Il rapporto di Mario Draghi e la svolta necessaria per l’Europa
|
Sono ormai passati cinque anni dal 2019, anno delle ultime elezioni europee, eppure il mondo appare profondamente cambiato. La pandemia di Covid-19 è stata un evento spartiacque, in grado di separare il passato dal presente. Si è cominciato a parlare con più forza della transizione digitale, della crisi climatica, a non relegare il populismo a incidente della storia pronto a scomparire a ogni elezione. È poi giunta l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia, e ora anche la situazione in Palestina e nel Medio Oriente desta preoccupazione. A tutto ciò vanno aggiunte altre questioni con cui gli Stati si trovano a che fare, come il declino demografico e il ripensamento delle catene di approvvigionamento in un contesto di “post globalizzazione”. Una situazione talmente complessa, nel vero senso della parola, che l’economista e storico Adam Tooze l’ha descritto come il tempo della policrisi: varie crisi che, intersecandosi, sono più della somma delle parti, influenzandosi vicendevolmente.
Di cosa parliamo di questo articolo:
L’Europa di ieri non era abbastanza
A questo appuntamento con la storia l’Europa non arriva di certo preparata. La crisi che ha colpito l’economia mondiale tra il 2008 e il 2009, le varie crisi del debito sovrano che si sono susseguite e l’emergere di forze estremiste con intenti spesso isolazionisti hanno minato le sue basi. I paesi europei non sono certo scevri da colpe: basti pensare, per rimanere sul piano economico, alla fissazione sul debito e i vincoli di bilancio contenuti nel Patto di Stabilità, una visione miope criticata al tempo già da economisti come Olivier Blanchard, che ricopriva la carica di capo economista al Fondo Monetario Internazionale (IMF). Secondo Blanchard, quello di cui avevano bisogno molte economie avanzate non era un “cappio fiscale” nell’immediato, ma un piano di rientro del debito sul medio lungo termine. Questo, secondo l’IMF, passa anche attraverso investimenti pubblici per stimolare la crescita.
Non solo: le politiche di consolidamento fiscale, in alcuni casi necessarie, hanno portato a un aumento delle disuguaglianze, come fanno notare sempre i ricercatori dell’IMF. Al contrario di quanto sostenevano invece i fautori dell’austerità espansiva, secondo cui un ridimensionamento dello Stato avrebbe stimolato il privato e generato una maggior crescita e occupazione, le politiche di consolidamento si sono rivelate scarsamente efficaci anche sotto questo aspetto. Uno studio ha infatti stimato che un consolidamento dell’uno per cento del debito PIL porta a un aumento della disoccupazione sul lungo periodo dello 0,6 per cento. Il detto dell’economista inglese John Maynard Keynes sembra valere ancora oggi: “È in periodi di crescita il tempo per l'austerity al tesoro, non durante le recessioni”.
Questo approccio non ha solo minato le basi della crescita in Europa, ma il modello stesso di un’Europa più solidale e socialdemocratica rispetto, ad esempio, agli Stati Uniti d’America. L’aumento delle disuguaglianze, i tagli al welfare e la disoccupazione hanno contribuito all’ascesa dei partiti di destra radicale, come mostrano le ricerche empiriche più aggiornate sul tema.
La pandemia sembrava aver aperto uno spiraglio di cambiamento in Europa, sia dal punto di vista della politica fiscale sia per quella monetaria. Certo, nelle prime fasi della pandemia l’Europa sembrava essere restia a mobilitare le risorse necessarie per far fronte alle chiusure imposte dal dilagare dei contagi. Due sono gli esempi paradigmatici in merito: le dichiarazioni della presidente della Banca Centrale Europea (ECB), Christine Lagarde, secondo cui il compito della BCE non era quello di ridurre gli spread; le perplessità da parte di vari paesi europei nei confronti dell’emissione di debito comune sotto forma di Eurobond da parte dell’Europa che aveva portato vari politici italiani a recriminare la miopia di paesi frugali come la Germania.
