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Corre, vince, è un predestinato: debunking di miti e leggende su @MatteoRenzi

17 Febbraio 2014 11 min lettura

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Corre, vince, è un predestinato: debunking di miti e leggende su @MatteoRenzi

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Enrico Letta è stato in qualche modo costretto alle dimissioni da Matteo Renzi, che si appresta a subentrargli a palazzo Chigi. Il metodo e le ragioni di questo avvicendamento appaiono formalmente ignote: non è dato sapere quale sia il passaggio che ha reso espressamente inservibile il governo presieduto da Letta dopo quasi un anno, quali siano le dinamiche che hanno portato Matteo Renzi ad attaccare l’ex capo del Governo, né si sa bene come questo attacco sia stato sferrato (a volersi attenere alle versioni ufficiali sarebbe colpa di una sferzante dichiarazione d’intenti – approvata dal partito – declamata in direzione giovedì scorso).

La mossa di Matteo Renzi è diventata ovviamente oggetto di dibattito, e numerosi sono stati gli articoli che hanno cercato di giustificarne o motivarne la rozza attuazione, basandosi su una serie di credenze senza fonti, cliché giornalistici di lunga data e alibi che ne vorrebbero legittimare la scalata a palazzo Chigi. Ecco un elenco dei principali, accompagnati dalle più buffe espressioni dei pattinatori delle olimpiadi di Sochi.

Renzi è un vincente 

Fra i pezzi che più girano in questi giorni c’è quello di Francesco Costa de IlPost. Costa analizza una serie di possibili ragioni che avrebbero portato Renzi a prendersi la presidenza del Consiglio senza provare a fare «la cosa che tutti gli riconoscono come quella che gli viene meglio: prendere voti, vincere le elezioni». L’autore non è l’unico a paventare* questa tesi (non nuova a giornali e politica) che non trova però conferme in nessun dato. Matteo Renzi ha vinto le elezioni comunali di Firenze col risultato più basso (47,70%, poi  59% al secondo turno contro Giovanni Galli) da quando nel capoluogo toscano si vota con l'elezione diretta del sindaco (1993), un'affermazione proveniente dal successo alle primarie contro il candidato "ufficiale" del partito, primo mattoncino della costruzione del mito di "vincente". Ma può bastare a giustificare un'intera costruzione mediatica? E perché il successo in una semplice consultazione di partito, seppure da outsider, deve risultare come una eccezionalità? (a cosa servono le primarie?).

Sorvolando sulle vittorie locali (quella alle provinciali risale a 10 anni fa) non resta che il ristrettissimo cerchio delle consultazioni di partito/coalizione, nel quale tra l'altro - volendo inseguire il ragionamento - il parziale sarebbe persino di 1 a 1, dopo la sconfitta contro Bersani nel 2012. Inoltre l’affluenza alle primarie del 2013 (quelle della fragorosa quanto prevedibile vittoria contro Gianni Cuperlo, che lo hanno portato a raccogliere 15 punti percentuali in più di quanto raccolto da Bersani contro Franceschini nel 2009) è stata pressoché in linea con le serie storiche, sebbene si trattasse di consultazioni aperte che avrebbero dovuto suffragare la tesi del Renzi che porta gli altri, quelli di destra, a votare. Quanto a elezioni nazionali, dunque, Matteo Renzi semplicemente non ne ha mai vinte né fatte vincere – ed è strano perché se mi distraggo un secondo e poi me lo trovo a palazzo Chigi mi verrebbe da dire di sì (invece no). Chi riconosce a Renzi che «vincere le elezioni» è la cosa che gli viene meglio?

