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“L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio”: la nuova dimensione conflittuale dei Fridays For Future

23 Settembre 2022 15 min lettura

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“L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio”: la nuova dimensione conflittuale dei Fridays For Future

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“Col vuoto delle generazioni precedenti facciamo i conti ogni giorno. Ma se prima ci limitavamo ad accusare chi c’è stato prima di noi, ora ne comprendiamo le ragioni”. Ottavia fa parte dei Fridays For Future di Chieti, in Abruzzo. La incontro insieme a una quindicina tra ragazzi e ragazze, in occasione di un aperitivo, organizzato dallo stesso gruppo ambientalista, allo scopo di far conoscere le ragioni dello sciopero globale per il clima. L’appuntamento internazionale, voluto dal movimento di giustizia climatica noto anche con l’acronimo FFF, in Italia arriva a ridosso delle elezioni del 25 settembre. Una (quasi) coincidenza che gli stessi attivisti e le stesse attiviste non hanno mancato di sottolineare.

“Dopo quattro anni di scioperi, le persone si stanno svegliando, ma i responsabili politici sono ancora fermi”, afferma Alice Quattrocchi, di Catania. “Abbiamo organizzato marce e incontrato politici, ci siamo impegnati tutti i giorni per avere un impatto, oltre che per informare le persone di cosa succederà nei prossimi decenni. Oggi abbiamo davanti nuove elezioni, ma la crisi climatica è ancora assente dal dibattito. Più noi parliamo di clima, più i principali partiti sembrano fare a gara per prenderci in giro con belle parole a favore dell’ambiente, senza nessun piano completo, ma anzi chiedendo nuovi rigassificatori o altre misure che accelerano la catastrofe climatica”.

Rispetto ai proclami nazionali, il gruppo abruzzese di FFF sembra arrivare all’appuntamento con qualche affanno in più. È una difficoltà diffusa anche presso altre città. Nonostante la mobilitazione di oggi 23 settembre veda coinvolte 70 città tra cortei e manifestazioni, il numero e il livello delle adesioni agli scioperi globali sono molto diverse rispetto agli inizi. Sono passati soltanto quattro anni da quando una giovane attivista svedese di nome Greta Thunberg sceglie di rimanere seduta davanti alla sede del Parlamento svedese, ogni giorno durante l’orario scolastico, con lo slogan “sciopero della scuola per il clima”. Da allora quell’appuntamento, ripetuto ogni venerdì, diventa il Global Strike For Future, e da lì nasce il movimento di giustizia climatica così come lo conosciamo oggi. Sia Greta Thunberg che i Fridays For Future italiani ne hanno fatto parecchia di strada, da allora. L’attivista svedese è stata ricevuta in molti consessi internazionali - dal summit ONU sul clima (New York, 2019) alla Pre-COP26 (Milano, 2021) - e ha scritto un best-seller (La nostra casa è in fiamme, Mondadori); il movimento ha portato nelle piazze di tutto il mondo centinaia di migliaia di giovani e ha partecipato chiedendo giustizia climatica e sociale. In questi pochi anni, in ogni caso, il mondo è profondamente cambiato. E con esso anche l’attivismo.

Leggi anche >> La storia di Greta, 16 anni, che ogni venerdì protesta davanti al Parlamento svedese contro il cambiamento climatico

Prima critiche moderate, ora l’esigenza del conflitto

“In mezzo c’è stata la pandemia da COVID-19 che ha complicato moltissimo lo scenario”, dice Ottavia, che studia Scienze Politiche all’università di Teramo. “Prendi per esempio Chieti: qui c’è l’università ma noi non riusciamo a fare molta aggregazione perché studenti e studentesse in questi due anni di pandemia sono rimasti e rimaste a casa, e anche ora che la COVID-19 ha allentato la morsa tendono a preferire la didattica a distanza. In più i giovani finiscono per andare via dai paesi, una volta terminata la scuola dell’obbligo, così quando si riesce a creare una rete sociale spesso si finisce per dover ripartire da zero. Il nostro movimento, poi, è identificato con Greta e più in generale con le scuole superiori, è difficile scardinare questo concetto. Mettici pure che l’ambientalismo viene spesso associato come qualcosa legato alla sinistra, intesa come parte politica, e per una lotta come la nostra che vuole essere intersezionale questo è un limite”. 

