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Molestie sul lavoro: perché in Italia un caso “Weinstein” non c’è e non ci sarà

23 Ottobre 2017 11 min lettura

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Molestie sul lavoro: perché in Italia un caso “Weinstein” non c’è e non ci sarà

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Nelle ultime settimane si è parlato molto del caso Weinstein e delle accuse secondo cui il potente produttore di Hollywood e co-fondatore della Miramax avrebbe molestato sessualmente decine di donne tra attrici, assistenti e dipendenti che negli ultimi trent’anni hanno lavorato con lui. In Italia l’attenzione si è concentrata sulla testimonianza di Asia Argento, che ha raccontato di essere stata molestata da Harvey Weinstein nel 1997 ed è per questo finita al centro di una gogna mediatica che ha messo in luce ancora una volta quanto sia complicato parlare di violenza di genere nel nostro paese.

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Al di là del caso specifico comunque, come scrive il Guardian, lo scandalo di Hollywood ha scoperchiato “un bizzarro livello di ignoranza rispetto all’intera questione delle molestie sessuali sul luogo di lavoro”. Questo assunto vale in maniera particolare per l’Italia, dove un reale dibattito sul tema non è mai esistito, non è nato neanche dopo il caso Weinstein, e i tentativi di aprirlo che ci sono stati negli anni sono caduti nel vuoto.

Eppure il problema esiste, e non riguarda solo personaggi noti o ambiti come il cinema e lo spettacolo. Basta dare uno sguardo agli hashtag #quellavoltache e #metoo con i quali negli ultimi giorni le donne stanno raccontando le molestie subite nel corso della loro vita: molte testimonianze riguardano capi, colleghi o superiori.

Cosa si può definire molestia sessuale

Una delle questioni più delicate riguarda quali comportamenti rientrino nella definizione di molestie sessuali. Come scrive l’Economist, per la maggior parte si tratta di atti meno gravi di quelli di cui è accusato Weinsten, ma che con questo presentano “alcune similitudini”: lo “sbilanciamento di potere tra l’autore e la vittima”, il fatto che quest’ultima resti in silenzio per paura di avere un danno alla carriera, perdere il lavoro o non essere creduta, il fatto che i colleghi e le persone vicine non facciano nulla per impedire che accada, e che il danno causato sia spesso sottostimato.

In Italia l’articolo 26 del decreto legislativo 198/2006 (cosiddetto “Codice delle pari opportunità”) definisce molestie “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”. Più specificatamente, sono molestie sessuali quei “comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale” con il medesimo scopo.

Rosa Maria Amorevole, consigliera di parità dell’Emilia Romagna, ha stilato una sorta di vademecum, dove ha esemplificato alcuni comportamenti da considerare molestie sessuali: insinuazioni e commenti equivoci sull’aspetto esteriore; osservazioni e barzellette che riguardano caratteristiche, comportamenti e orientamenti sessuali; materiale pornografico sul luogo di lavoro; contatti fisici indesiderati; avance in cambio di promesse e vantaggi; inviti indesiderati con un chiaro intento; ricatti sessuali; atti sessuali, coazione sessuale o violenza carnale.

Secondo l’articolo dell’Economist, molestie fisiche e richieste di favori sessuali sono più rare oggi, mentre comportamenti “più sottili come commenti provocatori o battute squallide sono ancora ampiamente tollerati, nonostante possano rendere un luogo di lavoro talmente insopportabile per una donna da farle decidere di andare via”. Gran parte di questi atteggiamenti, tra l’altro, “accade dietro porte chiuse” e quindi con scarsa possibilità di prova: “ciò significa che le molestie sessuali sono sorprendentemente comuni, e i molestatori raramente puniti”.

Le dimensioni del fenomeno in Italia

Alessandra Menelao, responsabile nazionale dei centri di ascolto mobbing e stalking per la UIL, spiega a Valigia Blu che è «un bene che dopo la storia di Asia Argento si inizi a discutere di questo tema, perché fino a questo momento ne parlavamo solo noi sindacati e nessun altro. È come se le molestie sessuali sul luogo di lavoro non esistessero, e invece ci sono e in maniera preponderante nel nostro paese». Nonostante questo, «non è possibile dare esattamente dei numeri». Lo sportello UIL raccoglie «circa mille casi l’anno, e di questi il il 70% è rappresentato da donne, un 28-29% da uomini e l’1% sono molestie subite in quanto persone LGBTI. Di questi mille, il 15% è costituito da molestie sessuali, in particolare nella fascia dai 30 ai 50 anni».