Proprio in quel periodo apparve sulle colonne del Financial Times un articolo dell’ex presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi. Secondo Draghi, la pandemia era un’emergenza paragonabile a una guerra: richiedeva un intervento deciso degli Stati per supportare i lavoratori e il sistema economico, al fine di evitarne il collasso. Questo avrebbe comportato un aumento consistente del debito pubblico, ma si trattava di un pegno dovuto se l’alternativa era l’annientamento delle economie degli Stati europei.
La risposta delle istituzioni europee, una volta compreso il rischio che la pandemia poneva, non si fece attendere: l’erogazione di SURE per contrastare la disoccupazione, l’ombrello della Banca Centrale Europea con il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP) che dava ossigeno agli Stati nel mobilitare le risorse finanziarie necessarie. E infine il Next Generation European Union (NGEU), ottenuto dopo varie contrattazioni, la cui versione italiana prende il nome di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), un piano per gettare le basi di un’Europa più competitiva.
Anche al netto di quanto fatto durante la pandemia, l’Europa è rimasta indietro rispetto agli Stati Uniti. Anche la Cina si è ormai imposta come player di grande importanza nel panorama economico internazionale. Sul fronte tecnologico, l’Europa non ha poli paragonabili alla Silicon Valley e anche l’importanza del settore automobilistico è stata recentemente minacciata dalla Cina che si sta espandendo al di fuori dei confini nazionali. Anche lo studio commissionato all’ex Presidente del Consiglio e Segretario del PD Enrico Letta fa notare la distanza abissale che si è ormai consolidata tra l’Europa e gli Stati Uniti d’America.
Proprio per indagare su questi ritardi, la commissione europea ha incaricato Mario Draghi di redigere un rapporto sulla competitività dell’Europa nel mezzo delle trasformazioni economiche e geopolitiche che stanno attraversando il nostro tempo.
Che cosa ha detto Draghi
Durante un incontro all’High-level Conference on the European Pillar of Social Rights Draghi ha esposto le linee guida del rapporto che verrà presentato dopo le elezioni europee sulla competitività. Draghi ha cominciato sottolineando come, per molti, la questione competitività resta controversa: secondo alcuni è più corretto concentrarsi sulla produttività, che va invece a beneficio di tutti.
Per Draghi non è di per sé il concetto di competitività a essere sbagliato. Il problema è stato nella sua implementazione da parte dell’Europa nel corso degli anni: una strategia che si è infatti basata sulla compressione salariale per competere tra Stati membri, assieme a una politica pro-ciclica che ha danneggiato la domanda interna. Vedendo gli altri paesi membri e non il resto del mondo come competitor si è quindi finiti a danneggiarsi l’un l’altro. Questo facendo affidamento su un contesto internazionale favorevole che, come dice Draghi, ora è cambiato. I due esempi citati da Draghi sono appunto quelli di Cina e Stati Uniti.
La prima punta a internalizzare le catene di approvvigionamento e la produzione riguardante le tecnologie verdi e avanzate. Non a caso, il commentatore economico Noah Smith ha fatto notare come la Cina, rispetto ai paesi europei e agli Stati Uniti, veda la rivoluzione tecnologica più nella componentistica che nell’aspetto dei servizi. In questo modo, riesce a catturare un’enorme fetta di mercato rendendo dipendenti dalla sua produzione gli altri paesi.
Gli Stati Uniti invece puntano su una politica industriale in grado di potenziare le loro imprese e attrarre la capacità produttiva di altri paesi, varando poi misure protezionistiche per difendersi dalla concorrenza. Non è un caso che, non solo sull’automotive con i provvedimenti voluti da Trump, ma anche con Biden vi siano state delle frizioni con l’Europa, ad esempio sull’Inflation Reduction Act.
All’Europa, secondo Draghi, manca una strategia su vari settori che rischiano di essere danneggiati dalla concorrenza esterna. Un caso emblematico è quello della transizione verde: l’Europa sta via via approvando provvedimenti più ambiziosi per far fronte alla crisi climatica, ma sono i concorrenti, a partire dalla Cina, che controllano le risorse necessarie per la transizione verde. Questo necessita di un piano per mettere al sicuro le proprie catene di approvvigionamento Si tratta di una questione già nota: per esempio, in maniera quasi paradossale, la strategia energetica europea ha dovuto adattarsi per via della sua dipendenza dal gas russo. Per anni i rapporti sono stati più o meno pacifici, ma dopo l’invasione dell’Ucraina, il modello di sviluppo che si basava su gas a basso costo proveniente dalla Russia è venuto meno, richiedendo una diversificazione delle fonti estemporanea per far fronte alla situazione.
