Medio Oriente, ma l’Iran vuole davvero la guerra regionale?
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Nelle nostre cronache sulla devastante guerra a Gaza compare sempre, accanto ad Hamas e Israele come attori principali, la Repubblica Islamica dell’Iran. Una presenza sempre più ingombrante da quando, il 27 gennaio, milizie filo-iraniane hanno attaccato una base militare Usa sul confine tra Siria e Giordania uccidendo tre militari statunitensi, i primi dall’inizio del conflitto guerra in corso, e ferendone un’altra trentina. Teheran ha ufficialmente respinto l’accusa di aver giocato un ruolo nell’attacco, che invece ha attribuito a gruppi della “resistenza” nella regione, e ricordato che anche anonime fonti di Washington mettono in dubbio tale ipotesi. Ma questo episodio, particolarmente grave per la morte dei soldati americani, è solo l’ultimo di una serie che ha visto varie milizie filo-iraniane attaccare le forze Usa stanziate nella regione, oltre che obiettivi israeliani e il commercio internazionale nel Mar Rosso.
Sul ruolo della Repubblica Islamica nella crisi e la misura effettiva del suo coinvolgimento le opinioni continuano dunque a dividersi: da quanti non hanno dubbi sul fatto che sia l’Iran a volere trasformare il conflitto in una guerra regionale, a vari analisti più prudenti che non solo escludono – come avevano subito fatto fonti israeliane e statunitense – che Teheran abbia coordinato l’azione terroristica di Hamas del 7 ottobre, ma rilevano anche come le sue azioni in questi tre mesi siano state all’insegna della cautela, proprio per evitare un allargamento senza controllo del conflitto che potrebbe mettere a rischio anche la propria sicurezza. Lo stesso ministro degli Esteri iraniano, Amir Hossein Amir-Abdollahian, ha affermato in un’intervista di questi giorni con Al-Monitor che Teheran non sta cercando un conflitto regionale più ampio, anche se la rete di milizie del suo paese in tutto il Medio Oriente sta intensificando gli attacchi contro basi e navi statunitensi.
Di cosa parliamo in questo articolo:
L’International Crisis Group: tornare alla diplomazia con Teheran
Fra le analisi più recenti che condividono questa linea vi è quella di Ali Vaez, direttore del Progetto Iran dell’International Crisis Group su Foreign Policy: al di là delle roboanti e trionfali dichiarazioni sulla potenza dimostrata dall’“asse della resistenza” contro Israele (la costellazione di milizie in Iraq, Libano, Gaza, Siria e Yemen che proprio l’Iran ha sostenuto negli anni) e le difficoltà senza fine in cui Hamas ha trascinato anche Washington, il conflitto in corso potrebbe non concludersi affatto con una vittoria netta per la Repubblica Islamica.
L’Iran vuole essere la potenza dominante del Medio Oriente, scrive Vaez, ma non è pronto per l’apertura di nuovi fronti importanti contro Israele o gli Stati Uniti. In questo rivelando di essere sì in grado di spargere il caos, ma non “abbastanza forte per andare verso una vera offensiva”. Si potrebbe però così aprire un altro, allarmante, scenario finora evitato. Se la guerra a Gaza non dovesse finire, e non si fermasse neanche l’escalation di incidenti bellici innescata nella regione, la Repubblica Islamica potrebbe accelerare ulteriormente sull’arricchimento dell’uranio - è ripresa in questi mesi quella al 60%, sospesa dopo gli ultimi passi negoziali dell’anno scorso con Washington - e compiere davvero la scelta tanto lungamente paventata, quella di dotarsi di un’arma nucleare. E questo appunto perché la “pazienza strategica” adottata dalla dirigenza iraniana, dove finora ha dominato un prudente pragmatismo, ne starebbe esponendo anche la debolezza.