Se da una parte, dunque, è la COVID-19 ad aver modificato forme e sostanza dei vari tipi di attivismo, dall’altra il movimento dei Fridays For Future si trova, già così giovane, a dover maturare per non essere strumentalizzato dai partiti nella solita maniera paternalistica, capaci esclusivamente di blandire i giovani con vaghe promesse elettorali e pragmatismo di maniera. A tal proposito particolarmente significativo è il recente incontro organizzato da Il Fatto Quotidiano: ogni volta che le puntuali osservazioni dei portavoce FFF sollevavano aspetti concreti (rigassificatori, rinnovabili, settimana breve) dall’altra c’era il malcelato fastidio di chi non vuole sentirsi dire cosa fare. Tanto che l’agenda climatica presentata dai Fridays For Future in campagna elettorale è stata pressoché ignorata dalle forze politiche, che hanno preferito al massimo "pescare" da singole proposte e amalgamarle nei propri programmi.

Come ha ribadito il giornalista ambientale Ferdinando Cotugno su Domani, in occasione del meeting europeo dei Fridays For Future che si è svolto a Torino dal 25 al 29 luglio, la principale lezione appresa in questi anni di attivismo sarebbe la consapevolezza che non basta la forza delle idee:

A Torino, estate 2022, non è più lo stesso movimento del 2019, o del 2020, perbene, presentabile e innocuo. Perché è cambiato il contesto, si è allargato l’ambientalismo italiano, sono arrivate o sono maturate altre realtà, le membrane si sono permeate tra loro, Extinction Rebellion, Ultima Generazione, Ecologia politica. Nel frattempo la crisi climatica si è aggravata, e la politica istituzionale ha dismesso la sua postura di educato ascolto degli amici di Greta, perché c’erano la crisi energetica e la guerra, fine dei giochi, fine del dialogo. Insomma, conflitto. 

Appena un anno e mezzo fa i Fridays For Future sono stati ascoltati dalla commissione Ambiente della Camera dei deputati su possibili suggerimenti in merito al Piano nazionale di ripresa e resilienza, per poi scoprire che il PNRR è stato redatto in solitudine dal governo e che “il piano è ancora lontano dal potersi definire verde”, in quella che appare una delle critiche più moderate all’utilizzo dei fondi del Next Generation Eu.

L’etichetta di “bravi ragazzi” invece sta adesso stretta ai Fridays For Future: non più (solo) striscioni e indipendenza dalle altre lotte ma dialogo coi comitati territoriali e altre forze sociali, non più (solo) giovani ma persone, non più ricette riformiste ma pigli rivoluzionari. In un articolo su Jacobin firmato da Giorgio De Girolamo e Ferdinando Pezzopane, entrambi attivisti di Fridays For Future, alle proposte più prettamente climatiche e ambientali si susseguono anche i modi per trovare le risorse necessarie per attuarle (aumento del prelievo fiscale per i ricchi, tassa di successione e patrimoniale). Il finale, poi, è incendiario:

Di fronte alla crisi climatica ci stiamo accorgendo che se il sistema non rende possibile coniugare giustizia climatica e sociale è perché esso stesso va superato. Data quindi la cifra eversiva di tali proposte rispetto all’attuale sistema economico, misurabile anche dalla difficoltà di introdurle nel dibattito pubblico (basta pensare alla poco benevola accoglienza di non radicali tasse patrimoniali o di leggerissime imposte sulle successioni), è evidente la necessità di portarle avanti, oltre le urne dominate da una deprimente campagna elettorale, attraverso una recuperata conflittualità sociale (storicamente efficace, basti pensare alle lotte sindacali per il salario e i diritti sul lavoro). Per questo occorrerà una coalizione sociale sempre più ampia nell’autunno che ci attende. Tra bollette stracciate e utopie reali da costruire.