Lo scarso interesse per il tema in Italia è dimostrato anche dal fatto che l’unica indagine è stata realizzata tra il 2008 e 2009 dall’Istat, curata da Linda Laura Sabbadini. Secondo i dati, un milione e 224 mila donne hanno subito molestie o ricatti sul posto di lavoro, pari all’8,5% delle lavoratrici. Sono state vittime, in particolare, di ricatti sessuali 842 mila donne tra i 15 e i 65 anni: l’1,7% per essere assunte e l’1,7% per mantenere il posto di lavoro o avanzare di carriera. Quasi mezzo milione, invece, coloro alle quali è stata chiesta una “disponibilità sessuale” al momento della ricerca del lavoro. Spesso si tratta di molestie risalenti nel tempo: il 31,8% dei ricatti sessuali ricevuti dalla stessa persona è iniziato oltre 10 anni prima e il 38% tra i 5 e i 10 anni.

Quanto ai settori, contrariamente a quanto si pensi, il sistema non riguarda solo il mondo dello spettacolo. Per Menelao «turismo, commercio e pubblico impiego sono quelli più colpiti», ma si tratta in realtà «di un fenomeno trasversale». Il 14,3% delle donne intervistate dall’Istat lavorava in attività immobiliari e informatiche, il 10,3% nelle attività manifatturiere, il 18% in professioni tecniche, il 7,8% in professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione.

Secondo Sabbadini, la violenza avviene per lo più ai «piani alti degli uffici: sono le donne quadri o dirigenti d’azienda le più esposte a rischi di ricatti a sfondo sessuale perché sono nella posizione di poter fare carriera e la loro ascesa dipende, in contesti lavorativi dove il top management è perlopiù maschile, dal giudizio o dal parere dei loro capi uomini».

Perché le vittime non parlano

Nonostante questi numeri e l’ampiezza del fenomeno, se in Italia non c’è mai stato un “caso Weinstein” – con le dovute proporzioni – o inchieste sul tema è anche probabilmente perché chi subisce molestie sul luogo di lavoro preferisce non parlare.

Secondo l’Istat, infatti, il 99% dei ricatti sessuali non viene segnalato alle forze dell’ordine; nell’81,7% la vittima non ne ha parlato con nessuno sul posto di lavoro, e solo il 18,3% ha raccontato la sua esperienza. La maggior parte di coloro che non denunciano hanno ritenuto l’episodio meno grave, oppure se la sono “cavata da sole o con l’aiuto dei familiari”. Tra le motivazioni c’è anche la mancanza di fiducia nelle forze dell’ordine o loro impossibilità di agire e la paura di essere giudicate e trattate male al momento della denuncia.

La prima ragione che porta una persona che ha subito molestie sessuali a non denunciare è il ricatto: considerato il rapporto gerarchico sotteso, denunciare, in molti casi, significa perdere il lavoro. Secondo i dati dell’Istat il 57,2% delle donne ricattate ha cambiato volontariamente occupazione o ha rinunciato alla carriera, il 2,5% è stata licenziata, il 3,3% ha continuato a lavorare nello stesso posto, il 2,7% si è messa in malattia.

Per questa ragione, ritiene Sabbadini, il ricatto sessuale è «la tecnica per mettere in un angolo la donna per ricavarne di più in termini sessuali costringendola a stare al gioco. La maggior parte delle donne fugge, finisce per lasciare il lavoro, sfinita dal clima insopportabile. Ma chi non può permetterselo?»

A fare le spese di questa situazione sono ovviamente le categorie con posizioni contrattuali più deboli e precarie. Come spiega Chiara Vannoni, legale che collabora con il Centro donna della Camera del lavoro di Milano, «le molestie di solito sono legate a una posizione di ricattabilità della lavoratrice (…) E con la diffusione dei contratti atipici e la riduzione delle tutele del lavoratore, la ricattabilità aumenta. Più il rapporto di lavoro è debole, più le molestie crescono».

Un’altra questione riguarda i processi. In Italia non esiste una legge specifica per le molestie sessuali – come sarebbe previsto dalla Convenzione di Istanbul ratificata dal nostro paese. Si cerca di far rientrare i casi in altre fattispecie, come quelle delle molestie semplici o delle violenze sessuali introdotta con la legge del 1996. Rifarsi a quest’ultima, però, secondo il presidente di Sezione del Tribunale di Milano Fabio Roia, «impedisce di punire tutta quella parte di violenza che ha a che fare con le allusioni pesanti contro la donna, quotidiane, continue, che fanno intravedere che lei è consenziente e che è di facili costumi e la isolano dagli altri colleghi».