Secondo Draghi la risposta alle sfide poste dal mondo di oggi dell’Europa è stata deludente perché adatta a un mondo che non c’è più: a un mondo pre-Covid, pre-invasione dell’Ucraina, pre-ritorno delle ostilità tra le potenze. Serve quindi un radicale cambio di passo. Per quanto ogni settore richieda una strategia a sé stante, Draghi ha individuato tre fili conduttori che dovranno guidare le policy.
Il primo è sfruttare le economie di scala. Come detto prima, altri paesi come Cina e Stati Uniti stanno sfruttando la loro dimensione per diminuire i prezzi unitari, aumentare gli investimenti e catturare quote di mercato, mentre in Europa il meccanismo è di concorrenza tra paesi che spesso hanno interessi contrastanti: basti pensare al caso già trattato di Francia e Germania riguardo i rapporti con la Cina sull’auto elettrica. L’Europa deve quindi abbandonare questa visione concorrenziale interna per poter sfruttare la sua dimensione continentale e poter fungere da competitor con le altre potenze.
Anche qui Draghi cita degli esempi. Due su tutti sono di cruciale importanza. Il primo riguarda il tema della difesa: la mancanza di economie di scala ostacola la creazione di un’industria della difesa europea. Un tema che non riguarda soltanto l’eventuale utilizzo della forza militare: sembra ormai esserci evidenza che gli investimenti in difesa abbiano delle ricadute positive sulla produttività. L’Europa invece si concentra prevalentemente sull’esportazione. Il secondo riguarda invece le imprese più giovani che potrebbero avere idee innovative. È un fatto noto che, nonostante l’Europa produca ottima ricerca di base, questa non abbia poi applicazioni di mercato così importanti come succede negli Stati Uniti. Questo perché le imprese più giovani, per crescere, hanno bisogno di un mercato interno in grado di assorbire le nuove idee che l’Europa, unita, potrebbe avere. Inoltre il ruolo sempre più predominante dell’AI richiede una stretta cooperazione sui dati che, provenendo da più paesi, garantirebbe a queste aziende una maggior capacità concorrenziale con l’esterno.
Un altro punto importante riguarda l’erogazione di beni pubblici. Si tratta di quei beni di cui beneficiano tutti, come ad esempio le infrastrutture, ma che non hanno incentivi per essere finanziati. Draghi cita ad esempio la rete pubblica di computer ad alte prestazioni: anche in questo caso, pur essendo dotati di un’ottima infrastruttura, le ricadute sul settore privato sono limitate. Questa rete potrebbe essere di vitale importanza per le imprese innovative, soprattutto quelle che si servono dell’AI, e in cambio le ricadute monetarie potrebbero in parte andare a finanziare l’estensione del cloud in Europa e la stessa infrastruttura di super computer.
C’è poi l’approvvigionamento di risorse e input essenziali. Qui è interessante notare come Draghi faccia riferimento, oltre alle materie prime necessarie per la transizione ecologica e digitale, alla forza lavoro qualificata. Secondo quanto detto dall’ex presidente del Consiglio, tre quarti delle imprese europee segnala difficoltà a reperire figure specializzate, in un contesto già di invecchiamento della popolazione e di posizioni meno favorevoli in materia migratoria. Per questo motivo sarà necessario puntare di più sulla formazione e sul miglioramento delle competenze necessarie per un mercato del lavoro in rapido cambiamento.
Il discorso si è concluso evidenziando come i nostri competitor sono avvantaggiati perché paesi unici. Secondo Draghi anche l’Europa può puntare diventarlo, con una coesione maggiore seguendo lo spirito della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) che gettò le basi per l’Europa odierna.
