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Meloni di governo e vittimismo

5 Gennaio 2024 11 min lettura

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Meloni di governo e vittimismo

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Dopo aver più volte rimandato l’usuale conferenza di fine anno a causa di motivi di salute, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è presentata ieri davanti ai giornalisti per fare un bilancio dell’anno passato sul fronte politico, rispondendo per oltre tre ore alle domande dei giornalisti. 

Vediamo quali sono stati i temi più importanti su cui si sono concentrate le domande delle giornaliste e dei giornalisti alla Presidente del Consiglio. 

Sull’economia Meloni non la racconta giusta

Tra i temi più toccati nel corso del dibattito c’è ovviamente l’economia. Meloni inizia subito con una dichiarazione sviante: la Presidente del Consiglio ha affermato che “la crescita italiana è stimata comunque superiore alla media europea”. In realtà, almeno stando alle proiezioni per il 2024 del Fondo Monetario Internazionale (FMI), il nostro paese tornerà a essere fanalino di coda. I paesi nostri competitor come Francia e Germania cresceranno rispettivamente dell’1,3% e dello 0,9%, mentre la Spagna toccherà l’1,7%: il nostro paese, invece, secondo l’FMI si ferma allo 0,7%. Anche prendendo la media europa si ottiene una crescita dell’1,5%, mentre l’area euro crescerà dell’1,2%. 

Non va meglio con la seconda affermazione: Meloni ha detto che il governo ha tagliato la spesa e diminuito le tasse. Ma la questione non è così semplice. Se è vero che la spesa pubblica è scesa in percentuale al PIL, i dati del governo (come avevamo già spiegato in questo articolo) mostrano che la spesa pubblica al netto degli interessi - il cosiddetto “avanzo primario” - resta alta. Il governo Meloni, come anche altri governi in precedenza, ha poi fatto affidamento su uno scostamento di bilancio, ovvero ha chiesto al Parlamento di spendere più soldi rispetto a quanto preventivato.

Anche i tagli promessi dal governo Meloni, come quelli “improduttivi” per il Reddito di cittadinanza, sono stati più contenuti del previsto. Secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio la riforma del Reddito di Cittadinanza porterà a un risparmio di 2,7 miliardi di euro su un totale di 8 miliardi. Altre stime sono ancora meno favorevoli per il governo, individuando un risparmio di circa un miliardo. 

I tagli della spesa, poi, non sono legati al taglio delle tasse voluto dal governo Meloni. Il rinnovo del taglio del cuneo fiscale è infatti finanziato a debito e solo per un altro anno. Ma dal prossimo anno rientra in essere il Patto di Stabilità: questo significa che vi sarà meno spazio di manovra, poiché si dovrà invece puntare a ridurre il debito. 

Per ora, quindi, le promesse di tagli della spesa da parte di Meloni per bilanciare quelli delle tasse rimangono delle parole da conferenza stampa, non una descrizione della realtà dei fatti. 

Infine, è stato toccato il tema delle privatizzazioni e delle banche. Meloni ha rivendicato l’imposta sugli extraprofitti sulle banche. In realtà, come ha spiegato su La Voce Rony Hamaui, l’imposta sugli extraprofitti si è trasformata in una “farsa”. I limiti posti dalla legge, infatti, sono stati facilmente aggirati dalle banche. Queste potevano scegliere se pagare la tassa sugli extraprofitti o aumentare, con quegli extraprofitti, il loro patrimonio, mettendoli nelle loro riserve. Hanno scelto la seconda opzione che, tradotto, significa: l’imposta sugli extraprofitti è stata più un tentativo nottetempo di trovare risorse, colpendo un settore che è semplice attaccare dal punto di vista elettorale. 

Sulle privatizzazioni, invece, si ripropone il solito schema di Meloni. Il governo sembra infatti intenzionato a cedere quote di Ferrovie e Poste, pur mantenendo il controllo. In un contesto mutato rispetto alla stagione delle privatizzazioni, con un nuovo ruolo dello Stato, Meloni ha affermato che l’obiettivo delle privatizzazioni è lasciare al privato quello che sa fare meglio, per rendere più forte lo Stato laddove è necessario. Non si capisce però il punto: se il privato è migliore in campi come Poste e Ferrovie (e già qui la ricerca scientifica avrebbe da obiettare) perché cedere solo quote di minoranza? Qua più che economico, il ragionamento è politico: da una parte Meloni non vuole passare per l’ennesima politica che svende il patrimonio pubblico italiano, dall’altra, come aveva già osservato Tajani mesi fa, privatizzare è un ottimo modo per far cassa. 

