Molestie sessuali: un sistema che crolla e le accuse alle vittime
14 min letturaDa quando a inizio ottobre è scoppiato il caso Weinstein, le denunce di molestie si sono susseguite una dopo l’altra, in diversi ambiti lavorativi e in svariate parti del mondo. È un effetto a cascata che, per il momento, non accenna a fermarsi.
Negli ultimi giorni la società di produzione scandinava Zentropa fondata da Lars von Trier è stata accusata da nove donne danesi di favorire un ambiente dove molestie sessuali e bullismo erano all’ordine del giorno. Anna Mette Lundtofte, una giornalista che ha lavorato per la società per tre anni, ha detto che ogni impiegato o collaboratore aveva subito o assistito a episodi del genere: «Secondo la propaganda di Zentropa, si sarebbe trattato di un "ambiente di lavoro alternativo", ma in realtà quello che ho visto è una vecchia struttura patriarcale di potere».
Negli Stati Uniti si sta discutendo del caso che riguarda Roy Moore, un ex giudice della Corte Suprema candidato al Senato in Alabama con il Partito Repubblicano accusato di aver molestato alcune ragazze minorenni tra gli anni '70 e '80. Gli episodi sono venuti fuori grazie a un’inchiesta del Washington Post, che ha raccolto le testimonianze di quattro donne che non si conoscono tra loro.
Alabama woman says Roy Moore touched her sexually when she was 14, he was 32 & Deputy D.A. Three others say he pursued them as teenagers. with @bethreinhard and Alice Crites. https://t.co/3d00QdehbT
— Stephanie McCrummen (@mccrummenWaPo) November 9, 2017
Un articolo del New York Times, invece, riportava le testimonianze di alcune donne che accusavano lo stand-up comedian Louis C.K. di essersi denudato e masturbato davanti a loro. Il comico ha ammesso la veridicità dei fatti contestatigli, diffondendo un messaggio di scuse: "Al tempo, mi ero detto che quello che avevo fatto era ok, perché non avevo mai mostrato il pene a una donna senza prima chiedere il permesso, cosa che è anche vera. Ma più avanti nella vita ho capito, comunque troppo tardi, che quando sei in una posizione di potere chiedere loro di guardare il tuo pene non è una domanda. Per loro è un’imposizione. Il potere che avevo su queste donne era che loro mi ammiravano. E io ho usato irresponsabilmente questo potere".
Il comunicato ha ricevuto diverse critiche dall’opinione pubblica americana. "Le scuse di Louis C.K. si trasformano in un tentativo di dipingere se stesso come sofferente e degno di comprensione. (...) Prova anche a ridurre la sua colpevolezza, dicendo che, al tempo delle sue azioni, pensava che semplicemente chiedere se era OK masturbarsi davanti alle donne fosse sufficiente per garantire il consenso", si legge su Quartz.
https://twitter.com/JessicaValenti/status/929060452897783810
In Italia fino a questo momento di nomi ne sono stati fatti pochi. Due settimane fa Miriana Trevisan ha raccontato a Vanity Fair di aver subito un approccio sessuale esplicito dal regista Giuseppe Tornatore durante un incontro di lavoro alla fine degli anni '90. La denuncia è rimasta isolata, mentre si sono moltiplicati i messaggi in difesa di Tornatore e di discredito della versione di Trevisan, e i richiami a non esagerare con l’effetto domino dopo il caso Weinstein.
Più recentemente, dopo alcune voci circolate negli ultimi giorni, in un servizio de Le Iene a cura di Dino Giarrusso dieci attrici e donne dello spettacolo – che, stando al programma, non si conoscerebbero tra loro – hanno accusato il regista Fausto Brizzi di molestie sessuali (e in un caso anche di stupro). Alcune di loro hanno mostrato il volto, altre hanno parlato in forma anonima. Tutti gli episodi raccontati hanno elementi in comune e hanno avuto luogo nel loft-studio del regista. Brizzi, con una nota dei suoi legali, ha dichiarato di non aver mai avuto nella sua vita “rapporti non consenzienti o condivisi”, di essere intenzionato ad agire “in ogni opportuna sede nei confronti di chiunque abbia affermato e affermi il contrario”, e di aver sospeso “in via precauzionale, e per evitare strumentalizzazioni” tutte le attività lavorative e imprenditoriali. Nel frattempo, la Warner Bros ha confermato l’uscita programmata per dicembre di un film realizzato dal regista (Poveri Ma Ricchissimi), ma ha precisato di aver interrotto “ogni futura collaborazione con Brizzi che non verrà associato ad alcuna attività relativa alla promozione e distribuzione del film”: “Warner Bros Entertainment Italia prende molto seriamente ogni accusa di molestia o abuso e si impegna fermamente affinché l'ambiente di lavoro sia un luogo sicuro per tutti i suoi dipendenti e collaboratori”.
