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“Libera dal cancro”: cosa ci insegna il percorso di Kate Middleton attraverso la malattia

5 Ottobre 2024 14 min lettura

“Libera dal cancro”: cosa ci insegna il percorso di Kate Middleton attraverso la malattia

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Circa sei mesi dopo aver reso noto di aver iniziato un percorso di chemioterapia, la Principessa del Galles Catherine Middleton ha detto di essere “cancer free”, ovvero libera dal cancro. “Mentre l’estate volge al termine, non riesco a spiegarvi il sollievo di aver finalmente completato il mio trattamento di chemioterapia”, ha comunicato in un video che la ritrae insieme alla sua famiglia nella campagna inglese.

Dal video di Middleton traspare un certo senso di speranza e conforto, ma anche il desiderio di parlare della malattia con realismo e concretezza. “Gli ultimi nove mesi sono stati incredibilmente difficili per la nostra famiglia”, ha ammesso Middleton, “e abbiamo dovuto trovare un modo per navigare in acque tempestose e strade sconosciute”. Il percorso però non è finito: “Il mio obiettivo è ora fare ciò che posso per rimanere libera dal cancro”, ha detto, aggiungendo che “sebbene io abbia finito la chemioterapia, il mio percorso di guarigione e di pieno recupero è lungo e devo continuare a prendere ogni giorno come viene”.

Convivere col cancro

Come spiega Middleton nel video, convivere col cancro è “complesso, spaventoso e imprevedibile per chiunque, soprattutto per le persone più vicino a te”, e costringe a fare i conti con le proprie “vulnerabilità in un modo che non avevi mai considerato prima”. Soprattutto, è un percorso che inizia con la diagnosi ma non finisce al termine della terapia. Ricevere una diagnosi di tumore è un momento traumatico: può fare sentire sopraffatti, spaventati e ansiosi, tra una serie di informazioni spesso difficili da comprendere e metabolizzare e una nuova e complicata fase della vita che si prospetta. Ansia, rabbia, frustrazione e stress sono alcune delle emozioni che chi scopre di avere un tumore può ritrovarsi a provare. 

Per questa ragione il supporto medico e il modo in cui viene data la diagnosi diventa centrale. La dottoressa Laura Baum, oncologa medica presso lo Yale Cancer Center, ha spiegato a Valigia Blu: “Molti credono che dare cattive notizie faccia semplicemente parte dell’‘arte della medicina’. In realtà, la comunicazione in medicina è un’abilità acquisita che risulta più facile ad alcune persone rispetto ad altre, ma che può essere insegnata, appresa, praticata e migliorata. Nel campo delle cure palliative, si parla addirittura della comunicazione di cattive notizie come di una ‘procedura medica’, perché richiede una precisa competenza di alto livello”. 

Baum spiega che “un acronimo per comunicare le cattive notizie è SPIKES, che si riferisce al Setting (dove viene data la notizia), alla Percezione (ciò che il paziente già sa), all’Invito, alla Conoscenza, alle Emozioni (affrontare le emozioni del paziente e trasmettere empatia) e al Supporto. Il medico deve preoccuparsi di fornire la diagnosi tenendo conto di questi passaggi e di essere al corrente delle emozioni del paziente e della famiglia per tutto il tempo, per rispondere in modo appropriato e affrontare i segnali emotivi nel corso della visita”. 

Secondo Baum, infatti, “il modo di dare la notizia, di fornire informazioni e di sostenere il paziente e la famiglia è molto importante, innanzitutto per aiutarli a elaborare l’informazione e a capire che hanno questa nuova diagnosi seria” con cui fare i conti. Come detto, è un momento traumatico, e come tutte le volte che “si verificano eventi traumatici”, sostiene l’esperta, “la comunicazione nel nostro cervello è notevolmente disturbata. Un’assistenza formata sui traumi aiuta il paziente a controllare le cose che può controllare (i sintomi del trauma) per ottenere un maggiore senso di controllo e una minore dipendenza da meccanismi di reazione malsani”.

