenza di gruppi armati terroristici, ha la più alta riserva di gas naturale scoperta negli ultimi anni. Ed è oggi sede dei tre più grandi progetti di sfruttamento di questa risorsa in Africa: il progetto Mozambico LNG della francese Total, del valore di 20 miliardi di dollari, il Coral FLNG Project dell’italiana ENI e la statunitense ExxonMobil del valore di 4,7 miliardi di dollari e il Rovuma LNG Project in collaborazione tra ExxonMobil, ENI e la China National Petroleum Corporation per un valore di 30 miliardi di dollari. Ma, come spesso accade in questi paesi, nonostante i miliardi di investimenti che questi contratti hanno portato, la gente del luogo non ne ha beneficiato. Al contrario sia il territorio che i suoi abitanti hanno visto la loro vita cambiare – e peggiorare – con l'arrivo dell'industria del gas. Oltre 550 famiglie sono state costrette a lasciare le loro case, le società transnazionali si sono impossessate delle loro terre. Alcuni sono stati ricompensati, ma con denaro che non vale la perdita. “Offerte” – appena un decimo delle dimensioni degli appezzamenti “requisiti” - che non hanno potuto rifiutare. Interi villaggi sono stati rasi al suolo, bloccate vie d’accesso al mare – altra risorsa fondamentale in questo paese che affaccia sull’Oceano Indiano. E nonostante il territorio stia fruttando miliardi di dollari a investitori esteri sul fronte dei combustibili fossili, gran parte della popolazione non ha accesso all’elettricità. Certo passi in avanti sono stati fatti nel corso degli anni, nel settore dell’educazione e nella riduzione della povertà, ma ancora oggi oltre la metà della popolazione mozambicana (31 milioni di abitanti) vive in stato di povertà. Due terzi della popolazione vive nelle aree rurali, ricche a livello di risorse e di capacità produttiva ma prive di servizi.
A peggiorare la situazione sono stati gli eventi atmosferici. Nel 2019 due cicloni tropicali hanno colpito il paese a sole sei settimane di distanza l’uno dall’altro lasciando 1.85 milioni di persone in stato di bisogno e di assistenza umanitaria. Furono così tante le vittime che si dovette ricorrere a fosse comuni per contenerle tutte. Una situazione drammatica sul fronte ambientale (danni causati dalla natura e danni indotti dall’uomo) e dei diritti umani, a cui si è andata ad aggiungere la violenza estremista. A questa il governo centrale e i suoi militari non hanno saputo rispondere adeguatamente. Anzi, li si accusa di ulteriori abusi sulla popolazione, sui giornalisti, sugli attivisti. Chi osa criticare e denunciare, sparisce. Ad aprile dello scorso anno Ibrahimo Mbaruco, giornalista della stazione radio comunitaria di Palma, è scomparso mentre tornava a casa dal lavoro, dopo aver inviato un messaggio a un collega dicendo che alcuni soldati lo stavano molestando. Qualcuno è stato più fortunato, lasciato a terra pieno di botte o gli è stata “semplicemente” sequestrata l’attrezzatura da lavoro.
E ora, dicevamo, irrompe la violenza jihadista. A febbraio 2021 a Cabo Delgado si contavano 798 assalti, quasi 4.000 vittime e 600.000 sfollati. Ora a queste cifre si aggiungono quelle degli attacchi degli ultimi giorni. Ma da tempo la vita in quell’area del paese vale poco o niente. “La gente di Cabo Delgado è intrappolata tra le forze di sicurezza mozambicane, la milizia privata che combatte a fianco del governo e il gruppo armato di opposizione conosciuto localmente come Al Shabaab. Nessuno rispetta il diritto alla vita degli abitanti”. Sono le parole di Deprose Muchena, direttore di Amnesty International per l'Africa orientale e meridionale. L’ONG a marzo aveva rilasciato un report in cui si racconta di violenze inaudite – comprese decapitazioni – da parte del gruppo Al-Shabaab. Ma ad attaccare i civili sono anche le forze di sicurezza governative e gli uomini della Dyck Advisory Group, compagnia militare privata sudafricana che supporta il governo.
E così crescono i rumors riguardo al legame tra gli attacchi e l’industria del gas. Testimoni hanno detto che ad essere attaccate sono soprattutto le comunità che rifiutano di andarsene per lasciare posto alle imprese di sfruttamento del gas. Intanto cresce anche al-Shabaab, il cui termine significa “gioventù”. Questi giovani che sono nati in luoghi dove non ci sono occasioni, non c’è lavoro, non c’è crescita. Mentre negli anni è andata aumentando sul loro territorio la presenza di compagnie estere, di persone che viaggiano in Suv, di contractor pronti a togliere la terra a chi ancora ne possiede un po’. Non hanno affiliazioni con il gruppo somalo ma pare rivendichino una forma di Stato e amministrazione come quella dell’ISIS. Come simili sono le tecniche di violenza e di orrore che si lasciano alle spalle.
Non si può negare che sia la povertà l’elemento che rende facile il reclutamento di questi giovani. Una delle analisi più interessanti per andare su quel fondo (ricordate l’iceberg?) che permette di capire meglio cosa sta accadendo in Mozambico, è quella di Joseph Hanlon, giornalista e ricercatore. Grande esperto di Mozambico, di cui scrive dal 1978, Hanlon in un recente articolo mette in guardia contro la facilità con cui si appongono etichette a gruppi di individui e alle loro azioni. Ricorda come gli uomini della Renamo non fossero mai stati definiti “terroristi cristiani” per le atrocità compiute durante la guerra civile (molti di loro appartenevano alla Dutch Reformed Church). E fa notare l’insistenza del governo nel dichiarare la lotta ai “terroristi islamici”, nascondendo di fatto la protezione di imprese ed élite che usano le risorse del paese. Le ideologie islamiche si sono sviluppate negli anni a Cabo Delgado ma la violenza corrisponde all’incremento dell’industria estrattiva. La leadership di Frelimo – afferma ancora il giornalista statunitense – starebbe spingendo, opportunisticamente, sulla narrativa del terrorismo islamico, evitando così l’attenzione sull’avidità di chi governa, sulla marginalizzazione dei giovani (islamici ma non solo), sulla crescita di povertà e disuguaglianza.
Intanto Palma è ora una città fantasma. Le 75.000 persone che l'abitavano sono fuggite. Molte premono sul confine con la Tanzania. L'ISIS ha fatto sapere di averne preso il controllo. Ora il campo è libero. Per i giovani del gruppo terroristico - che non hanno però cittadini a cui imporre la loro legge - e per le multinazionali, l'impianto Total è a soli 10 chilometri dall'area, che non devono chiedere più ai proprietari della terra e ai contadini di farsi da parte.