La parola chiave è convergenza

Il primo segnale di questo cambio di passo si è avuto lo scorso marzo, quando il movimento ambientalista si è unito al collettivo di fabbrica GKN annunciando “due giornate di mobilitazioni convergenti”: lo sciopero globale del 25 marzo per la giustizia climatica e la mobilitazione nazionale “Insorgiamo” del 26 marzo a Firenze. Con lo scopo di superare la “falsa dicotomia tra ambiente e lavoro”, come dice spesso Dario Salvetti del collettivo di fabbrica GKN. Nella nota congiunta di marzo si legge che:

Non permetteremo mai più di giustificare delocalizzazioni, licenziamenti, precariato con la scusa della crisi climatica. Né permetteremo di giustificare con la difesa dei posti di lavoro un rallentamento o una deviazione nella transizione ecologica e climatica. La transizione ecologica, se reale, deve misurare la propria efficacia anche sui tempi, e non è più concepibile alcun rallentamento. Il pianeta è in fiamme, da ogni punto di vista, e ogni secondo sprecato è un crimine. In una reale transizione ecologica non c’è spazio per il greenwashing da parte di Stati o grandi aziende, ma solo per misure sociali e ambientali adeguate all’urgenza della situazione. In una reale transizione ecologica il lavoro inquinante cessa gradualmente di esistere: non si lavorerà più a discapito dei diritti, dell’ambiente, della salute e della pace, ma si passerà per una ridefinizione democratica di cosa è realmente necessario produrre, definendo modelli di produzione, trasformazione e consumo  al servizio della comunità piuttosto che del capitale, nei limiti delle biocapacità del pianeta.

Rispetto alla campagna Ritorno Al Futuro, lanciata ad aprile 2020 nella primissima fase della diffusione in Italia del coronavirus, si registra meno fiducia nelle istituzioni. E si ha meno paura ad assumere posizioni meno equilibriste - come ad esempio è avvenuta con quella sul nucleare, che pare aver lasciato qualche malumore (anche interno). Adesso, invece, l’opposizione alla guerra in Ucraina e a qualunque conflitto armato è netta.

D’altra parte la campagna Ritorno Al Futuro, pur con la collaborazione di associazioni ambientaliste note come Greenpeace, Wwf, Legambiente, Terra!, Stop TTIP Italia, non aveva registrato grandi numeri:

Fonte: screen dal sito “ritornoalfuturo.org” del 20 settembre 2022

I nuovi Fridays, dunque, sembrano aver imparato una delle lezioni fatte proprie da Extinction Rebellion: è da un ruolo di minoranza che lo status-quo può essere rovesciato, a patto di saper individuare gli interessi in gioco e di saper tessere relazioni sociali.

La sensazione è che ai nuovi movimenti di giustizia climatica, almeno nella declinazione italiana, manchi ancora una capacità di connessione tra le questioni ambientali locali e la comprensione globale dei fenomeni in atto. Al più volte citato meeting di Torino dello scorso luglio, ad esempio, i Fridays For Future hanno dato molto risalto alle popolazioni provenienti dai MAPA (Most Afflicted People and Areas), vale a dire le popolazioni più colpite dalla crisi climatica in corso e già oggetto di sfruttamento e colonizzazione, soprattutto Africa, Asia e America Latina. Un acronimo che, si spera, possa entrare anche nel dibattito pubblico. Anche perché la stessa Italia ha già le proprie MAPA, a ben guardare: sono i SIN, i 42 Siti di Interesse Nazionale in cui è lo stesso Stato ad aver riconosciuto nel 1998 la contaminazione ambientale e ad aver indicato la priorità delle bonifiche. Come insegna il caso di Piombino, l’ex capitale siderurgica in cui il governo e i partiti vogliono installare un rigassificatore entro marzo 2023, per questi siti industrializzati vale l’antico adagio del “fine pena mai”: industria eri e industria rimarrai. Più in generale sembra che i Fridays facciano fatica a occuparsi di battaglie locali. È quel che mi confermano Ottavia e Rebecca, entrambe appartenenti al gruppo FFF di Chieti. “Partiamo dal fatto che si vive sempre più immersi in bolle sociali” dicono. “Qui in Abruzzo noi proviamo a parlare con tutti e tutte, a partire dalle associazioni e dalle consulte giovanili, che poi spesso sono i primi canali di attivazione giovanile. E fino a quando si parla di questioni generali - le rinnovabili, l’economia circolare, la riduzione della produzione - ci si trova spesso d’accordo. Ma se poi si declinano questi temi a livello locale, ci scontriamo con la paura di poter essere strumentalizzati. L’interesse alle questioni locali c’è, quello sì, ma non si citano per non perdere credibilità”. 