Perciò, dice ancora la dottoressa Baum, “sono necessari interventi di supporto per aiutare a ristabilire l’ordine, aumentare la capacità di auto-osservazione, aiutare il paziente a trovare le parole e ristabilire un processo di ordine nel suo pensiero. Il primo passo per tutto questo è che il paziente deve sapere di essere in buone mani, di non essere solo e di avere il sostegno dell’équipe medica, della famiglia e degli amici”.

Oltre la diagnosi

Dopo lo shock iniziale, può succedere che le emozioni di tristezza, rabbia e preoccupazione si riducano o si mantengano su un livello tale da poter essere gestite in autonomia. In certi casi, invece, la paura e la frustrazione possono prevalere o ampliarsi durante il trattamento, spesso lungo e molto difficile da sopportare anche fisicamente. Come spiegano da Cancer Research UK, le reazioni e la gestione della malattia dal punto di vista psicologico sono imprevedibili e personali e possono anche non essere lineari: “potresti scoprire che le tue emozioni sono molto altalenanti. È normale avere momenti, a volte giorni, in cui ci si sente arrabbiati e tristi”, ed è importante “permettersi di provare questi sentimenti”. 

A volte le difficoltà iniziano o si amplificano al termine del trattamento: “Questo può succedere perché” le persone “ricevono meno supporto dall’ospedale o dagli amici e dalla famiglia”, chiariscono dall’associazione britannica, oppure perché si ha più tempo “per riflettere sulla propria esperienza e non si è più in modalità ‘sopravvivenza’”, e dunque in uno stato di allerta generato dallo stress della situazione. 

Come ha detto anche Middleton nel suo video, infatti, al termine della terapia inizia un’altra fase della vita che spesso impone un cambiamento nelle abitudini e nello stile di vita e che è intervallata dai controlli periodici, dagli esami e dalle visite specialistiche. La paura che il tumore ritorni, l’ansia pre-controlli, il diradarsi dei contatti con i medici e quindi con coloro che possono dare delle risposte, la necessità di un adattamento a una vita diversa, sono tutti fattori che possono contribuire a un incremento dello stress e a uno stato d’ansia. In alcuni casi poi si può entrare in una fase di cronicità, se il cancro non è curabile ma può essere tenuto sotto controllo: una condizione che può essere molto difficile da gestire sia da un punto di vista fisico sia emotivo. 

Per Cancer Research UK è importante sapere allora che si può chiedere supporto in qualunque momento: “Non devi aspettare di stare molto male per chiedere aiuto”. Anche i familiari e le persone care possono avere bisogno di supporto psicologico adeguato. In molti casi queste diventano caregiver, e cioè le figure principali di assistenza, e si ritrovano così a dover gestire sia la sofferenza per la malattia della persona cara sia il carico mentale e fisico della cura: una condizione che può generare stress cronico e aumentare il rischio di sviluppare ansia e sintomi depressivi.

Lo stigma e le metafore per parlare di tumore

A contribuire allo stato d’ansia e frustrazione che vivere col cancro può provocare vi è anche lo stigma attorno alla malattia. Si fa ancora fatica ad esempio in alcuni contesti a pronunciare la parola “cancro”, si utilizzano eufemismi e si ricorre a metafore che finiscono da un lato a non inquadrare le necessità reali e specifiche delle persone che convivono con un tumore e dall’altro a giudicare le reazioni e la gestione di una malattia. 

Quando l’ex calciatore, allenatore e commentatore televisivo Gianluca Vialli ha ricevuto la diagnosi di cancro al pancreas, non sapeva fosse uno dei più gravi, ma lo ha intuito da come il medico si è rivolto a lui. “E, quando lo capisco”, scrive nel suo libro Goals. 98 storie + 1 per affrontare le sfide più difficili, “mi sento perduto”. Alle sue figlie sceglie di dirlo un mese dopo, il giorno di Santo Stefano. È un momento molto intimo che racconta con lucidità ed emotività: “Mentre parlo con loro, e loro piangono e io piango, capisco che non è vero che il cancro è questo grande nemico da sconfiggere. Non è una lotta per uccidere lui”. Piuttosto, “è una sfida per cambiare se stessi”, scrive Vialli. 