La messa in onda del servizio ha scatenato commenti feroci sui social media nei confronti delle ragazze intervistate, che sono state accusate di aver voluto sfruttare “qualche minuto di notorietà” o di voler trovare una giustificazione a carriere poco fortunate, o sono state destinatarie di insulti sessisti. La maggior parte dei media italiani, invece, da un lato ha derubricato la questione a gossip o costume, e dall’altra ha dato ampio spazio a voci che invocavano garantismo per gli accusati e invitavano a maggiore cautela nel prendere in considerazione le testimonianze di questi giorni.
La narrazione che ne è venuta fuori tra giornali e opinione pubblica è completamente schiacciata sulle vittime: sono loro che parlano e denunciano, sono loro che avrebbero potuto comportarsi diversamente e sono sempre loro che dovrebbero regolarsi ed evitare di contribuire al rischio di messa alla gogna di uomini da considerarsi innocenti fino a prova contraria.
Roxanne Gay sul New York Times ha ricordato come le storie delle donne vittime di molestie e abusi sessuali siano tutt’altro che una novità: “Le donne offrono testimonianze del loro dolore sempre, pubblicamente e privatamente. Quando ciò accade, gli uomini si mostrano scioccati e sorpresi che la violenza sessuale sia così pervasiva, perché si sono permessi il lusso dell’oblio. E iniziano ad andare nel panico perché non tutti gli uomini sono predatori e non vogliono essere assimilati agli uomini cattivi”. È quello che è successo in Italia.
Se si parla solo delle donne è perché non si è capita la portata politica del meccanismo che si è messo in atto in seguito al caso Weinstein. Il sistema di potere patriarcale che per secoli ha regolato numerosissimi – se non tutti – gli aspetti della vita sociale e relazionale è stato messo in crisi: dove prima c’erano il silenzio e l’accettazione adesso ci sono denunce, dove c’era la percezione dell’immutabilità dell’ordine delle cose ora si intravede la possibilità di cambiamento, dove c’era isolamento c’è moltitudine. È una questione politica – qualunque sarà l’esito di questo processo – e come tale andrebbe trattata. Ogni tentativo di sminuirla o relegarla ad altri ambiti suona come una difesa dell’ordine precostituito e un rifiuto di metterlo in discussione.
Per questa ragione, il silenzio della parte maschile (paternalismo e richieste di garantismo escluse) è pesantissimo, così come la sua assenza dal dibattito. Come ha scritto Leah Fessler su Quartz, invece, “è necessario che sia gli uomini che le donne si cimentino in conversazioni produttive sul sessismo. Il sessismo non è una cosa da donne, o una cosa per donne e uomini con figlie femmine. Finché ognuno di noi, indipendentemente dalle nostre identità di genere, non si prenderà la responsabilità di porre fine alla misoginia, questa continuerà a opprimere noi e le persone che amiamo”.
Nel concentrare la discussione solo sulle vittime, sono emerse alcune critiche e argomentazioni ricorrenti sia tra gli uomini che tra le donne, che mettono in discussione la credibilità delle loro denunce
"Perché le donne non hanno denunciato subito?"
Molte accuse di molestie sessuali si riferiscono a episodi successi molti anni prima. Asia Argento, ad esempio, ha raccontato di aver subito l’abuso da Harvey Weinstein nel 1997, così come altre attrici o collaboratrici del produttore. Anche alcune storie delle donne che hanno accusato Fausto Brizzi non sono recentissime. Una domanda molto diffusa a questo riguardo è: ma se le donne ritenevano davvero di aver subito una molestia sessuale, com’è che non l’hanno denunciata subito?
La risposta non è una sola, come spiega a Valigia Blu Simona Bernardini, psicologa che collabora con l’associazione Telefono Rosa: «I fattori sono molteplici. Quello che è certo è che quando si subiscono molestie sessuali, soprattutto nei luoghi di lavoro, si vive una pressione dovuta al potere che esercita la persona che si ha di fronte».