La contaminazione del nucleo FFF di Civitavecchia

Ma è davvero così? L'esperienza del nucleo di Civitavecchia sembra raccontare una storia diversa, come ci racconta Mathias Mancin, attivista di FFF a Civitavecchia che lavora come informatico a Roma, nonché uno degli otto portavoce nazionali di FFF. La sua è una storia particolare proprio perché parte dalla conoscenza di ciò che gli accade attorno e dalla capacità di saperlo interpretare in una cornice più ampia. “Civitavecchia è da sempre una delle principali vittime dell’egemonizzazione da parte delle industrie fossili”, osserva Mathias. “Abbiamo visto una centrale a olio, poi riconvertita a carbone e, per non far mancare nulla alla filiera fossile, la presentazione di un progetto di riconversione a gas”. Il giovane attivista lega quindi il suo impegno alla cultura del territorio, che definisce “una cultura strettamente legata alla soggiogazione subita da generazioni”. Da questo sentimento, dunque, scatta “il conseguente ripudio verso queste grandi imprese, inquinanti non solo in termini ambientali ma anche dal punto di vista sociale e culturale. Ho sempre creduto che in una situazione di ingiustizia bisognasse prendere attivamente in mano il proprio dissenso per portarlo in piazza, per la mia generazione è accaduto con la nascita di FFF nel 2019 a Civitavecchia”.

Rispetto ad altri territori industrializzati, il gruppo laziale si contraddistingue perché ai processi di formazione e informazione sulla crisi climatica in atto accompagna la presa in carico del conflitto ambientale locale. “Da quel momento in poi ho cominciato a informarmi”, aggiunge Mancin, “da un lato leggendo articoli scientifici sul cambiamento climatico e dall’altro parlando direttamente con i lavoratori delle filiere fossili e inquinanti (come il porto) insieme a vari collettivi cittadini, tra cui il mio. L’aspetto che forse mi ha sorpreso di più e ha avuto un impatto fondamentale su di me è stato scoprire che fondamentalmente un impiego nelle industrie fossili non è affatto voluto dagli stessi lavoratori, ma piuttosto sopportato per la necessità imprescindibile di lavorare. Il ricatto occupazionale che ha subito Civitavecchia - o il lavoro o l’ambiente - è ciò che mi ha spinto più di tutto ad attivarmi sul territorio e, successivamente, a livello nazionale. Assistendo alla scelta delle famiglie tra chi protestava e chi doveva lavorare, ho effettivamente avuto modo di vedere con i miei occhi quanto fosse subdolo e distruttivo (a livello ambientale, sociale e culturale) questo tipo di contrapposizione”. Partendo dall’analisi e dalla critica, il gruppo FFF di Civitavecchia comprende sin da subito che per essere ancora più efficaci non basta più protestare ma costruire un orizzonte differente

“In sintesi" ribadisce Mathias, "il mio impegno nasce quindi dalla possibilità di contribuire in prima persona e dalla necessità di pensare a un futuro diverso, che non ha le proprie basi sulle logiche del profitto di pochi sulle spalle di tutti, ma un futuro le cui basi siano la salute e l’ecosostenibilità, dal punto di vista ambientale ma soprattutto dal punto di vista sociale che, secondo la mia opinione, è raggiungibile solo tramite una filiera energetica non deleteria né per chi ci lavora né per il comprensorio”.