In un'intervista successiva, l’ex calciatore spiegherà che per lui la malattia “non è esclusivamente sofferenza” e soprattutto che non la considera una battaglia: “Io ho detto più volte ‘se mi mettessi a fare una battaglia col cancro ne uscirei probabilmente distrutto’”. Per questo ha preferito considerarla “una fase della mia vita, un compagno di viaggio”, con la speranza che prima o poi potesse abbandonarlo. Vialli ha scelto di mostrare la sua vulnerabilità e non cedere alla retorica della battaglia che, se per qualcuno può rappresentare uno stimolo a reagire in un momento di difficoltà, per altri può rivelarsi una prospettiva dannosa. Definire la malattia una battaglia infatti lascia intendere che sopravvivere e guarire è una responsabilità e un valore di chi ci riesce, di chi non si arrende ed è migliore e più forte del tumore, ma anche di tutti gli altri, di quelli che non ce la fanno, che secondo questa logica allora non avrebbero lottato abbastanza.

Per abbattere lo stigma nei confronti della malattia, bisognerebbe invece partire dalla riappropriazione e accettazione dei momenti di vulnerabilità, da un utilizzo corretto del linguaggio e da una divulgazione accurata sui progressi medici, e provare anche a sciogliere, o quantomeno comprendere, quelle ambiguità semantiche che esistono quando si parla di patologie oncologiche.

Sopravvivere, guarire, essere “cancer free

Nel suo video Middleton ha scelto di definirsi “cancer free”, libera dal cancro, un’espressione che al termine di un percorso di terapia può avere due significati: il primo sta a indicare che, utilizzando i test diagnostici disponibili, non sono state trovate cellule tumorali nell’organismo; il secondo invece che la persona non ha più il cancro.

Non sappiamo quale sia il significato che Middleton volesse comunicare, ma affermare con certezza che non ci siano più cellule tumorali al termine di un percorso di chemioterapia è considerato inaccurato perché queste potrebbero essere ancora presenti, ma i mezzi diagnostici non sono riusciti a rilevarle. Per questo motivo, si preferisce parlare allora di “remissione”, che sta a indicare l’attenuazione o la scomparsa dei sintomi avvertiti dal paziente e dei segni rilevati dai medici che un tumore provoca.

La remissione si dice “completa”, quando sono scomparsi i sintomi e non vengono rilevati segni dagli strumenti diagnostici disponibili; è invece “parziale” quando viene riscontrato un miglioramento, ma sono ancora presenti segni del tumore. Anche il concetto di guarigione in ambito oncologico è piuttosto complicato da definire ed esistono delle differenze e ambiguità nei significati attribuiti a certe parole tra il linguaggio medico e quello comune, ma anche differenze di pensiero nel settore.

Alcune espressioni come “cancer survivor” (persona sopravvissuta al cancro), “cancer free” (libera dal cancro), “lungovivente” e in condizioni di “lungo sopravvivenza”, ad esempio, possono avere anche più significati. “Cancer survivor” può indicare situazioni diverse: in alcuni contesti è utilizzato in riferimento a chiunque abbia ricevuto una diagnosi di tumore, in altri invece in maniera più specifica alle persone che non sono morte dopo un certo numero di anni dalla diagnosi. 

In linea generale per stimare la guarigione da un tumore oggi si tende a considerare due parametri: la probabilità di guarigione, e cioè la percentuale di pazienti che al momento della diagnosi raggiungeranno la stessa aspettativa di vita delle persone della loro stessa età e del loro stesso sesso che non hanno ricevuto una diagnosi; e il tempo per la guarigione, e cioè il numero di anni necessari a un paziente oncologico per raggiungere un’aspettativa di vita simile a quella dei coetanei che non hanno ricevuto la diagnosi. 