Più avanti, nel post di Costa si legge di un «grande consenso popolare»: in base a quali cifre si continua a dare per scontata questa capacità – a quanto pare innata – di stravincere? A quale grande consenso popolare si allude? Una delle sue più grandi forze - che risiede anche nelle debolezze altrui - è l'essere l'unico MVP della politica italiana, l'unico personaggio sul campo, cosa che gli permette di primeggiare agilmente da qualche mese (49% al 14 febbraio, fonte Demopolis) nei dati sulla fiducia nei leader (la Fornero si aggirava attorno al 58%, Monti sul 70). Ma pur ammettendo si parli di sondaggi, e glissando sul fatto che rilevazioni del genere non possono essere considerate un valido metro scientifico, il PD di Renzi continuerebbe comunque a viaggiare attorno al 34% veltroniano, a meno che non si consideri Veltroni un fenomenale divora-preferenze (cosa sulla quale sento di dirmi piuttosto riluttante). Per di più, nel primo sondaggio in vista delle Europee fatto da IPR per Repubblica (raccolta dati fra gennaio e febbraio) il Partito Democratico gestione Renzi si attesterebbe attorno al 27%. Sui livelli di Forza Italia e M5S (poco sotto), e ben lontani dalla famigerata vocazione maggioritaria.

Da aggiungere che, sempre stando ai sondaggi: nel calcolo per coalizioni l'area berlusconiana risulterebbe ancora (incredibilmente) in testa, e che la scelta di scalare la presidenza del Consiglio sarebbe stata giudicata in modo pressoché negativo da 9 persone su 10 (fonte: Ballarò, domenica 16 febbraio). Intanto i dati sulle affluenze alle primarie regionali non sembrano essere troppo confortanti, con Fassina che addita «la brutale scelta avvenuta giovedì scorso in direzione nazionale con la sfiducia votata a Letta».

Renzi è un alieno

Questo  «grande consenso popolare» dovrebbe infatti derivare dalla sua proverbiale diversità, stando a «curriculum e provenienza». Una differenza che i giornali presentano quasi come  antropologica: Marco Damilano su L’Espresso racconta il Renzi della direzione PD come un irrefrenabile guitto che «si aggrappa al cellulare, compulsa i tasti, tiene gli occhi fissi sul display» e quasi dimentica di prendere la delega: un voto che, sebbene «storico», si «consuma nella rapidità» che occupa i pensieri del giovane Matteo (sulla velocità vedremo in seguito).

Federico Geremicca su La Stampa lo definisce addirittura «alieno», sia «nel modo di intendere la pratica» che nella «filosofia che lo guida», tanto da spingere i media - secondo Fabrizio Rondolino su Europa - a «non capire il fenomeno» data l’impossibilità di ridurlo alle «categorie tradizionali del gioco politico». Ma cosa certifica concretamente questa sua marcata diversità? La rivisitazione dei linguaggi e di qualche simbolo? L’eterogeneità del suo percorso politico?

Matteo Renzi ha cominciato sin dall'adolescenza, frequentando circoli e occupando posizioni d'alto rango in un percorso non privo di quelle relazioni con imprenditoria e poteri a vario titolo che animano un normale percorso locale. Roma lo aspetta raccontando di lui come di un «marziano», un corpo estraneo notoriamente restio ai riti della politica, come se la direzione della segreteria locale del Partito Popolare, il coordinamento della Margherita a Firenze e la presidenza di una provincia fossero assimilabili alle selezioni del FestivalBar ’96 (quelle di «The Summer Is Crazy»). Stando a cosa, dunque, lo si definisce diverso? A quale condotta politica? Quale rivoluzione amministrativa?

Renzi è velocissimo 

La tesi della diversità si regge principalmente su quella della velocità (sulla cui retorica si è largamente concentrato Matteo Pascoletti). Renzi «è l’uomo dei tempi veloci», o meglio «dei fatti veloci» in «questi tempi veloci» spiega Ilvo Diamanti su Repubblica, definendolo - chiaramente - «pie' veloce»: la natura della «sua azione politica è la velocità» (Martinetti su La Stampa) e «velocità e grande velocità» sarebbero in queste ore «parole d’ordine che circolano nelle file renziane» (Baroni, sempre La Stampa). È cinetico, irrequieto, e persino nel più solenne dei momenti - che si tratti di sfiduciare a Letta o raggiungerlo a Palazzo - non abbandona la sua rapidità congenita, seppure a bordo di utilitaria: «'mmazza, a tremila è arrivato», commentano i cronisti che se lo vedono arrivare e sottolinea Ceccarelli su Repubblica in un pezzo intitolato - inevitabilmente - «La tendenza Smart del sindaco pie’ veloce».