A febbraio del 2013, ad esempio, il tribunale di Palermo ha assolto l'ex direttore dell'Agenzia delle Entrate della città, accusato da due impiegate dell'ufficio di molestie sul luogo di lavoro. Una delle due donne aveva raccontato che il direttore le aveva toccato il sedere, l’altra che aveva toccato un bottone della camicia all’altezza del seno e un’altra volta le aveva sfiorato la “zona vaginale”. La sentenza non ha smentito il palpeggiamento, ma l’ha ritenuto un gesto “oggettivamente dettato da un immaturo e inopportuno atteggiamento di scherzo”. Stando a quanto spiegato da uno dei giudici, si sarebbe trattato “di una pacca nel sedere molto fugace” e “incapace di soddisfare le pulsioni libidinose dell'imputato”, che è uno dei requisiti della legge del 1996.

Negli atti persecutori, e nei casi di molestie o di mobbing, poi, l’onere della prova spetta alla lavoratrice o al lavoratore. «Sono le vittime a dover dimostrare davanti al giudice le molestie subite o i ricatti sessuali, devono perlomeno portare dei fatti che facciano presumerli. Ma è una prova estremamente difficile. I datori di lavoro solitamente non lasciano tracce, mail, sms. Si tratta per lo più frasi e comportamenti allusivi, che poi potranno dire che la vittima ha frainteso», precisa Menelao della UIL.

Ed è difficile anche avere l’aiuto di colleghi come testimoni: da un lato anche loro finirebbero con il sentirsi sottoposti alla stessa ritorsione, dall’altro spesso le molestie avvengono in momenti in cui autore e vittima sono da soli.

Un dibattito inesistente

A tenere le vittime silenti c’è anche la scarsa consapevolezza. «È un tema delicatissimo. Spesso capita che le donne – a meno che non sia un atto veramente esplicito – non si rendano conto di essere davanti a una molestia sessuale. E poi da quella richiesta non compresa o non esplicitata che la donna ha rifiutato iniziano una serie di azioni vessatorie», spiega la responsabile UIL, secondo cui molto di questo dipende dal fatto che in Italia non si parla di molestie sessuali, tanto meno sul luogo di lavoro.

Nel 2015 è uscito Toglimi le mani di dosso, un libro-testimonianza di una giornalista precaria, firmatasi con lo pseudonimo Olga Ricci, che racconta la sua esperienza: l’incontro con un direttore di un importante quotidiano e l’offerta di un contratto, mesi di telefonate, inviti a cena e complimenti non richiesti, isolamento da parte degli altri colleghi e infine la perdita del lavoro.

«La consapevolezza piena rispetto alla situazione è arrivata dopo, quando tutto è finito, quando mi sono messa a studiare. All'inizio pensavo che quelli del mio capo fossero comportamenti normali, lo faceva con me, lo faceva con altre donne», racconta Olga a Valigia Blu, spiegando che «le frasi all'inizio non erano mai esplicitamente sessuali, il suo approccio non era dichiaratamente molesto, mi toccava sulle spalle e mi prendeva a braccetto, con una confidenza che faceva passare per normale. Mi ha fatta passare da un piano personale a uno privato in pochi giorni. A quel punto si è sentito autorizzato a comportarsi come meglio credeva, fino ad arrivare al ricatto vero e proprio».

Prima della pubblicazione del libro, la giornalista aveva aperto un blog – “Il porco al lavoro”, non più attivo – dove raccoglieva testimonianze di altre donne molestate sul lavoro. Ne arrivavano diverse e da tutti i settori, a riprova della diffusione del fenomeno. Come scrive E.J. Graff su VICE, “ogni volta che una o due donne si fanno avanti con storie di questo tipo, (…) inevitabilmente ne seguiranno altre che diranno che a loro è successa la stessa cosa – allo stesso modo, con lo stesso approccio”.