Talvolta si tratta di un potere enorme: Weinstein, ad esempio, una volta scoperta la possibilità dell’emersione delle accuse nei suoi confronti, aveva messo su un sistema di sorveglianza e spionaggio di vittime e giornalisti che coinvolgeva anche ex agenti del Mossad. Il più delle volte, invece, concerne semplicemente la possibilità di incidere sulla vita di chi subisce molestia. Non è un caso che, secondo l’Istat, il 99% dei ricatti sessuali sul luogo di lavoro non viene segnalato alle forze dell’ordine: Le ragioni sono poca fiducia nella polizia e nella giustizia, difficoltà o mancanza di prove o anche solo paura di non essere credute.
I tempi per agire in tribunale, peraltro, in Italia sono piuttosto stretti: secondo il codice penale, per violenza sessuale si può procedere solo su querela della vittima, che può essere presentata entro sei mesi. Un intervallo a volte non sufficiente per elaborare quanto accaduto. «Il tempo non è mai un indicatore. Non è che se si denuncia o si parla subito significa che è ‘più vero’ rispetto al farlo dopo vent’anni», precisa Bernardini.
Nel servizio de Le Iene alcune delle donne che accusano Brizzi raccontano come mai non si sono rivolte alle forze dell’ordine. Una di loro dice di non aver avuto il coraggio di dirlo alla famiglia e di averne parlato solo con la madre: “Le ho detto che non potevamo fare niente, non abbiamo tutti i soldi, se lui ci denuncia, per chiamare un avvocato”.
Un’altra attrice ha fatto un resoconto solo parziale dell’accaduto al fidanzato: “Probabilmente ho sbagliato, ma mi vergognavo come una ladra e avevo paura di non essere creduta”; mentre una ragazza che ha subito una vera e propria violenza sessuale si accusa: “Sono stata stupida. Me la sono cercata”.
Bernardini spiega che questi stati d’animo sono assolutamente comuni per le vittime molestie e abusi sessuali: «C’è la sensazione di aver sbagliato qualcosa, di essere in parte colpevole, sia nel caso in cui si è subito l’abuso sia che si riesca a dire di ‘no’». «In associazione – aggiunge - lavoriamo spesso con donne che dopo tanto tempo riescono a elaborare tutta quella confusione che suscitano spesso queste vicende traumatiche. Non è automatico, serve tempo».
Secondo un articolo pubblicato su The Conversation, tra l’altro la narrazione che vede come “vero stupro” solo quello che implica un rapporto sessuale completo, perpetrato “con estrema violenza o forza fisica” da un estraneo, “può impedire alle vittime di parlare o anche solo di identificare ed etichettare subito la loro esperienza come violenza sessuale”.
"Perché le denunce vengono fuori adesso, tutte insieme?"
Il fatto che le denunce di molestie sessuali, anche risalenti nel tempo, stiano venendo fuori una dopo l’altra – quello che è stato definito dalla stampa americana Harvey Effect – è stato visto con sospetto: potrebbe essere una moda?
Secondo Sonia Ossorio, attivista della National Organization for Women–New York, «quando una donna rompe il silenzio, altre si sentono in potere in raccontare le loro storie. Queste testimonianze insieme danno un’immagine completa e creano un ambiente in cui è più probabile che le vittime vengano credute». Questo meccanismo ha riflessi anche nella vita di tutti i giorni. Yvonne Traynor, CEO del South London Rape Crisis, intervistata da VICE, ha spiegato che da quando l’hashtag #MeToo è diventato virale, il centro ha ricevuto il 30% in più di telefonate riguardanti stupri e abusi sessuali: «Succede sempre così quando si parla di violenza sessuale sui media, perché riporta alla luce ricordi in donne e ragazze che avevano provato a reagire a un trauma semplicemente relegandolo negli angoli della loro memoria, o facendovi fronte in altri modi».
Each sexual harassment accusation gives courage to other victims to come forward. 2002 was a tipping point for the Catholic-clergy sexual abuse scandals. 2017 could reach a tipping point too. pic.twitter.com/8MjQgKdpVq
— Ricardo Perez-Truglia (@pereztruglia) November 11, 2017
«In questo momento credo che si stia denunciando perché c’è una forza mediatica che dà la possibilità alle persone di non sentirsi sole», precisa Bernardini. «Questo tipo di molestie – aggiunge - nasce da un’asimmetria di potere che si vive e che esiste nella realtà: se io, ad esempio, faccio un provino con qualcuno che è in grado di eliminarmi dal mondo dello spettacolo, vivo una sorta di impotenza dinnanzi a lui. Quando vedo tante persone che denunciano probabilmente subentra l’idea di far parte di un gruppo, sento di avere una forza e un potere, forse per la prima volta». L’essere in tante agisce anche sul percepirsi corresponsabili della violenza subita: «Se c’è qualcun’altra che ha lo stesso vissuto, ci si sente meno sotto accusa come vittime. Perché poi spesso, soprattutto in Italia, il problema è questo: la prima a essere colpevolizzata è la vittima, invece che chi si presuppone che abbia compiuto la violenza».
