La presunta morte di Prigožin e Putin sempre più debole
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Lo schianto dell’aereo di Evgenij Prigožin, su cui era presente anche Dmitrij Utkin, comandante militare della Wagner, apre una nuova fase nella storia recente del sistema di potere in Russia. Sarà complicato giungere a un accertamento delle responsabilità e delle modalità dell’incidente, ma a contare è l’interpretazione che appare prevalente in queste ore, dove chi con ammirazione, chi con indignazione, indica in Vladimir Putin il mandante, e le cause vengono individuate nella marcia per la giustizia del 24 giugno scorso, quando gli uomini di Prigožin occuparono la città di Rostov sul Don e marciarono su Mosca, per poi fermarsi dopo l’intervento di mediazione del presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko.
L’impunità ottenuta per la Wagner, trasferita in Bielorussia, e per Prigožin, a cui vennero restituite anche le considerevoli somme di denaro sequestrate in quei giorni dalla polizia e dall’Fsb, ha messo in evidenza come il sistema fosse diventato estremamente fragile, e soprattutto è stata vista come uno sberleffo pericoloso all’autorità di Putin, il quale la mattina del 24 giugno aveva denunciato la tentata ribellione come una pugnalata alle spalle, un tradimento da reprimere senza alcuna pietà. L’accordo, di cui si era fatto garante Lukashenko, rappresentava una secca smentita alle parole del presidente russo, e costituiva un pericoloso precedente, perché dimostrava come, in un paese dove si viene condannati a troppi anni di galera per dei post sui social network, di fronte all’esibizione della forza il Cremlino fosse stato costretto a scendere a patti. Un dato però ancora valido, nonostante l’impatto dell’aereo di chi ha osato chiedere le teste del ministro della Difesa Sergei Shoigu e del capo di stato maggiore Valerij Gerasimov, perché le cause alla base delle dinamiche che hanno consentito l’ascesa di Prigožin e il tentativo della Wagner di guadagnare ancora più spazio restano, e, paradossalmente, ne vengono alimentate.
Dopo la definizione degli accordi (i cui dettagli non sono mai stati chiariti fino in fondo) sul trasferimento dei mercenari in Bielorussia, Prigožin non è scomparso di scena, anzi. Accantonate le velleità di intervento nella politica russa, dove prima con il rapporto speciale intessuto con il partito Russia Giusta di Sergei Mironov e poi con l’apertura del proprio progetto Vtoroj front (Secondo fronte), l’imprenditore si era palesato ai margini del summit Russia-Africa, dove aveva incontrato esponenti delle delegazioni di quei paesi, come il Mali e la Repubblica Centrafricana, dove la Wagner è presente; inoltre il colpo di Stato in Niger aveva dato ulteriore visibilità alla Wagner, le cui bandiere sono apparse, assieme ai tricolori russi, nelle strade di Niamey portate dai manifestanti in sostegno ai militari.
Il capo della Wagner era apparso per l’ultima volta in un video, girato in un non meglio precisato paese africano e pubblicato dai canali della compagnia la sera del 21 agosto dove dichiarava come la compagnia militare privata continuasse a combattere per la libertà contro l’Isis, Al Qaeda e altre, non meglio precisate, bande. Una risposta, forse, a quelle voci che avevano reso noto un progressivo avvicendamento tra gli uomini di Prigožin e un’altra compagnia militare privata, la Redut, fino all’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina impiegata nella protezione di pozzi e proprietà della holding Strojtransgaz, di proprietà dell’oligarca Gennady Timchenko, vicinissimo a Putin, e tra le prime formazioni a varcare i confini ucraini il 24 febbraio 2022.
Le attività della Redut, ritenuta da più fonti pronta a lasciare il fronte ucraino per il prossimo impiego in Africa, sarebbero finanziate da altri oligarchi vicini al Cremlino: cambierebbe la compagnia appaltante, ma non la logica dell’outsourcing, ovvero dell’affidamento di compiti di pertinenza dell’apparato statale e militare a terzi, in una modalità dove affari privati, interessi del Cremlino e (in questo caso) le guerre si intrecciano. Anche in altri paesi esistono compagnie di contractors, si pensi all’americana Blackwater, chiusa 9 anni fa, ma la commistione presente in Russia tra pubblico e privato, e soprattutto il tentativo di partecipare, manu militari, allo scenario politico rappresentano dei fenomeni peculiari, frutto del sistema putiniano.
La verticale del potere, quel regime costruito sull’idea di una centralizzazione estrema delle decisioni vitali per il paese e sull’assenza di ogni tipo di opposizione, ha riprodotto una realtà dove oligarchi, leader locali, ufficiali, giudici, la fanno da padrone disponendo a proprio piacimento delle risorse amministrative e militari e al tempo stesso affermando la propria fedeltà a Putin: la Cecenia prima di Achmat e poi di Ramzan Kadyrov è un esempio di queste logiche, nella repubblica caucasica sono gli uomini del clan del presidente locale a dettare legge e non le istituzioni federali.