Sull’immigrazione, deterrenza e Piano Mattei

Poi è stata toccata la questione della gestione dei flussi migratori. 

Secondo i dati del Viminale vi è un netto aumento del numero degli immigrati. Nel 2023 gli sbarchi sono arrivati a 157.652, mentre l’ultimo anno paragonabile (2019) gli sbarchi si erano fermati a 11.471. Si tratta del numero di sbarchi più alto dal 2016, quando furono 181.436. Meloni si è detta non soddisfatta di quanto sta avvenendo sull’immigrazione. D’altronde, le mosse del governo su questo fronte continuano a rivelarsi fallimentari, come dimostra l’accordo con l’Albania, sospeso dall’Alta Corte albanese che a breve esaminerà di nuovo il caso. L’accordo prevedeva che l’Albania si sarebbe fatta carico dei migranti salvati dalle autorità italiane. 

La presidente del Consiglio ha rivendicato ancora una volta la strada del Piano Mattei, un programma presentato proprio dal governo Meloni per lo sviluppo del continente africano. Al di là delle difficoltà che riguardano lo sviluppo economico che sono ancora oggi dibattute dagli studiosi (qui un articolo di Maia Mindel che spiega i limiti dello studio citato in precedenza), si tratterebbe comunque di un piano sul lungo periodo che avrebbe effetti soltanto nell’arco di decenni, nel migliore dei casi. Inoltre lo sforzo in solitario dell’Italia non sarebbe abbastanza per garantire il giusto livello di investimenti necessari per lo sviluppo del continente africano. Durante la conferenza  stampa Meloni si è augurata che altre nazioni seguano questo modello, ma non è affatto chiaro quale sia la strategia dell’Italia. 

Il Premierato e i poteri del Presidente della Repubblica

Dopo aver abbandonato l’idea del presidenzialismo, la coalizione di destra radicale al governo ha impostato la sua riforma costituzionale sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio. Secondo Meloni questo porterà una maggior stabilità e una maggior rappresentabilità in seno alla politica italiana. 

In realtà le affermazioni di Meloni, per quanto suggestive, non trovano riscontro nella realtà. Ampliando lo sguardo, anche altri paesi che prevedono l’elezione diretta del capo dello Stato (presidenzialismo o semipresidenzialismo) non mostrano una maggior stabilità. Di esempi non ne mancano: pensiamo ad esempio alla Francia, dove il Presidente Macron si ritrova senza una chiara maggioranza alla Camera e il governo di Elisabette Borne si vede costretta a doverla costruire di volta in volta, recentemente spostando il suo partito talmenta a destra sull’immigrazione da destare malumori e defezioni in seno al governo. O pensiamo agli Stati Uniti che, con una Camera a maggioranza repubblicana, sono quasi finiti in default economico per la prima volta nella loro storia. Quanto all’affermazione che la riforma non toccherebbe i poteri del Presidente della Repubblica, rimandiamo a quanto già scritto su Valigia Blu da Vitalba Azzollini.

A tutto questo va aggiunta una considerazione di natura politica: Giorgia Meloni sta camminando su un confine molto delicato. In Parlamento la maggioranza dei due terzi è molto difficile, quindi è probabile che anche questa riforma debba passare attraverso la strada del referendum. Meloni spera di intercettare quel sentimento che, purtroppo, siamo abituati a chiamare populista di coloro che ritengono che il Presidente del Consiglio debba essere eletto dal popolo. In un qualche modo, questo lo renderebbe simile a un altro referendum che si definirebbe populista: quello sul taglio dei parlamentari, stravinto dal Movimento 5 Stelle. 

Il rischio, però, è che da una parte le pulsioni populiste siano contrapposte ai richiami alla Costituzione e alla cupidigia di potere che hanno invece contraddistinto il referendum di Renzi. Qualora dovesse vincere il referendum, infatti, per Meloni la vita politica si semplificherebbe molto. Grazie al premio di maggioranza e una posizione di potere che le permetterebbe di modificare la legge elettorale (che non è materia costituzionale) a piacimento, potrebbe sfruttare le debolezze e le divisioni delle opposizioni per garantirsi una lunga permanenza a Palazzo Chigi. Ma proprio questa prospettiva, accompagnata dalla sete di potere e dai richiami alla “Costituzione più bella del mondo”, potrebbe far scattare per l’appunto uno scenario alla Renzi 2016. E a quel punto la posizione di Meloni, che ha puntato molto sulla riforma, si farebbe più difficile. 