Molto dipende dalla diagnosi ricevuta, dal tipo di tumore, dallo stadio e dalle cure disponibili, oltre che dalla situazione personale del paziente. Per molti tumori, sappiamo che oggi si considera un periodo di tempo cinque anni per parlare di guarigione. “Ci sono però altri tipi di cancro per i quali possono essere necessari 10 anni di monitoraggio prima di determinare una guarigione o che potrebbero ripresentarsi anche molto più tardi”, ha detto la dottoressa Baum. Un esempio è il tumore alla mammella, che è molto frequente e l’eccesso di rischio che si ripresenti si mantiene anche fino a 15-20 anni

Nel campo della ricerca sul cancro, ha spiegato Baum, “si registrano continuamente progressi” e “molte diagnosi che un tempo erano considerate incurabili diventano curabili o almeno trattabili per un periodo di tempo più lungo. Tuttavia, al momento non siamo neanche lontanamente vicini alla guarigione di tutti i tumori. In particolare nei tumori gastrointestinali, di cui mi occupo, molti dei nostri tipi di cancro hanno prognosi infauste e basse percentuali di guarigione, per esempio i tumori del pancreas e delle vie biliari. Avremo bisogno di una svolta scientifica per cambiare questa situazione, un trattamento che cambi il paradigma e che migliori i risultati per i pazienti affetti da queste malattie. Spero che questo avvenga grazie agli scienziati in laboratorio”.

Le diagnosi in Italia

Nel 2023 in Italia sono state stimate 395 mila nuove diagnosi di tumore, oltre 18mila in più rispetto al 2020. Oltre all’invecchiamento della popolazione che contribuisce all’andamento crescente dei casi, anche gli effetti della pandemia avrebbero inciso sull’aumento degli ultimi anni: a causa dell’interruzione dei programmi di screening e prevenzione e del rallentamento delle attività di controllo nei mesi dell’emergenza sanitaria, si è verificato infatti un provvisorio calo di nuove diagnosi poi recuperate nei mesi e anni successivi.

I numeri in Italia intanto però offrono anche una prospettiva positiva: circa 6 persone su 10 sono vive dopo 5 anni da una diagnosi di cancro e delle circa 4 milioni di persone che vivono in Italia dopo aver ricevuto una diagnosi di tumore, 1 milione oggi potrebbe essere definito guarito e ha un’aspettativa di vita pari a chi non ha mai ricevuto una diagnosi di tumore. Inoltre, il numero di persone che vivono dopo una diagnosi di cancro in Italia aumenterebbe ogni anno di circa il 3%. 

Si tratta di dati importanti da tenere a mente e che, secondo la Fondazione AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), possono aiutare a comprendere ancora di più la necessità di un cambio di paradigma nel modo in cui parliamo di cancro: dall’idea del “male incurabile” a una patologia cronica da cui “si può guarire”, per arrivare in futuro alla conferma del “si guarisce”. Da un lato, questo può avere un certo impatto sul modo in cui concepiamo le patologie oncologiche e lo stigma che le circonda e può essere anche di conforto per coloro che ricevono una diagnosi. Dall’altro lato, potersi definire guariti ha anche implicazioni da un punto di vista pratico. 

A lungo infatti ricevere una diagnosi di tumore in Italia poteva precludere l’accesso a prestiti, mutui e assicurazioni o fare richiesta di adozione, anche molti anni dopo aver concluso il percorso di terapia. Molte persone malate di cancro hanno subito “ingiustamente discriminazioni legate alla malattia”, ha spiegato la Fondazione AIOM. Da qui, è nata la campagna Io non sono il mio tumore, per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sulla necessità di una legge sul diritto all’oblio oncologico, e cioè alla possibilità in certe situazioni di non dover rivelare di avere avuto un tumore, come già stabilito in altri paesi. 

La legge è stata infine approvata a dicembre 2023 e vieta a istituzioni bancarie e assicurative di chiedere informazioni sullo stato di salute riguardo patologie oncologiche da cui la persona richiedente “sia stata precedentemente affetta e il cui trattamento attivo si sia concluso, senza episodi di recidiva, da più di dieci anni alla data della richiesta” che diventano cinque, se la patologia è insorta prima dei 21 anni di età. “È stata una battaglia molto importante, che ha contribuito a raggiungere questo importante risultato”, hanno commentato dalla Fondazione: “È indispensabile permettere ai pazienti, soprattutto ai più giovani, di godere di una vita libera e completa dopo la fine delle cure”.