La vettura agile e la disinvoltura al volante, per Ceccarelli, alluderebbero a una «carica simbolica che proviene dal mondo delle merci»: l'auto è leggera, è sfrontata e - ovviamente - giovane e veloce. Ma può bastare a giustificare il famigerato «passo diverso»? E su cos’altro si basa questa nomea da centometrista (Menichini su Europa)? Da dove proviene la percezione del Renzi che corre? Dalle cronache dei giornali? Da come è stato raccontato?

Anche in questo caso mancano dati, non potendo certo assumere come indiscutibile testimonianza della velocità renziana le dichiarazioni pubbliche e gli orientamenti di massima, le volontà di cambiamento e i piani di riforma lanciati e mai spiegati (si veda il Jobs Act, fermo al palo e ancora privo dei promessi approfondimenti). Una delle evidenze portate a testimoniare questa concretezza infallibile, questa indomabile velocità d'esecuzione, è da sempre l’incontro fra Renzi e Berlusconi di gennaio scorso, esercizio nel quale peraltro Veltroni (ancora una volta) avrebbe già brillato (per tacere di D’Alema). Cosa ne è stato poi dell'Italicum? E su quale altro tema Matteo Renzi ha imposto il suo ritmo? Quando ha potuto dimostrare la sua velocità? Quale inenarrabile rivoluzione è entrata dalla porta del Nazareno il giorno dopo la sua vittoria alle primarie?

Renzi è un predestinato

Non è dato sapere: si tratterebbe di velocità per costituzione (come l’ossatura robusta o la dentizione regolare). «Renzi resta Renzi se continua a fare Renzi: cioè se corre», continua Francesco Costa, e finché «conserva un grande consenso popolare» (conserva? Quando l’ha ottenuto?). È un esemplare unico che non si può addomesticare, che non può aspettare i tempi e i modi della politica, tanto da alimentare la leggenda del Renzi refrattario ai consigli e portare Menichini su Europa ad ammonire chiunque ci provi: impossibile «spiegare a Matteo Renzi come si fa Matteo Renzi» (ma come si fa Matteo Renzi?). Può passare dai 100 metri al mezzo fondo, e persino permettersi di definire uno stile tutto suo, personale e inimitabile (è Ceccarelli, ancora, a firmare la frase «è molto Renzi»).

Insomma, deve «esercitare la sua leadership» (Christian Rocca sul suo blog), non ha altra scelta che adeguare il «pendolo psicologico della nazione» (Daniele Bellasio) alla sua «smisurata ambizione», i «pugni sul tavolo» e una dexteriana «forza oscura» (Merlo su Repubblica, che affonda fino all'etimologia di “ambizione”, come girare nomade e irrequieto) per inseguire quanto già scritto nelle stelle. E "destino", nel post di Francesco Costa, è termine che ricorre spesso

Il suo destino, la sua carriera politica, la possibilità di vincere un giorno le elezioni, si ritrovano legate a un Parlamento ingolfato.

Quello della predestinazione nel cammino di Renzi è tema che negli ultimi tempi ha conosciuto una preoccupante impennata. La ricerca dei feticci d'infanzia, il Matteo «già numero uno fin dalla nascita», il «leader predestinato» (Cerasa su Studio) che allontanava i cinghiali col canto, quello dalle mirabolanti capacità oratorie negli scout «che già si vedeva sarebbe diventato qualcuno». È la frenetica descrizione di un disegno più alto che con questo «blitzkrieg» inevitabile (Federico Orlando) è stato solo accelerato: il racconto di un personaggio spericolato, che non fa altro che velocizzare brutalmente il suo destino e incrociare incidentalmente i problemi di un intero paese, è uno dei moventi che tende a giustificare l'operazione e ad accettare come legittima una manovra tutt’altro che trasparente e/o funzionale a qualcos’altro che non sia Renzi stesso (fino a riprova del contrario).