Viene però spontaneo chiedersi, e chiedergli, perché allora i Fridays da altre parti d’Italia fanno fatica a sposare vertenze territoriali. “Essendo un nostro un movimento frastagliato, cioè composto da gruppi locali a livello territoriale” osserva Mathias, “ciascun nucleo poi porta avanti la propria idea di giustizia climatica e la declina a livello locale come meglio crede. È altrettanto vero che sui gruppi specifici a livello nazionale si trova una marea di risorse su quel che riguarda, ad esempio, le grandi aziende come ENI, ENEL e SNAM, che poi spesso sono le stesse che hanno impianti che a livello locale portano problemi. E per esempio su questi gruppi ci si può confrontare insieme su come impostare una narrativa. Le incertezze a sposare le battaglie locali si possono comunque comprendere: spesso di fronte hai i colossi energetici ed industriali, che fanno paura”.

Più in generale quel che appare evidente è che l’approccio dei Fridays For Future risulta diverso. Più attenti e attente a non farsi irretire, con la consapevolezza che non basta studiare bene un argomento, ragionando a compartimenti stagni. In questi pochi anni, insomma, i Fridays hanno costruito una visione. E lo hanno fatto grazie alla contaminazione. Le piazze hanno loro insegnato che l’eterogeneità è la parola chiave. “Credo che il nostro approccio sia effettivamente cambiato grazie all’esposizione alla società reale” conferma Mathias. “È un rapporto a cui teniamo moltissimo che ci ha permesso di connettere con le persone e iniziare a sottolineare la necessità (e la possibilità) di unire la lotta tra giustizia ambientale e giustizia sociale. Siamo partiti da una premessa, ossia ripensare il sistema estrattivista, patriarcale e capitalista che affligge attivamente tutti gli aspetti della nostra società attuale. Il punto di stacco è stato però confrontarsi poi con parti integranti dei meccanismi della società reale: lavoratori, persone lontane dall’attivismo, persone che sono sempre state militanti o che ci si sono riscoperte dopo anni”.

Da qualche tempo la connessione tra istanze ambientali e lavorative viene sintetizzata dai Fridays con lo slogan “dalla fine del mondo alla fine del mese è la stessa lotta”, che ha fatto il suo esordio nelle due giornate di convergenza con il collettivo GKN.  “Mettere nero su bianco le stesse rivendicazioni (dalla riconversione ecologica del lavoro al carobollette) con un collettivo di fabbrica ci ha fatto effettivamente capire come mostrare quanto siano intersecate le lotte” osserva l’attivista di Civitavecchia. “Per queste ragioni credo che la massima che descrive meglio il mio approccio all’attivismo sia: “l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio” (frase attribuita al sindacalista, ambientalista e politico brasiliano Chico Mendes, nda). 

Il rapporto con la scienza

A unire il nuovo attivismo climatico di Extinction Rebellion e Fridays For Future (e, in misura minore, di Ecologia Politica) è la citazione continua dei dati e dei rapporti elaborati dalla comunità scientifica, in particolare dall’IPCC. “Ce lo dice la scienza” è un po’ la frase mantra che accompagna la gran parte degli interventi di XR e FFF. Una fiducia che sfocia quasi nel fideismo. O no? “Dubito onestamente che si possa mai essere troppo vicini alla scienza quando si parla di clima” dice Mathias a riguardo. “Anche se questa premessa generale non esclude nella maniera più assoluta una prospettiva aperta ed equilibrata volta all’ascolto delle realtà e delle persone con cui ci interfacciamo per valutare problematiche e soluzioni. Ascoltare i professionisti e le soluzioni che propongono è il primo passo per creare una narrativa che non si limita al “No” dettato dagli ideali, ma si sviluppa fino alla costruzione di alternative concrete. Personalmente credo che l’immobilismo e l’ostruzionismo riguardo la crisi climatica/sociale si aggravi in misura direttamente proporzionale all’allontanamento dalla scienza. Informarsi da chi può spiegare concretamente le soluzioni oltre che le problematiche è il primo passo, fondamentale secondo me, per strutturare un’argomentazione funzionante e con uno sguardo che va oltre la propria generazione. Proprio per questo però ci premuriamo di considerare anche che la scienza è in costante evoluzione e soprattutto estremamente influenzata dalla comunità scientifica stessa che - proprio grazie all’attivismo delle comunità più vulnerabili e colpite - sta iniziando a riconoscere la propria visione influenzata da fattori come la prevalenza di uomini, l’assenza sostanziale di persone razzializzate, e una prospettiva eurocentrica dei problemi, reagendo con l’apertura a importanti riforme interne per un futuro più equo”.