Il rapporto con l’Europa e le difficoltà di un cambio di maggioranza

Durante la conferenza stampa si è parlato anche del rapporto con l’Europa, sempre a partire dai temi economici. Come già avevamo scritto, l’Italia si dice soddisfatta del compromesso raggiunto sul patto di stabilità, anche se Meloni ha tenuto a precisare: “Non è il Patto di Stabilità che volevo io”. I parametri fissi che sono stati reinseriti nell’accordo all’Ecofin sulla riduzione del debito richiederanno al governo maggiori sacrifici, anche al netto dello sconto sugli interessi che l’Italia è riuscita a strappare.

Diversa, e in qualche modo inconsistente, la posizione di Meloni sul MES. Secondo la premier, infatti, il MES sarebbe uno strumento obsoleto, perciò la sua mancata ratifica rappresenterebbe un’opportunità per dotarsi di strumenti più all’avanguardia. Allo stesso tempo,  però, Meloni si rifugia dietro la contrarietà del Parlamento. In particolare, Meloni incolpa il Movimento 5 Stelle e il suo leader Giuseppe Conte. Fu infatti Conte a negoziare la riforma del MES giunta a conclusione a cavallo tra il 2020 e il 2021. 

Ma non è del tutto vero che mancasse una maggioranza in Parlamento disposta a votarlo, anzi. Nel dicembre 2020, la Camera aveva approvato una risoluzione che impegnava il governo a concludere la riforma del MES, nonostante alcune defezioni nel partito di Conte. Le vicissitudini politiche però avevano poi portato a un cambio di maggioranza con il Governo Draghi dove, tra i partiti che lo sostenevano, c’era la Lega. Proprio il partito di Matteo Salvini, con esponenti come Claudio Borghi e Alberto Bagnai, è il più strenuo avversario del MES. Non è quindi corretto affermare, come fa Meloni, che non c’erano maggioranze parlamentari per approvare il MES, visto che, appunto, il parlamento approvò una risoluzione proprio sul MES. 

Meloni ha poi parlato della costruzione di un’alleanza di destra in Europa dopo le elezioni che si terranno a maggio del 2024. Secondo le proiezioni di European Election, vi sarebbe un netto calo per i partiti della cosiddetta “maggioranza Ursula”. Ma, sempre stando a queste proiezioni, sarebbe possibile un’alleanza di destra? 

Il problema qui sono i limiti politici, di cui abbiamo avuto eco anche in Italia quando il vicepremier Tajani ha escluso un’alleanza con il gruppo di Marine Le Pen al Parlamento Europeo, lo stesso gruppo di cui fa parte la Lega. Una possibile alleanza tra Liberali, Popolari e Conservatori, il gruppo a cui è iscritto Fratelli d’Italia, si fermerebbe a 344 seggi, contro i 405 di una "maggioranza Ursula” (senza contare i non iscritti, di cui fa ad esempio parte il Movimento 5 Stelle). 

Una maggioranza di destra al Parlamento europeo, come prospettato da Meloni, sembra perciò improbabile. Ma, concesso che vi siano i voti in parlamento, che cosa avrebbe da guadagnare l’Italia da un cambio di maggioranza al parlamento europeo? Non vi sarebbero di sicuro concessioni dal punto di vista economico, visto che tanto i popolari quanto i conservatori sono tra i più rigoristi in materia fiscale. Forse le speranze della Presidente del Consiglio sono riposte sul tema migranti, ma anche in questo caso si tratta di un’incognita: abbiamo visto nel corso della precedente legislatura al Parlamento Europeo che furono soprattutto i partiti di destra a esprimersi contro la riforma della Convenzione di Dublino, che avrebbe alleggerito il peso degli sbarchi nel nostro paese grazie ai meccanismi di collocamento. Il primo ministro ungherese Orban, anello di congiunzione tra la destra radicale e i popolari, aveva dichiarato al Guardian che per lui l’immigrazione “è un veleno, non la medicina”. Eppure, secondo le stime del Documento di Economia e Finanza, l’immigrazione sarebbe un toccasana per l’Italia: con un aumento del 33% dell’immigrazione netta il debito pubblico andrebbe a ridursi di oltre 30 punti percentuali. 