Prigožin ha agito inizialmente in questo frame, per poi però chiedere sempre di più, criticando apertamente e in modo feroce i vertici del ministero della Difesa, per di più in pubblico, infrangendo il tabù della segretezza degli scontri all’interno del potere; ha potuto farlo a lungo perché i successi della Wagner al fronte ne hanno garantito la sicurezza, ma dopo la presa di Bahmut e il lancio di Vtoroj front (Secondo fronte), progetto presentato dall’imprenditore in varie città russe volto a “informare meglio” sulla compagnia militare privata, le continue dichiarazioni e denunce, unite a una retorica sempre più populista, hanno reso il conflitto con il Cremlino inevitabile.
Le accuse di Prigožin di corruzione e inefficienza a Shoigu e Gerasimov, unite a dichiarazioni sempre più critiche nei confronti della guerra e culminate nella lunga intervista al giornalista nazionalista Konstantin Dolgov (una traduzione in italiano dei principali passaggi è qui) hanno reso evidenti le ambizioni dell’ex detenuto, che non erano di sostituire Putin ma di occupare un ruolo sempre più centrale all’interno di un sistema del cui establishment era sempre restato ai margini. Nel profluvio di parole, spesso condite da gergo carcerario e da insulti di ogni genere, però, non vi è mai stato posto per la critica aperta a Putin, ritenendo forse di poter continuare a godere del sostegno del presidente, e persino dopo il durissimo messaggio di condanna della ribellione della Wagner, Prigožin ha tenuto a sottolineare come il Cremlino fosse al di sopra di ogni polemica, nonostante la marcia in armi verso la capitale russa.
Nelle settimane seguite al tentato colpo di mano nemmeno si sono registrate dichiarazioni contro un Putin visibilmente irritato da quanto avvenuto, e costretto a uscire dall’isolamento al pubblico che durava dall’inizio della pandemia: forse non vi è alcuna relazione diretta con le immagini delle centinaia di persone nelle strade di Rostov, scese a salutare i combattenti della Wagner in ritirata dopo gli accordi presi da Lukashenko, però da dopo il 24 giugno il presidente russo è tornato a partecipare a eventi pubblici e a farsi vedere tra la gente, come durante la visita in Daghestan sei giorni dopo. Prigožin, come già accaduto con Navalny, non è mai stato nominato direttamente da Putin nei commenti sia di quei giorni che dopo, una modalità adottata dal presidente russo quando non vuol dar rilievo ai propri oppositori e quindi di fatto riconoscendo nell’ex fedelissimo un proprio nemico, con cui fare i conti prima o poi.
Mentre ancora si procede all’identificazione ufficiale dei resti dei passeggeri del jet privato, già ieri notte sono apparsi fiori, fotografie, candele e oggetti di vario tipo davanti al centro della Wagner a San Pietroburgo, le cui finestre illuminate hanno formato una croce per commemorare i propri caduti. Nessuna reazione, però, è arrivata dai combattenti di Prigožin, probabilmente perché la scomparsa del capo, del comandante Utkin (a cui si deve il nome della compagnia) e di Aleksandr Čekalov, responsabile di vari settori importanti della Wagner, tra cui la logistica e le campagne informative, ha decapitato la struttura della propria direzione.
I segnali di crescenti difficoltà a tenere assieme quegli uomini passati attraverso l’esperienza della guerra in Ucraina sotto le bandiere nere dei mercenari erano diventati evidenti con il trasferimento in Bielorussia, ai margini del conflitto e in una situazione dove le voci su azioni future in Polonia e prossime missioni in Africa si univano a una significativa riduzione dei salari. Gli ex detenuti reclutati da Prigožin per il fronte e tornati liberi in questi mesi sono tornati a casa, e vi sono stati numerosi casi di nuovi crimini commessi, spesso supportati dall’idea di essere degli eroi di guerra a cui tutto è concesso, anche di poter violentare e uccidere in patria; d’altronde è anche lo stesso meccanismo di premi e privilegi concessi ai “veterani dell’operazione speciale”, dalla riduzione delle pene se ci si dichiara pronti ad andare in Ucraina alla gratuità dell’istruzione universitaria per sé e i propri familiari, a render possibile questa percezione, che mina alla base la stabilità del sistema russo.
Lo sgretolamento della verticale del potere non verrà fermato dall’eliminazione dei vertici della Wagner, anzi: il messaggio che viene recepito è come ogni mezzo sia lecito per la conservazione di privilegi e dominio, in una tetra ripetizione su vasta scala degli scontri tra bande, le razborki, degli anni Novanta, dove a essere terreno di conquista non sono più quartieri o interessi imprenditoriali, ma un intero paese.
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