Le critiche e i limiti del discorso di Draghi
Sia in Italia che all’estero il discorso di Draghi sta ricevendo molte attenzioni, soprattutto dagli addetti ai lavori. Più che i consensi, può essere utile concentrarsi sulle critiche che il discorso sta ricevendo.
Tra i critici c’è l’economista di Harvard Dani Rodrik. Secondo Rodrik, l’impostazione europea di concentrarsi sulla competitività lascia a desiderare. Il vero problema sarebbe invece la produttività. In particolare, Rodrik sottolinea da tempo, assieme ad altri economisti come Daron Acemoglu del MIT, la dipendenza della produttiva dalla creazione di buoni lavori (good jobs). La nozione di competitività, al contrario, si concentra più sulle competenze dei lavoratori che sulla loro remunerazione e sui loro diritti.
I believe this framing of Europe's problem as one of lack of competitiveness (by Mario Draghi) might be helpful as a political rallying cry, but it is problematic from an economic standpoint. https://t.co/bI47X6cBpX. +
— Dani Rodrik (@rodrikdani) April 18, 2024
La seconda critica più importante arriva invece dalle colonne del Fatto Quotidiano. Il coordinatore del Forum Uguaglianza e Diversità nonché ex ministro del Governo Monti Fabrizio Barca fa notare come la soluzione adottata da Draghi sia di fatto un’Europa che copia gli Stati Uniti d’America. Una delle criticità sottolineate da Barca è l’eccessiva attenzione dedicata da Draghi nei confronti del settore della difesa. Questa critica, per quanto in parte condivisibile, deve appunto tenere conto degli spillover che il settore della difesa ha poi sull’intera economia, come dimostra l’agenzia federale americana DARPA. Anche l’idea della scalabilità, in analogia con gli Stati Uniti, non convince Barca, secondo cui sarebbe solo un modo per creare una maggior concentrazione economica, ignorando invece la discussione odierna proprio sugli impatti che la concentrazione di mercato ha sulla democrazia.
La critica più interessante rivolta da Barca al discorso di Draghi è sul lavoro, a partire dalle parole utilizzate: Draghi intende i lavoratori come uno degli input della funzione di produzione, da formare adeguatamente e immettere nel mercato per garantire profitti per le aziende. Ma proprio la formazione rischia di essere un tasto dolente: la rapidità dei cambiamenti a cui stiamo assistendo lascia poco spazio a figure altamente specializzate, data anche l’estrema eterogeneità che contraddistingue la produzione aziendale. Servirebbe invece una preparazione di base in grado di garantire adattabilità e libertà ai lavoratori.
Il rapporto di Draghi rappresenta sicuramente un passo avanti rispetto all’Europa di oggi. Si prende infatti atto di politiche e strategie che si sono rivelate fallimentari, che hanno danneggiato i lavoratori e quindi la democrazia, screditando quindi l’Europa. E di certo i tre filoni individuati da Draghi rappresentano delle sfide che l’Europa dovrà affrontare per potersi porre come partner strategico. Quello che però viene a mancare è proprio ciò che differenzia il modello statunitense da quello europeo: non c’è, nella visione di Draghi, un ritorno a un’Europa più solidale, seguendo il modello che aveva contraddistinto il periodo del consenso keynesiano. Anche sull’aspetto della concentrazione di mercato sottolineato da Barca è necessario porre l’attenzione. Negli Stati Uniti e nel mondo accademico vi è oggi una maggior attenzione a questi temi che rischiano invece di essere esacerbati dalle proposte di Draghi.
Il rischio in cui incorre il report è quindi non stabilire il sempre più evidente legame tra la crescita e la disuguaglianza, soprattutto nel contesto dell’Europa. Come dicevamo in apertura, proprio perché si sono sentiti abbandonati in preda alla globalizzazione, i cittadini hanno cominciato sempre di più a votare per partiti populisti e di destra radicale. Questo ha senza dubbio indebolito la reputazione dell’Europa. Per questo motivo l’attenzione per la crescita va integrata con una visione inclusiva. In questo modo l’Europa potrebbe proporsi come terzo polo tra gli Stati Uniti e la Cina, come potenza sì economica, ma in grado di garantire uguaglianza e pari opportunità ai suoi cittadini.
Immagine in anteprima via flickr.com