La polemica sull'emendamento Costa: cala il sipario sull’informazione giudiziaria?

La conferenza è in realtà iniziata con un intervento di Carlo Bartoli, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti. Nei giorni scorsi, infatti, il Parlamento ha approvato un emendamento, presentato dal deputato e responsabile giustizia di Azione Enrico Costa, per impedire la pubblicazione sui giornali delle custodie cautelari fino a quando non saranno finite le indagini preliminari. Secondo la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI), che ha disertato la conferenza per la prima volta nella storia, si tratta di una legge bavaglio che lede il diritto dei cittadini di essere informati sui casi giudiziari. Bartoli si è detto solidale nella sostanza con la preoccupazione delle colleghe e dei colleghi giornalisti, affermando che l’emendamento farebbe calare il sipario sull’informazione giudiziaria. 

Bartoli si è anche detto preoccupato di certi termini utilizzati nei confronti dei giornalisti da parte dei parlamentari. Il nostro paese è infatti sotto osservazione per le querele temerarie da parte non solo di imprenditori e dipendenti pubblici, ma anche politici. 

La Presidente del Consiglio ha puntualizzato che l’emendamento proviene, appunto, da un membro dell’opposizione, anche se pure il governo ha dato parere favorevole. La stessa Meloni si è detta a favore della norma, affermando che “riporta al suo perimetro originario l’articolo 114 del codice di procedura penale”, garantendo un giusto equilibrio tra informazione e diritto alla privacy

“L’Italia egemonizzata dalla sinistra è finita”, ma è mai cominciata?

Oltre al lato istituzionale da Presidente del Consiglio, Meloni ha però riproposto lo schema vittimista: rispondendo a una domanda sulle critiche dell’ex Presidente del Consiglio Giuliano Amato. In una lunga intervista pubblicata su Repubblica Amato aveva individuato nell’attuale maggioranza una deriva ungherese-polacca. Il governo ha infatti “un’ideologia del rancore e dell’ostilità” nei confronti dei poveri, degli omosessuali, di chi viene scarcerato per salvaguardare la sua salute fisica e mentale. Non solo: tra gli elementi che il governo Meloni considera ostili ci sarebbero anche le corti, come dimostra la vicenda della Corte dei Conti. Su questo fronte Amato ha citato proprio l’esempio della Polonia in cui il partito alleato di Meloni in Europa aveva preso di mira proprio le corti prima europee e poi nazionali. 

La Presidente del Consiglio ha parlato di “critiche ad hoc” in vista della elezione di quattro membri politici della Corte Costituzionale, con un Parlamento a maggioranza di destra. Si potrebbe modificare la Costituzione, ha ironizzato Meloni, cambiando l’articolo 135: “I giudici della Corte Costituzionale sono nominati dal PD, sentito il parere di alcuni intellettuali e di Giuliano Amato”. Meloni ha poi proseguito con uno dei cavalli di battaglia di Fratelli d’Italia, secondo cui sarebbe finito il tempo in cui in Italia chi non è di sinistra ha meno diritti. 

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Questo stesso ragionamento è stato adottato come linea difensiva nel caso Verdini. L’ex politico del PDL è indagato assieme al figlio. Secondo l’accusa, entrambi avrebbero utilizzato la società di consulenza Inver SRL come attività di lobbying, permettendo a imprenditori vicini di accaparrarsi appalti pubblici grazie ai collegamenti politici della famiglia. Il ministro Salvini, sentimentalmente legato alla figlia di Denis Verdini, è emerso in varie intercettazioni, su cui ora la procura dovrà far luce. Per rispondere a queste critiche, la Presidente del Consiglio ha fatto notare che il figlio di Verdini, Tommaso, ha preso la tessera del Partito Democratico e l’ha rinnovata fino al 2017. Tuttavia la società di consulenza non è in alcun modo legata al Pd. 

La cultura politica di Giorgia Meloni, quindi, a volte vista da vari commentatori come un leader posato e istituzionale, si coniuga sapientemente con il frame della destra vittimista, pronta ad attaccare gli avversari non solo politicamente, ma anche grazie alla potenza di fuoco mediatica di cui dispone. Più che una Meloni istituzionale, quella apparsa ieri in conferenza stampa è stata una leader di partito che sicuramente sa comunicare, non certo una statista.

Immagine in anteprima via governo.it

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