“La cauta risposta di Teheran ha messo in luce la sua vulnerabilità – scrive lo studioso basato a Washington - indebolendo la credibilità della sua deterrenza regionale. I leader iraniani potrebbero vedere l’acquisizione di armi nucleari come un modo per ottenere una ritrovata certezza di non essere attaccati da Israele o dagli Stati Uniti, dando il via libera nel contempo all’asse della resistenza affinché provochi molto più caos. Inoltre, i funzionari iraniani che vogliono che il paese si doti di un’arma atomica (la stessa dirigenza di Teheran – sottolinea significativamente Vaez - è probabilmente divisa sull’opportunità di passare al nucleare) potrebbero vedere questo come un momento di grande opportunità”. Da qui dunque l’urgenza – conclude, in linea con l’obiettivo statutario della sua organizzazione ma anche con le ultime dichiarazioni del direttore dell’Aiea, Raphael Grossi – che gli Stati Uniti riprendano la strada della diplomazia: una strada più volte imboccata e abbandonata negli ultimi anni, fino all’appuntamento negoziale del 18 ottobre scorso in Oman mancato proprio per la guerra a Gaza. E questo perché la diplomazia è l’unica via, come la storia ha dimostrato, in grado di disinnescare il rischio di un Iran dotato di un’arma nucleare.
Restano comunque in piedi tutte le “buone ragioni” per le quali Teheran non ha scelto finora di dotarsi di un’arma nucleare, di andare oltre la già pericolosa soglia del 60% di arricchimento e di non sottrarsi del tutto alle visite degli ispettori dell’Aiea. “Il semplice superamento di quei limiti, ad esempio – conferma Vaez - potrebbe innescare un attacco preventivo da parte di Israele o degli Stati Uniti”. Inoltre, “se l’Iran riuscisse a costruire un’arma senza essere scoperto, rischierebbe di innescare una corsa regionale agli armamenti nucleari con i suoi concorrenti del Golfo, come l’Arabia Saudita. E se l’Iran dovesse diventare nucleare, probabilmente farebbe arrabbiare la Cina, di gran lunga il suo cliente più importante per il petrolio, oltre che un inestimabile partner diplomatico”.
L’Iran attore ma anche bersaglio, le ragioni di una politica estera e di difesa
Come abbiamo premesso, i giudizi sul ruolo effettivo dell’Iran in questa crisi si dividono. Ma quanti scelgono l’opzione colpevolista spesso trascurano di guardare alle ragioni, pragmatiche prima ancora che ideologiche, che possono avere informato la politica estera e militare della Repubblica Islamica: di tentare di comprendere cioè un punto di vista che, come vedremo, sembra sempre più vicino a quello delle opinioni pubbliche arabe di fronte al massacro di civili in corso a Gaza.
Chi scrive è ben lungi dal voler assolvere la dirigenza iraniana dal suo pesante carico di misfatti compiuti per decenni sia in patria – con politiche repressive che dalla morte di Jina Mahsa Amini ne hanno mostrato al mondo il volto più feroce – che all’estero. Ma nelle scelte di politica estera e di difesa, una potenza regionale come l’Iran interagisce con altri attori la cui coscienza è tutt’altro che immacolata, e spinti da più o meno dichiarate ragioni di potere e di interesse. Approfondire quelle della Repubblica Islamica non significa dunque condividerle ma conoscerle, premessa del resto necessaria per qualunque azione diplomatica – sempre che la si voglia perseguire, e non si preferisca invece agitare gli spettri della demonizzazione e del conflitto come unica soluzione delle differenze.
In un precedente articolo su Valigia Blu ricordavo la strategia di “difesa avanzata” adottata da Teheran - e realizzata proprio tramite le sue milizie alleate - per far sentire la propria potenza nella regione senza mettere a rischio il proprio territorio. Ma evidenziavo anche come questa non fosse bastata, fino agli anni più recenti, a metterla al riparo da assassini e attacchi militari mirati sul proprio territorio e anche nella guerra a bassa intensità in corso da anni in Siria, dove Israele ha più volte colpito le sue forze militari. Molto di quanto è accaduto nella regione nelle ultime settimane si inserisce nello stesso contesto, stavolta in stretto e dichiarato collegamento con la guerra a Gaza, e con un pericoloso aumento nella frequenza e nell’intensità. Le forze iraniane e filo-iraniane agiscono dunque all’interno di un gioco di reazioni e contro-reazioni, in una spirale sempre più rischiosa, e dove a Teheran non vengono risparmiati colpi molto duri.