Gli interventi necessari per una vita di qualità

Per la Fondazione AIOM, cambiare approccio nel modo in cui si parla di cancro “può diventare anche un elemento motivante per l’adesione agli screening una volta che si sia compreso che la guarigione è tanto più facile quanto più precoce è la diagnosi”. La situazione della prevenzione in Italia è ad oggi piuttosto critica e richiederebbe interventi profondi. Innanzitutto, quando si parla di prevenzione si distingue tra quella primaria, e dunque gli stili di vita e le abitudini che possono ridurre il rischio di sviluppare un tumore, e secondaria, e cioè le attività di screening. Fare esercizio fisico, avere una dieta bilanciata, non fumare e non esporsi eccessivamente al sole e senza protezioni adeguate sono alcuni esempi di prevenzione primaria. 

Come spiega il Presidente dell’Associazione AIOM Francesco Perrone, però, già a livello nazionale “i miglioramenti” in questo ambito “o non ci sono o quando ci sono sono troppo piccoli”, ma “per di più continuiamo a vedere un gradiente di distribuzione di questi fattori di rischio nella loro modalità peggiore che tende a concentrarsi ancora una volta nelle regioni meridionali” oltre che nelle “fasce della popolazione che soffrono un maggiore disagio sociale da un punto di vista della ricchezza economica” e anche “del livello di educazione”. 

Questo tipo di disparità e la diffusione di certi stili di vita non sempre rappresentano però una scelta o possono essere ridotti a responsabilità personale. Negli ultimi anni ad esempio il livello di sedentarietà è cresciuto su tutto il territorio nazionale, ma più velocemente tra i giovani, tra chi vive nelle regioni meridionali e tra chi ha difficoltà economiche. Guardando però ad esempio ai dati sugli impianti sportivi, si nota una distribuzione non equa in Italia, con oltre la metà delle strutture pubbliche e private di interesse pubblico che si trova al Nord, e il 22% e il 26% rispettivamente al Centro e al Sud. Solo 4 edifici scolastici su 10 poi hanno una palestra. Nello specifico delle scuole primarie, il 54% dei loro allievi nel Centro-Nord frequentano strutture che non sono dotate di palestra mentre al Sud sono il 66%, con picchi dell’81% in Sicilia e dell’83% in Calabria. Dati simili si mantengono anche nelle scuole medie e superiori. 

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Le stesse disparità territoriali si rilevano poi anche per quanto riguarda la prevenzione secondaria, che ha un ruolo centrale perché permette di individuare determinate patologie in fase precoce e quindi evitare interventi invasivi e aumentare le probabilità di sopravvivenza. Se già in Italia la copertura non raggiunge gli standard europei, al Sud è in molti casi sotto la media nazionale e si fa più fatica a offrire e favorire la partecipazione alle campagne di prevenzione. È un quadro che Perrone definisce come “molto pericoloso” e su cui bisogna “tenere i riflettori accesi, perché il Servizio Sanitario Nazionale deve provare a fare di più di quanto fino ad oggi si fa”.

Non solo nella prevenzione, ma anche nella presa in carico dei pazienti post terapia sono necessari interventi importanti, commentano dalla Fondazione AIOM. Molte persone, al termine di un trattamento di chemioterapia, entrano in uno stato di cronicità: da un lato, dice Perrone, questa è da considerarsi una “bella notizia”, perché vuol dire “che guariamo sempre più pazienti e consentiamo a sempre più pazienti di entrare in una fase di malattia cronica”. Dall’altro lato però resta il “timore” che il “carico assistenziale di persone con cronicità possa non trovare sufficiente risposta, per motivi organizzativi, per carenza di personale o per errata allocazione di personale medico” e anche “infermieristico”. 

Un altro aspetto critico è quello della riabilitazione oncologica, che come sottolinea AIOM dovrebbe essere una “parte integrante del piano terapeutico di ciascun malato di cancro”, ma che non sempre è così: molte persone che hanno ricevuto diagnosi di tumore si ritrovano a gestire disabilità di vario livello provocate dalla patologia o dai trattamenti, ma non ricevono il supporto e la riabilitazione necessaria per poter condurre una vita soddisfacente e di qualità. “Molti di questi temi”, ha commentato Perrone, “non dipendono dalla singola professionalità di ogni singolo oncologo”, ma piuttosto “dall’organizzazione della gestione del problema cancro nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale”.

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