Renzi è l'unica soluzione 

Non mancano infatti le giustificazioni di carattere politico-istituzionale. Per Orfini non c’erano spazi di manovra, una volta bombardato il governo (bombardamento che - ricordiamo - ufficialmente rimane ancora ingiustificato): «l’alternativa reale» a Matteo era il voto (a rischio sconfitta) con una legge elettorale dalla quale, per mano della Corte Costituzionale, è stata spazzata «via anche la parvenza maggioritaria della seconda Repubblica» (Rocca). L'esempio principe è quello della simulazione: prefigurare il rischio di un altro Parlamento senza maggioranze vincenti e imperlare il discorso con qualche riferimento al parlamentarismo che vincola all'accordo (grazie alla «costituzionepiùbelladelmondo») per evitare "il salto nel buio".

Le elezioni infatti, malgrado siano ancora una soluzione tecnicamente agibile, sembrano non persuadere Orfini: «io non credo che il voto sia la scelta giusta», spiega, che in pratica è come scegliere di non giocare a calcio per paura di pareggiare (ma Renzi non era vincente?), o come ammettere che il modello elettorale prodotto dalla sentenza è tecnicamente legittimo però non ci piace.

Non è tutto: l’alibi numero uno rimane comunque quello elettorale. Le elezioni europee si avvicinano, e il rischio che Berlusconi e Grillo possano affermarsi clamorosamente appare un’ipotesi plausibile. Dal momento che Renzi rischia di non inverarsi e fare ciò che abbiamo appena definito essergli più congeniale (correre velocissimo e vincere perché è nato per vincere), e che arginare la deriva populista è missione solo per il PD, allora diventa ammissibile assaltare l’esecutivo e sostituirsi a Enrico Letta, come conseguenza inevitabile di uno stato di necessità portato da un'impasse istituzionale (la legge che non ci piace e rischia di farci perdere) e una contingenza elettorale (il sondaggio che non ci piace e rischia di farci perdere).

Strategie e esigenze personalistiche sopravanzerebbero di fatto le istanze di un'intero paese e le regolari norme democratiche, sensazione tanto più confermata quando si legge di «temi vincenti» da inseguire nei primi 100 giorni del governo Renzi I (perché si allude già a un Renzi II?) e di presunte «iniziative a effetto» che dovrà produrre e di cui «tutti sono convinti» (La Stampa, corsivi miei). Gli italiani, d'altro canto, «sono bravi a dimenticare in fretta» (ancora Cerasa) i peccati dei leader, e

il cosiddetto (scusate) “paese reale” (scusate), gli elettori poco politicizzati che solo lui nel centrosinistra riesce a intercettare, quelli che stavano già dicendo “‘sto Renzi ha vinto le primarie ma non è cambiato niente”, saranno soddisfatti di vedere di nuovo Renzi correre, dettare il passo, fare Renzi.

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Teniamo da parte il nostro legittimo quanto sterile dibattito, sembra essere il punto: se Renzi prende a correre come sa, coloro che diverranno suoi elettori (e che stando a questa lettura non sembrerebbero tenuti a farsi domande) impareranno a conviverci e a riconoscergli i meritati onori. Come se mi mettessi a guidare il tram al posto dell’autista millantando scorciatoie, con la promessa di tornarcene tutti a casa prima del previsto (lascia fare, [scusate] paese reale [scusate]: ti porto io).

In sostanza, s'interpreta l’operazione "Staffetta" come finalizzata alla sola carriera politica, all’affermazione di un potenziale elettorale (Bellasio scrive «investire» sul proprio «consenso personale») perché Renzi ha bisogno del suo personalissimo lebensraum: deve correre per essere Renzi, per se stesso e per vincere (e far vincere il PD). E per nessun altro motivo specifico o ufficiale (né prendendosi la briga di immaginarne uno più alto, come nel caso dei governi di “salvezza nazionale” di Letta e Monti). Tutto «è molto Renzi» e dobbiamo accettarlo, come se il suo destino e quello del partito convergessero indiscutibilmente con quello del Paese – cosa che  non coincide in nessun modo col concetto di democrazia (parlamentare o presidenziale che sia), e che molto semplicemente non è.

(immagini via)

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