Basti pensare agli ultimi eventi critici che hanno visto come protagonisti attivi, ma anche come bersagli, le forze iraniane e le milizie proxy: dagli attacchi degli Houthi al traffico commerciale nel Mar Rosso – dove il diretto coinvolgimento dell’Iran affermato dagli Usa è ancora una volta smentito da Teheran, che comunque sostiene militarmente quelle milizie yemenite da anni – alle circa 150 azioni ai danni delle forze Usa stanziate in Iraq e in Siria compiute, dalla metà di ottobre, da milizie filo-iraniane. Gli Usa a loro volta hanno risposto con attacchi contro le stesse milizie irachene – al 4 gennaio, in particolare, risale l’uccisione mirata di un loro leader a Baghdad.
Ma è in Siria che Teheran ha subito le perdite più significative: a Damasco infatti, il 25 dicembre, è stato ucciso da missili di Israele il generale Sayyed Razi Mousavi, esponente di rilievo dei Guardiani della rivoluzione (Irgc) nonché terza vittima degli stessi Pasdaran in quel paese. E sempre a Damasco, il 20 gennaio, altri cinque Pasdaran sono stati uccisi in un raid aereo attribuito a Israele. A questo si aggiunge il sanguinoso attentato terroristico che ha ucciso una novantina di iraniani che partecipavano, il 3 gennaio, alla commemorazione del generale Qassem Soleimani, extragiudizialmente ucciso nel 2020 da un drone Usa in Iraq su decisione dell’allora presidente Trump. Il duplice attacco suicida tra la folla è stato poi rivendicato dall’Isis, ma ha subito spinto le autorità iraniane ad accusare gli Usa e Israele, rivelando la loro percezione del clima di tensione in cui l’atto terroristico si era compiuto. Tanto che il 15 gennaio, per ritorsione, i Pasdaran hanno lanciato missili in Siria e in Iraq contro quelli che consideravano siti legati all’Isis e all’intelligence israeliana. Il 16, inoltre, hanno innescato una breve crisi con il Pakistan con un attacco di droni e missili nel suo territorio, al quale Islamabad ha risposto con un’azione analoga pochi giorni dopo.
Il fronte più infiammato, dove la situazione potrebbe più facilmente sfuggire al controllo, è quello sul confine sud del Libano, dove dall’8 ottobre Hezbollah lancia attacchi quotidiani contro obiettivi israeliani. Ma Israele è anche accusato di essersi spinto fino ai sobborghi di Beirut per uccidere, il 2 gennaio, l’alto esponente di Hamas Saleh al-Haruri: una importante figura di raccordo tra la propria organizzazione a Gaza e l’Iran da una parte e Hezbollah (la milizia più organicamente legata a Teheran) dall’altra.
La studiosa esperta di Hezbollah: l’escalation si ferma solo con un cessate il fuoco a Gaza. Il tema del doppio standard dell’Occidente
Sarebbe tuttavia sbagliato ridurre quello stesso asse a una “rete transnazionale di emissari iraniani” che possano “essere minacciati e bombardati fino alla sottomissione”, come si pensa invece a Tel Aviv, a Washington e a Londra: lo scrive sul Guardian Amal Saad, studiosa libanese di Hezbollah e docente di politica e relazioni internazionali alla Cardiff University.
“Ciò che rende l’asse un’alleanza così coesa e duratura sono i suoi pilastri ideologici profondamente radicati e gli obiettivi strategici condivisi. Tutti i suoi attori sottoscrivono un’agenda antimperialista e antisionista, con la causa palestinese come punto focale. Oggi condivide due obiettivi comuni: costringere Israele a un cessate il fuoco incondizionato a Gaza ed espellere le truppe statunitensi dall’Iraq e dalla Siria”, scrive Saad. E dunque, conclude, “solo un cessate il fuoco a Gaza può impedire che la regione si trasformi in una polveriera”.
Sarebbero dunque l’irrisolta questione palestinese in sé e il perdurare della guerra a Gaza, e non il controllo totale di Teheran su quei proxy - che pur continua a sostenere e finanziare - a tenere la regione sul precipizio di un conflitto allargato. Ma proprio le azioni dell’asse hanno evitato a Teheran di intervenire in modo diretto fino a metà gennaio, quando ha portato a termine il sequestro di una petroliera nel Golfo dell’Oman e i già citati attacchi tra Siria, Iraq e Pakistan. Azioni che - ha esplicitato l’analista iraniano Saeed Leylaz parlando da Teheran con il Financial Times – sono “sicuramente legate alla guerra a Gaza e rappresentano la dimostrazione della forza dell’Iran come unica e principale potenza militare che si oppone a Israele”.
