Ma davvero le facoltà umanistiche sono un pessimo investimento?
9 min letturaha collaborato Angelo Romano
Da qualche anno sconsigliare vivamente i ragazzi di iscriversi a facoltà di tipo umanistico è diventato uno sport nazionale e ha prodotto una sorta di letteratura di genere, in cui l’esperto di turno spiega quanto sia scriteriata o almeno inutile l’idea di fare Lettere e Filosofia o Storia.
Quest’anno il compito tocca a Stefano Feltri, che in un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano ripropone l’annosa polemica tra formazione scientifica e umanistica, prendendo spunto da un paper del centro studi CEPS a cura di Miroslav Beblavý, Sophie Lehouelleur e Ilaria Maselli. I ricercatori hanno cercato di valutare per quale motivo si registri in cinque diversi paesi europei (Italia, Francia, Ungheria, Polonia e Slovenia) una carenza di laureati in Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica (STEM), nonostante l’aumento di questa tipologia di laureati sia indicato dal documento Europe2020 tra i vincoli significativi per la crescita futura dell’Europa.
In altre parole, ci si chiede per quale motivo gli studenti non si laureano nelle discipline STEM nonostante, secondo gli analisti politici e gran parte della letteratura scientifica, questi profili siano considerati quelli che offrono le migliori prospettive di stipendio e carriera.
Se studiare è un investimento di denaro e di tempo speso in formazione, quanto sono razionali, allora, le scelte degli studenti alla vigilia del loro percorso universitario? E quali sono i percorsi più proficui in termini di anni spesi per laurearsi e tempo impiegato per trovare un’occupazione remunerativa? Utilizzando l’approccio NPV, volto a valutare il valore del titolo conseguito al netto dei costi sostenuti e dei benefici ottenuti nel tempo, i tre studiosi sono giunti alla conclusione che discipline più “leggere” come Economia, Legge, Scienze Sociali garantiscono benefici maggiori rispetto alle cosiddette lauree in materie scientifiche alla luce dei minori costi (di investimento e formazione) da sostenere e che le discipline umanistiche si caratterizzano per avere bassi costi e ricavi ancora minori nel tempo.
Fin qui lo studio. Quando però il paper viene riassunto sul Fatto Quotidiano, i dati e le conclusioni vengono usate da Feltri per sostenere la tesi che iscriversi a facoltà umanistiche sia un errore tout court e una scelta dissennata. L’incipit del suo articolo è già esplicativo:
Tra qualche settimana molti studenti cominceranno l’università. I loro genitori che si sono laureati circa trent’anni fa potevano permettersi di sbagliare facoltà, errore concesso in un’economia in crescita. Oggi è molto, molto più pericoloso fare errori. Purtroppo migliaia e migliaia di ragazzi in autunno si iscriveranno a Lettere, Scienze politiche, Filosofia, Storia dell’arte.
Il “purtroppo” fa già ampiamente capire che l’autore considera l’idea di iscriversi ad una facoltà non scientifica una scemenza, e la scelta di una facoltà umanistica sia già di per sé sbagliata. Ma procedendo il tono apocalittico peggiora:
È giusto studiare quello per cui si è portati e che si ama? Soltanto se si è ricchi e non si ha bisogno di lavorare, dicono gli economisti. Se guardiamo all’istruzione come un investimento, le indagini sugli studenti dimostrano che quelli più avversi al rischio, magari perché hanno voti bassi e non si sentono competitivi, scelgono le facoltà che danno meno prospettive di lavoro, cioè quelle umanistiche.
Già nel secondo paragrafo cominciano però a scricchiolare le argomentazioni, o meglio non è chiaro come si reggano in piedi: infatti prima Feltri dice che i ragazzi si iscrivono a queste facoltà perché sono portati per le materie umanistiche e le amano (quindi dobbiamo presumere che siano quelli che in italiano, filosofia e storia hanno ottimi voti per esempio), e subito dopo che scelgono le facoltà umanistiche come ripiego i ragazzi che hanno votazioni basse.