Nonostante Toglimi le mani di dosso si riferisca a un ambito come quello del giornalismo, il dibattito sulle molestie al lavoro in Italia non è avanzato di un centimetro. Per Olga siamo davanti a una «rimozione collettiva»: «Vedo un paradosso. Se non dici chi sei, proteggendoti, perché sei un pesce piccolo, il sistema ti rimprovera di essere una codarda non credibile e non ricevi sostegno. Se ti butti nell’arena, a viso scoperto, vieni messa in croce e denigrata, come è successo ad Asia Argento. Non va mai bene il modo in cui noi donne raccontiamo la violenza perché il piano della narrazione che ci viene offerto è distorto. Per un dibattito serio, dobbiamo costruire nuovi piani».

Secondo Tatiana Biagioni, presidente degli avvocati giuslavoristi italiani e del comitato pari opportunità dell’Ordine, le molestie sono un fenomeno «molto più diffuso e grave di quanto non appaia dalla rare statistiche a riguardo e dall'opinione comune», perché «molti comportamenti che per legge sono considerati molestie, e che di fatto lo sono, vengono liquidati in Italia come semplici “battute”. Che le impiegate continuano a subire in silenzio». Biagioni ritiene che ci sia «una censura a monte» sul tema: «Lo provo io stessa: ogni volta che sollevo la questione, mi viene risposto con una sorta di fastidio. Come se non fossero questioni importanti (...) Ma in un rapporto gerarchico una certa ironia diventa presto altro; diventa esercizio di potere».

Non è sesso, è potere

In Italia il “caso Weinstein” è diventato velocemente il “caso Asia Argento”, e il dibattito non ha mai sfiorato il tema delle molestie o dei ricatti sul luogo di lavoro. La cifra utilizzata è stata quella sessuale: attrici belle e ambiziose che scambiavano il loro corpo con possibilità di carriera.

Come si legge su Quartz, però, la molestia “non c’entra nulla con attrazione o gratificazione sessuale. È una dimostrazione – e un abuso – di potere. Capire questo è cruciale per fare un cambiamento culturale”. Secondo l’articolo, le molestie sessuali sono “il diretto risultato del patriarcato – un sistema dove gli uomini detengono la maggioranza del potere, e la mascolinità è glorificata”. In questo sistema, anzi, “mascolinità e potere sono strettamente legati. Questo significa che il potere è intrinsecamente sessualizzato” e la sua “massima espressione è l’abilità di agire con impunità” dal punto di vista sessuale.

Gli uomini, dunque, comunicano e affermano il proprio potere dominando e umiliando sessualmente le donne. Ma, prosegue Quartz, “possono anche affermare il loro potere umiliando sessualmente altri uomini – in particolare uomini neri, omosessuali o più giovani”: “l’obiettivo è dimostrare di essere più uomini di tutti gli altri uomini. E un modo per farlo è trattare altri esseri di sesso maschile allo stesso modo in cui vengono trattano le donne”.

Il legame tra molestie sessuali sul luogo di lavoro e potere emerge dal racconto di Olga Ricci, che riguarda il giornalismo, un mondo caratterizzato da un forte gender gap (secondo l’ultima indagine Agcom solo il 3,9% delle donne dipendenti è riconducibile a una posizione di vertice, a fronte del 14,2% degli uomini) e da enorme precarietà.

«Da quando ho cominciato il lavoro del blog e poi del libro in molte hanno cercato di indovinare il nome del direttore porco. Nel farlo, è nato un elenco di nomi e cognomi di direttori, ex direttori e caporedattori che sono in circolazione, seduti sui loro scranni, con stipendi d’oro, a pontificare su come una donna dovrebbe comportarsi quando uno di loro la molesta. È piuttosto divertente, se si ha il senso del paradosso, vedere l’ipocrisia su cui poggia tutto il dibattito», ha raccontato Olga. Nonostante questo, la sua è al momento l’unica testimonianza di molestie riguardante il mondo dell’informazione in Italia: anche coloro che le hanno scritto, non hanno dato il permesso di pubblicare le loro storie.

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Secondo Olga, «se noi giornaliste ci unissimo e decidessimo di sostenerci, se fossimo (state) abbastanza sveglie da raccogliere le prove, credo che potrebbe uscirne un bel maxi processo. Ma non succederà. Il sistema delle molestie sul lavoro e dei ricatti è pervasivo nel giornalismo italiano».

«Negli anni - aggiunge - ho visto molte colleghe mollare, venire messe in disparte perché non ci stavano, oppure le vedo ancora arrabattarsi con una fatica estenuante. Dovrebbero esserci loro nei dibattiti su Weinstein, ma nessuno le conosce, né le conoscerà mai».

Illustrazione in anteprima: Christophe Gowans via Guardian

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