Insomma, che per la causa palestinese abbia lasciato lavorare le diverse milizie filo-iraniane o sia infine scesa in campo, la Repubblica Islamica ha comunque potuto trarre i dividendi delle risorse investite nei passati decenni per mostrarsi come efficace difensore dei diritti dei palestinesi. In questo valendosi fin dal 7 ottobre della sempre infiammata retorica anti-israeliana dei suoi leader e fustigando i doppi standard di un Occidente tanto preoccupato delle nefandezze compiute da Putin in Ucraina e della sicurezza dei suoi traffici commerciali, quanto indifferente all’uccisione di migliaia di bambini e di donne e alla distruzione di tutte le infrastrutture civili a Gaza. Lo stesso Occidente che, del resto, si era già confermato tanto infido – i rappresentanti di Teheran non omettono mai di ricordare ai loro interlocutori europei - da abbandonare per primo l’accordo sul nucleare iraniano del 2015, con il ritiro unilaterale da parte dell’amministrazione Trump nel 2018: così spingendo – lo dicono i fatti - la Repubblica Islamica a violarlo essa stessa a partire dal 2019, e a stringere sempre di più la sua cooperazione politica, economica e militare con la Russia di Putin, l’invasore dell’Ucraina, con Pechino e con un “Sud globale” sempre più insofferente alle pretese egemoniche degli Usa e dei suoi alleati.
Mondo arabo e Occidente sempre più lontani?
D’altronde, gli argomenti di Teheran hanno trovato dopo il 7 ottobre un terreno più fertile per attecchire nelle opinioni pubbliche arabe, come dimostrerebbero gli esiti di un sondaggio condotto dall’Arab Center for Research and Policy Studies di Doha (influente e accreditato nell’area), interpellando 8 mila persone di sedici paesi arabi tra il 12 dicembre al 5 gennaio scorsi. Dal rapporto emerge in particolare che il 69% degli intervistati ha espresso solidarietà ai palestinesi e sostegno ad Hamas, mentre il 23% è solidale con i palestinesi ma contrario ad Hamas. Sempre il 67% ritiene quella del 7 ottobre un’azione di resistenza legittima da parte di Hamas, mentre solo il 5% la considera illegittima, e il 3% la giudica legittima ma con azioni atroci o criminali.
Sulle ragioni dell’azione di Hamas, il 35% degli intervistati pensa che la più importante sia stata la continua occupazione israeliana dei territori palestinesi, il 24% la necessità di difendere la moschea di Al-Aqsa e l'8% l’assedio della Striscia di Gaza. Solo il 2% pensa che Hamas abbia seguito l’agenda dell’Iran in Medio Oriente, e il 7% che Teheran sia la minaccia più grande della regione, un dato dimezzato rispetto al 2018. Nel contempo il 51% è convinto che la minaccia maggiore sia rappresentata dagli Usa e il 26% da Israele. Sempre in merito alla Repubblica Islamica, il 48% ha un parere positivo sulla sua posizione in relazione alla Palestina, contro il 37% che lo giudica negativo. Ma i giudizi sono del resto divisi anche sulla posizione della Turchia, della Cina e della Russia. Quasi unanime invece l’opinione negativa su quella degli Usa (94%), ma anche di Francia (72%), Regno Unito (78%) e Germania (75%). Last but not least, l’89% degli intervistati respinge il riconoscimento di Israele, rispetto all’84% del 2022, e solo il 4% lo sostiene. Significativo il dato dell’Arabia Saudita, che prima del 7 ottobre sembrava vicina a un’intesa con Israele, dove i contrari al riconoscimento sono passati in un anno dal 38% al 68%.
Insomma, per quanto un sondaggio sia sempre una fotografia imperfetta della realtà, i dati confermano come la guerra a Gaza abbia allontanato sempre di più anche il mondo arabo dall’Occidente. Materia su cui riflettere per gli opinionisti, ma soprattutto per quei politici che vogliano davvero porre fine per sempre non solo a quest’ultimo conflitto, ma anche alla sofferenza e alle morti che accompagnano da decenni l’irrisolta questione palestinese.
Immagine in anteprima: frame video DW via YouTube