Non è chiaro da dove Feltri peschi questo ultimo dato (cioè che alle facoltà umanistiche si iscrivono ragazzi con voti bassi) cosa mai affermata nel paper originale, che non prende in considerazione il rendimento precedente degli studenti.
Ma in ogni caso, anche se vi fosse davvero una consistente massa di studenti con votazioni basse e scarsa preparazione che si iscrivono alle facoltà umanistiche perché le considerano “più facili”, non è chiaro come questo sarebbe imputabile alle lauree umanistiche in sé ed al percorso di studi scelto, né come, invitando un alunno già poco qualificato a non iscriversi a lettere ma a scegliere una facoltà scientifica si potrebbe migliorare la situazione.
Se per esempio abbiamo un ragazzo veramente portato per le materie umanistiche (e magari meno, o anche soltanto meno interessato a quelle scientifiche) e lo spingiamo a iscriversi a una facoltà scientifica che non lo attrae o per cui non è affatto portato, rischiamo comunque di votarlo al fallimento: si stancherà prima di arrivare alla laurea – niente di peggio che essere costretto a studiare per anni una cosa che non ti piace – e anche se ci arriva sarà probabilmente un laureato in materie scientifiche assai mediocre e poco competitivo, destinato o a rimanere a lungo disoccupato oppure ad accettare lavori che lo soddisfano assai poco e per cui non è tagliato.
La stessa cosa avviene per i ragazzi che si iscrivono a facoltà umanistiche tanto per fare qualcosa: restano lì a vegetare per anni, agguantando voti bassi e imparando poco o nulla, e quando arrivano a conseguire la laurea, sempre che la conseguano, sono assolutamente inadatti al mondo del lavoro e restano disoccupati. Ma, chiediamoci: la colpa è del fatto che hanno una laurea umanistica o del fatto, che, molto semplicemente, l’hanno presa controvoglia e non sono per nulla qualificati o intraprendenti?
Ma andiamo avanti, e parliamo di dati. Oggi l’articolo on line del Fatto riporta un testo parzialmente diverso dalla versione postata in originale. Feltri, infatti, in un primo tempo non aveva capito bene le tabelle allegate allo studio e confuso l’indice usato per valutare l’investimento economico per ottenere la laurea ed espresso in valori numerici con la somma necessaria a conseguire il titolo di studio. Corretto da una delle ricercatrici che hanno partecipato al progetto, ha così modificato e spiegato i criteri di valutazione:
Fatto 100 il valore medio attualizzato di una laurea a cinque anni dalla fine degli studi, per un uomo laureato in legge o economia è 273, ben 398 se in Medicina. Soltanto 55 se studia Fisica o Informatica (le imprese italiane hanno adattato la propria struttura su lavoratori economici e poco qualificati). Se studia Lettere o Storia, il valore è pesantemente negativo, -265.
Che significa? Che scegliere di studiare discipline umanistiche in Italia non è premiante perché i costi sono maggiori dei ricavi a causa – scrivono i tre studiosi – dell’eccessiva lunghezza del percorso di studi universitario, dalla durata indefinita rispetto agli altri paesi europei.
Proprio questa considerazione accende una spia e desta più d’una perplessità. Che dati hanno usato, infatti, i ricercatori? Come si legge nel paper, per quanto riguarda l’Italia, la ricerca ha preso in considerazione il percorso di laureati dall’anno accademico 1999/2000 (monitorati nel 2008), quando ancora non era entrato in vigore il sistema 3+2, i cui principali obiettivi erano proprio la drastica riduzione dei tempi di conseguimento della laurea e l’aumento dei laureati nel mercato del lavoro. Facendo riferimento a un contesto accademico e del mercato del lavoro di quasi dieci anni prima e che ha visto, negli ultimi quindici anni (anno cui si riferisce il campione interessato dalla ricerca), profonde trasformazioni, le conclusioni cui giungono gli studiosi risultano già superate e i dati utilizzati poco rappresentativi.
