Il dramma nascosto dei naufragi nel Mediterraneo e il bavaglio ai giornalisti per impedirne il racconto
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Morti: 399. Dispersi: 487. È il tragico bilancio dei naufragi avvenuti nei primi sei mesi del 2024 nella rotta del Mediterraneo centrale, secondo i dati pubblicati dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM). Eppure, mentre in mare centinaia di persone continuano a morire tentando di raggiungere le nostre coste, in Italia è sempre più difficile dare conto dei naufragi: i giornalisti sono tenuti lontani dai porti e la stampa deve far fronte a una serie di ostacoli per raccontare questi eventi, che finiscono ormai per essere circondati da un muro di gomma impenetrabile.
Il problema non è nuovo: da anni le difficoltà dei cronisti di accedere ai porti si sommano all’impossibilità di entrare in contatto con i superstiti, il che rende praticamente impossibile ricostruire in maniera indipendente la verità dei fatti. A questo si aggiunge la scarsità di comunicazioni ufficiali, e la continua richiesta di autorizzazioni per avvicinarsi alla banchina. “Prima i cronisti potevano accedere ai porti per raccontare i naufragi, ma da diversi anni è difficile avvicinarsi”, racconta a Valigia Blu Eleonora Camilli, giornalista esperta di migrazioni che scrive sul quotidiano La Stampa. “È stato un cambiamento graduale: oggi c’è una grande distanza fisica tra chi racconta e chi dovrebbe essere raccontato”.
La questione è tornata alle cronache dopo il naufragio di metà giugno, avvenuto sulla stessa rotta del naufragio di Cutro del febbraio 2023, in cui si stima che siano morte circa 70 persone. Quello che è successo ha spinto diversi esperti a sostenere che il governo abbia voluto “nascondere” l’evento per evitare un altro caso mediatico: le 11 persone superstiti sono state portate nel porto di Roccella Ionica, in provincia di Reggio Calabria, ma i giornalisti sono stati tenuti lontani dalla banchina. I corpi delle persone morte invece sono stati fatti sbarcare in diversi porti calabresi: l'associazione Mem.Med (Memoria Mediterranea) ne ha contati almeno sei, anche a distanze di decine di chilometri - Locri, Polistena, Soverato, Siderno, Gioia Tauro, Reggio Calabria. Spesso i corpi sono stati trasportati durante la notte, quando il buio impediva di capire e documentare quello che stava succedendo. E anche i sopravvissuti, bisognosi di cure, sono stati ricoverati in ospedali diversi.
“Nessuna camera mortuaria con file di bare ha occupato la televisione pubblica, nessun cordoglio delle istituzioni, nessun commento delle cariche di governo e dello Stato”, ha scritto Mem.Med. “Da un punto di vista mediatico, dove non si sono potuti vedere i corpi, le bare, il dolore straziante, la narrazione si è ritratta lasciando un grande vuoto. Non ci sono resti dell’imbarcazione – ancora inabissata in alto mare – non sono visibili oggetti dei sopravvissuti o delle vittime, non ci sono messaggi di solidarietà”.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Le violazioni costanti del diritto di cronaca durante gli sbarchi
Il 25 giugno, i direttori e i giornalisti crotonesi hanno mandato una lettera al prefetto denunciando che “si vuole tenere la stampa lontano dai migranti”. Nella lettera si parla di un “clima ostile nei nostri confronti”, evidenziando come “nella serata di lunedì 24 giugno, in occasione dell’arrivo della nave Diciotti della Guardia Costiera, con a bordo cinque salme di migranti deceduti nel naufragio dei giorni scorsi al largo delle coste calabresi, ai cronisti è stato proprio vietato di entrare”. Non è una novità: i giornalisti denunciano che da circa due anni è diventato sempre più difficile documentare gli arrivi di migranti al porto di Crotone. Per accedervi bisogna chiedere l’autorizzazione ad ogni singolo evento. “Solitamente, quando veniamo a conoscenza di uno sbarco, ci tocca inviare una mail a tre indirizzi diversi ed attendere le autorizzazioni sperando che qualcuno legga quelle richieste”, scrivono. “Tuttavia, nonostante le regolari richieste, con tanto di accettazione via mail, è anche capitato che qualcuno sostenesse che non avessimo di diritto di lavorare in quel posto. L’attuale procedura burocratica non solo ritarda lo svolgimento del nostro lavoro, che in casi come questo richiede massima tempestività, ma talvolta ha rappresentato un vero e proprio ostacolo al diritto di cronaca che quotidianamente esercitiamo”.
Il problema non riguarda solo il porto di Crotone: anche in quello di Roccella Ionica è stato vietato ai giornalisti di avvicinarsi, e sulla banchina è stata individuata un’area per i cronisti, delimitata a terra con la scritta "Press". “Per la prima volta in oltre 20 anni di continui approdi, anche tragici, le operazioni sono state effettuate sulla banchina più lontana e a molta distanza dai giornalisti", denuncia l'emittente calabra LaC News. “A distanza di più di una settimana dai fatti, nessun punto stampa è stato ancora organizzato, e i pochi aggiornamenti ufficiali diffusi da prefettura e capitaneria sono rimasti circoscritti a scarni comunicati spesso in contraddizione tra loro”.