"I processi non si fanno in TV o sui giornali"
Questo è uno degli argomenti più diffusi, specialmente dopo le accuse a Fausto Brizzi: di molestie sessuali si parla in tribunale, in televisione è solo gogna mediatica. Alla base di questo tipo di ragionamento c’è l’invocazione del principio garantista nei confronti dell’accusato, che non va considerato colpevole fino a eventuale sentenza.
Giulia Siviero si è chiesta sul Post se questo garantismo valga “in egual misura anche per le persone che a un certo punto decidono di parlare delle molestie che hanno subito”: “Possiamo affermare serenamente che a una donna che parla di abusi è garantita quella che potremmo chiamare ‘presunzione di credibilità’? O meglio: c’è la reale garanzia di una dialettica non sbilanciata sulla questione delle molestie? E non è forse qui che si mostra, invece, l’enorme deroga al garantismo di cui si sta parlando?”. Nessuno, aggiunge Siviero, “chiede di mettere in galera gli accusati sulla base delle cose che vengono dette sui giornali e non nei tribunali: si sta chiedendo che il garantismo valga per tutte e tutti allo stesso modo. Ponendo queste domande non sto facendo deroghe a un principio fondamentale, sto dicendo che il circolo del garantismo, nel caso delle molestie e degli abusi, non è virtuoso e mi chiedo se la priorità non sia quella di lavorare affinché lo diventi”.
Per chi viene accusato pubblicamente, un "garantismo giudiziario" esiste e continua ad essere tutelato: può sporgere querela verso chi ritiene che abbia detto il falso. "E se perde tutto in seguito a queste accuse? Di nuovo: chi si sente danneggiato ingiustamente da queste accuse può denunciare chi lo accusa. Deve farlo: è infatti nell’interesse di tutti e di tutte (di chi sporge denunce vere, innanzitutto) che le denunce false vengano punite", scrive Siviero, che però precisa che il garantismo giudiziario "c’entra poco con questa storia. Oltre al garantismo vero e proprio c’è infatti un garantismo che potremmo chiamare delle coscienze".
Il clamore sui media e suoi social media delle accuse ha degli effetti concreti, che superano di gran lunga quelli di una “gogna mediatica” nei confronti dei molestatori. Come scrive Olivia Godhill su Quartz, “gli uomini hanno molestato e abusato sessualmente le donne con impunità per millenni”, e solo dopo il caso Weinstein sono iniziate ad arrivare delle conseguenze per alcuni di loro: dove corti e uffici delle risorse umane hanno fallito, ha trionfato un nuovo meccanismo. “Ovviamente nessuno dovrebbe subire le conseguenze di essere ingiustamente accusato. Ma l’idea che le donne abbiano in qualche modo sovvertito la legge parlando delle loro esperienze online [o sui media] è sbagliata, e dimostra una fondamentale incomprensione di come funziona la giustizia”, scrive Godhill, che aggiunge che esiste una sorta di “sanzione sociale” che è anch’essa una forma di giustizia.
La maggior parte delle volte, le accuse di molestie sono note negli ambiti di riferimento: sono voci che circolano, open secret che vengono fuori con inchieste e lavori giornalistici – inchieste da cui, spesso, possono scaturire veri processi. Il caso Weinstein è partito dalle indagini di giornalisti di testate come il New York Times e del New Yorker; in Italia a raccogliere le denunce sono Le Iene, con tutto ciò che comporta un programma di infotainment (tra informazione e intrattenimento) spesso sensazionalistico, ma forse è proprio su questo che bisognerebbe riflettere.
La forza di una inchiesta giornalistica sta nel raccogliere più voci e dimostrare la pervasività di un sistema. E da sempre questa è la funzione del giornalismo: rivelare ciò che si cerca di tenere nascosto. La questione non è sul piano processuale, ma etico e di sistema. E bisogna anche considerare quanto sia difficile dimostrare una molestia; per questo la forza della denuncia sta nel fatto che più donne molestate rivelano cosa è successo. Questo però non può avvenire con una querela singola alla magistratura. Chi parla di prove di molestie cosa intende? Foto del molestatore in atto? L’ampiezza di quello di cui si discute in questi giorni viene fuori grazie alle inchieste del New York Times, del New Yorker e di quelle a seguire.