Cambiare il sistema, non il clima

Il protagonismo dei Fridays è riuscito in questi anni a incidere perlomeno sul discorso politico. Anche se i media continuano a dare (troppo) spazio alle voci che negano o contestano il cambiamento climatico, i governi e le aziende si premuniscono di dichiararsi attenti e attente alla sostenibilità. Molto spesso si tratta di greenwashing, d’accordo, ma la percezione è cambiata. Come ha efficacemente detto a La Stampa Giorgio Brizio, attivista FFF, “più che di negazionismo, parlerei di dilazionismo climatico”. Ora che si è riusciti ad attirare l’attenzione, perciò, come si cambiano le cose? 

“Come con l’uscita dalla crisi climatica tramite le rinnovabili, la soluzione non è una sola ma un mix”, afferma Mathias. “La pressione politica, per esempio, è una conseguenza diretta della sensibilizzazione pubblica: sensibilizzando chi partecipa ai cortei, o semplicemente si interessa al tema, si massimizza la pressione sulla politica - stantia, ostruzionista e molto spesso ipocrita sulla questione ambientale - fornendo alle persone gli strumenti per esprimersi ed agire sia direttamente (con proteste, cortei, presidi etc) sia in maniera più indiretta attraverso il voto. Le azioni dirette d’altra parte possono essere un inizio e un mezzo, possono essere efficaci e utili quanto controproducenti anche a seconda delle pratiche. Perciò, ripeto, credo possa solo essere un mix di fattori a portare un cambiamento effettivo, anche se la nostra narrativa parte sempre dal presupposto che senza cambiare il sistema non si risolve il problema. Per questo è così importante per noi la nostra richiesta principale: system change, not climate change”. 

Il rapporto con Greta Thunberg (e con i soldi)

Se il racconto dei media molto spesso vivono di semplificazioni e personalismi, ciò vale anche per i Fridays For Future, identificati ancora oggi con la figura della fondatrice Greta Thunberg. Emergono nuovi attivisti e nuove attiviste a livello globale (come l’ugandese Vanessa Nakate che pone l’accento sulla nuova colonizzazione energetica dell’Africa), eppure i giornali italiani continuano a chiedere di “Greta”, e quelli di destra in particolare denigrano con il termine “gretini” gli attivisti e le attiviste . Ma qual è il reale rapporto del gruppo italiano dei Fridays con Greta Thunberg? 

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Il nodo italiano di FFF è unito nella lotta di Greta Thunberg, naturalmente”, spiega Mathias Mancin. “Condividiamo l’opposizione attiva agli extraprofitti e allo sfruttamento di territori e intere popolazioni, con un’attenzione particolare ai MAPA (Most affected people and areas). È innegabile quanto un’iniziativa partita da una sola persona abbia influenzato profondamente il sistema attuale del movimento che le si è creato intorno, nonostante sia composto da centinaia di migliaia di attivisti in tutto il mondo e prosegua in costante evoluzione insieme a loro, lasciando sempre sovranità territoriale ai vari nodi nazionali o locali sulle soluzioni sistematiche da proporre e implementare per un futuro migliore”.

Nelle trasformazioni, inevitabili, che il movimento dei Fridays For Future ha compiuto - di età, di contesto, di analisi, di proposta - c’è una costante che però resta: quella relativa ai soldi. Pur aprendosi a nuovi dialoghi e a nuovi percorsi, ci tiene a precisare Mathias Mancin, “FFF Italia si finanzia attraverso il crowdfunding, tutte le donazioni e le transazioni sono accessibili e visibili dal sito di FFF Italia”. Perché per essere liberi bisogna essere indipendenti. 

Immagine in anteprima via iconaclima.it

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