Non solo: i giornalisti che vogliono documentare le operazioni di sbarco nei porti sono perfino costretti al pagamento di una tassa. Da settembre 2023, nel porto di Roccella è in vigore un obbligo di accredito da parte di giornalisti, fotografi e operatori che comporta il pagamento di una marca da bollo di 16 euro. Lo stesso vale nel porto di Reggio Calabria. Per questo, il 26 giugno è stata presentata un’interrogazione parlamentare al Ministero delle Infrastrutture, da parte di alcuni senatori del Partito Democratico, dove si ricorda che l’articolo 21 della Costituzione prevede che la stampa non possa essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
“Anche al porto di Lampedusa la banchina è preclusa ai giornalisti”, spiega a Valigia Blu la giornalista Eleonora Camilli. “Per assistere agli sbarchi ti devi arrampicare sul muro di un piazzale di cemento adiacente agli scogli, ma non riesci ad avvicinarti: i migranti sono caricati subito su bus e vengono portati direttamente nell’hotspot”. Anche l’hotspot è un luogo totalmente inaccessibile: “Dal 2016-2017, quando è entrata in vigore l’Agenda europea per le migrazioni, l’hotspot è stato chiuso ai giornalisti”, prosegue Camilli. “Se vuoi intervistare qualcuno, devi aspettare che si avvicini al cancello. Oppure ti puoi arrampicare su una collinetta lì dietro, da dove si vede dentro, per capire le condizioni in cui vivono queste persone”.
C’è chi vigila dalla terra, e chi lo fa dal cielo. Come gli aerei delle ONG, che non solo monitorano eventuali naufragi e barche in difficoltà, ma con foto e video documentano i respingimenti, portando una testimonianza unica su ciò che avviene in mezzo al mare. A inizio maggio l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile (ENAC) ha bloccato gli aerei delle ONG nel Mediterraneo centrale, emanando una serie di ordinanze che dispongono l'“interdizione all'operatività dei velivoli”. “Siamo di fronte a un brutto ricalco del decreto Piantedosi che ha l’intento di chiudere gli occhi sugli obbrobri e le continue violazioni dei diritti umani che avvengono nel Mediterraneo centrale ad opera della cosiddetta Guardia costiera libica, sostenuta e profumatamente sovvenzionata da Italia e UE”, ha dichiarato la portavoce di Sea Watch Giorgia Linardi. Non è la prima volta che questo succede: già nel 2019 l'ENAC aveva proibito a due aerei della Humanitarian Pilots Initiative, in collaborazione con Sea-Watch e Pilotes Volontaires, di pattugliare la stessa zona del Mediterraneo.
“Si vuole mettere a tacere anche quest’altra voce, gli occhi che vedono dall’alto”, commenta Eleonora Camilli. “Nel frattempo la situazione per chi si mette in fuga è sempre più pericolosa. Con le politiche sempre più restrittive sulla partenze e gli accordi con paesi come la Tunisia e la Libia, oggi le barche partono ancora più stipate di persone: spesso si tratta di barchini di ferro che si rovesciano dopo la prima ondata”. Sempre questo giugno è stato recuperato un barchino partito dalla Libia, c’erano dieci persone chiuse sotto nella stiva, otto sono morte per asfissia. Per recuperarli i soccorritori hanno dovuto demolire parte del ponte della nave con colpi d’ascia.
Libertà dei media sotto attacco con il governo Meloni
Ma il problema non riguarda solo il racconto degli sbarchi: il governo Meloni sta cercando di restringere la libertà di stampa in molti modi, destando preoccupazione a livello internazionale, dalla situazione della governance Rai alla possibile vendita di AGI a un parlamentare di maggioranza, fino alla legge sulla diffamazione.
L’ultimo allarme è stato lanciato il 10 luglio dallo European Movement International, organizzazione europeista che fa da ombrello a sindacati e famiglie politiche europee (tra cui i Popolari, le formazioni liberali, il Partito socialista, i Verdi, la Confederazione dei sindacati europei e tante altre realtà). Lo European Movement International ha inviato una lettera alla vicepresidente della Commissione europea Věra Jourová, chiedendo di indagare sugli attacchi del governo alla libertà dei media. La preoccupazione è derivata anche dallo slittamento della pubblicazione del rapporto annuale della Commissione Europea sullo stato di diritto in Italia, prevista per inizio luglio. Il rapporto potrebbe accendere una luce sugli attacchi del governo italiano alla libertà dei media, ma la sua uscita è stata ritardata attendendo la riconferma definitiva di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione, sperando nel supporto di leader tra cui Giorgia Meloni per ottenere un secondo mandato.
Nel frattempo, il monitor del Centre for Media Pluralism and Media Freedom ha attestato il restringimento della libertà dei media in Italia: rispetto all’anno precedente, il nostro paese passa dalla fascia a rischio basso a quella a rischio medio in un settore cruciale come quello della cosiddetta «protezione fondamentale», che valuta se ci sono le condizioni di base per un giornalismo libero e indipendente, a seguito anche di minacce, pressioni e querele temerarie contro i giornalisti. In tutti gli ambiti che riguardano il pluralismo, dalla «protezione fondamentale» alla «market plurality» e cioè gli assetti proprietari, passando per l’«indipendenza dalla politica» e la «inclusività sociale», l’Italia è ora in zona a medio rischio.
Anche il World Press Freedom Index 2024 di Reporters sans frontières, l’indice mondiale della libertà di stampa, aveva già visto una retrocessione di cinque posizioni da parte dell’Italia, che era finita così nelle zone “problematiche” insieme all’Ungheria. Lo scorso maggio c'è stata la missione del consorzio europeo Media Freedom Rapid Response per fare il punto sulle decine di episodi di allerta segnalati in Italia. I delegati europei avevano chiesto di essere ricevuti dal ministro della Giustizia, o dalla presidente della commissione Giustizia del Senato e da tutti i capigruppo della stessa commissione. Ma senza successo. “Siamo dispiaciuti perché non abbiamo incontrato nessuno dei rappresentanti del governo”, ha dichiarato Sielke Kelner del team del Media Freedom Rapid Response.
Immagine in anteprima: frame video Reggio Today