Secondo The Conversation, non è sorprendente che dalle prime indagini giornalistiche sul caso Weinstein sia nata una cascata di accuse da parte di coloro che negli anni sono state vittime del produttore: “Prendendo seriamente le esperienze delle donne, questi articoli – e il conseguente clamore pubblico – hanno aperto uno spazio per le donne per raccontare le loro storie. Per queste donne significa essere credute e prese sul serio”, mentre il fatto che si tratti di una “rivelazione collettiva rende più difficile il fatto che le loro esperienze vengano sottovalutate”.
"Non si sono opposte, non è violenza"
Un ultimo argomento riguarda il rifiuto di fronte alla molestia o all’abuso sessuale: se questa si è consumata senza che la vittima opponesse troppa resistenza, allora non può essersi trattato di violenza. Secondo Bernardini si tratta di «una delle cose più violente che si possano dire e che purtroppo spesso si ascoltano, l’idea che siccome non hai detto ‘no’ con forza non mi sei stata abusata e anzi ti stava bene o lo volevi. È violenta e profondamente scorretta».
«Dire di ‘no’ - aggiunge - a volte ha a che fare anche con quanto si è fragili o forti, dall’educazione che si ha avuto, dalle storie personali: ci sono donne che nella loro vita fanno fatica a difendersi perché magari a loro volta nel passato hanno avuto storie di abusi. Perché una donna non riesce a dire di ‘no’, è una domanda ampia che attiene al vissuto di ognuna. Ci sono tanti elementi da considerare».
Il primo è la paralisi che spesso coglie chi subisce una violenza sessuale. In una testimonianza pubblicata nel 2016 su VICE una vittima di stupro ha raccontato così la sua esperienza: “Quando mi hanno stuprata, non c'è stata una lotta. Ho continuato a dire che non volevo fare sesso, ma quando ha cominciato a tirarmi giù i pantaloni e gli slip, il mio corpo si è come paralizzato. Un milione di pensieri mi hanno attraversato la testa e poi si sono fermati, e la mia mente si è come distaccata, spostata in un luogo più sicuro, mentre mi lasciavo stendere nella sua macchina, rigida e silenziosa”. Nello stesso articolo, il dottor Martin Antony, professore di psicologia alla Ryerson University, ha spiegato che “immobilizzarsi è una risposta alle minacce comune a tutti i mammiferi, non solo agli esseri umani”.
Anche Bernardini ha confermato che la paralisi è molto ricorrente nelle storie ascoltate da Telefono Rosa e in effetti la frase “mi sentivo paralizzata” è presente in molte testimonianze delle donne che stanno parlando in questi giorni.
Ma c’è anche un altro punto. «Quando si parla di molestie – spiega Bernardini - innanzitutto si parla di asimmetrie di potere. Non è importante che il molestatore davvero abbia un potere su di me, ma il fatto che io lo viva così. Poi, purtroppo, questi sono uomini potenti davvero, che hanno la possibilità di stroncare un futuro, una carriera o anche di impedire di lavorare in generale. Ricordiamoci che spesso e in tanti campi nelle cariche lavorative le donne sono quelle che non hanno ruoli apicali o guadagnano meno degli uomini».
È quello che, in un articolo su The Atlantic, l’attrice e sceneggiatrice Brit Marling ha definito "l’economia del consenso": Weinstein era "in grado di dare alle attrici una carriera che avrebbe sostenuto loro e le loro famiglie. E poteva anche dar loro fama, che è uno dei pochi modi per le donne di ottenere una qualche parvenza di potere e voce in una mondo patriarcale. Loro lo sapevano. Lui lo sapeva. E Weinstein poteva anche assicurare che queste donne non avrebbero lavorato mai più se l’avessero umiliato. Non si tratta di un esilio solo artistico o emotivo – ma anche economico”. Secondo Marling, “le cose che accadono nelle camere d’albergo e nelle sale riunioni di tutto il mondo (e in ogni campo) tra donne che cercano un lavoro o provano a tenerselo e uomini che detengono il potere di concederglielo o sottrarglielo si verificano in una zona grigia dove parole come ‘consenso’ non riescono a racchiudere pienamente la complessità”. Questo perché anche “il consenso è una funzione del potere. Devi avere un minimo di potere per darlo. E in molti casi le donne non ce l’hanno, perché il loro sostentamento è in pericolo e perché sono il genere oppresso da una guerra quotidiana e invisibile contro tutto ciò che è femminile”.
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Immagine in anteprima di Rachel Levit Ruiz, via yahoo