Feltri però non tiene minimamente conto di tutte queste varianti e afferma senza ombra di dubbio che:
Fare studi umanistici non conviene, è un lusso che dovrebbe concedersi soltanto chi se lo può permettere. L’Italia è il Paese dove questo fenomeno è più marcato. Ma finché gli “intellettuali pubblici” su giornali e tv continueranno a essere solo giuristi, scrittori e sociologi, c’è poca speranza che le cose cambino.
Di queste riflessioni non v’è traccia nel paper. Anzi, lo scenario delineato dalla ricerca appare abbastanza differente da quello riassunto da Feltri e posto come base per il suo ragionamento.
Che, fra l’altro, ha anche altre falle. Posto infatti che questi studenti con votazioni basse e scarse competenze che si iscrivono a Lettere e Filosofia difficilmente potrebbero investire meglio i loro soldi iscrivendosi ad altre facoltà, dato che probabilmente si arenerebbero anche lì, non si capisce poi esattamente cosa c’entri la conclusione del paragrafo, che imputa l’iscrizione di massa degli studenti alle facoltà umanistiche alla presenza in tv di “giuristi, sociologi e scrittori”.
Giuristi e sociologi, infatti, non fanno parte di facoltà umanistiche come Lettere, Storia e Filosofia (va aggiunto che nel frattempo, fra una riforma e l’altra, anche il concetto di “facoltà” usato da Feltri non ha più riscontro). Poi, a dire il vero, il rapporto citato del CEPS addirittura pone la laurea in Legge, cioè quella dei “giuristi”, come una di quelle più remunerative in Italia.
Quanto agli “scrittori”, c’è da notare che per esercitare questa professione non è necessario avere una laurea in facoltà umanistica. Gadda, per dire, era ingegnere, Moravia, Camilleri e Lucarelli non risulta si siano mai laureati, Volo faceva il panettiere, e l’unico in possesso di una laurea in filosofia risulta essere Baricco, che non ha però mai faticato a trovare da campare.
Risulta inoltre poco chiaro anche il merito della critica mossa da Feltri nel suo complesso, e riassunta in quel «È giusto studiare quello per cui si è portati e che si ama? Soltanto se si è ricchi e non si ha bisogno di lavorare, dicono gli economisti».
In realtà, infatti, il rapporto citato si limita a cercare di capire se investire in una laurea umanistica, in taluni paesi, sia conveniente dal punto di vista economico, e cioè se a fronte di quanto speso per conseguirla, si trovi poi un lavoro ben pagato. Non dice invece nulla sulle percentuali di occupazione di chi consegue un certo tipo di laurea.
In Italia, i laureati in discipline umanistiche, checché si pensi, non sono “più disoccupati”* di altri che hanno lauree differenti. Riescono a trovare lavoro prima, per esempio, di chi si laurea in biologia, facoltà scientifica. Comunque il 68% di laureati in lettere trova posto entro cinque anni dal conseguimento del titolo (la media nazionale per i laureati di altre facoltà è del 70% ) e una laurea qualsiasi è in ogni caso ancora un buon investimento, in quanto dà la possibilità di trovare un lavoro meglio pagato e più stabile rispetto a chi possiede il solo diploma.
Quindi l’assunto di Feltri, e cioè che può permettersi una laurea in discipline umanistiche solo chi non ha bisogno di lavorare, non supera la prova dei fatti. Il lavoro si trova. Forse non si troverà uno stipendio da favola. Ma magari per poter svolgere un lavoro in un campo che ti appassiona è un sacrificio anche accettabile, entro certi limiti, eh.
*Aggiornamento 14 agosto 2015 ore 20.49
Da uno scambio con Stefano Feltri che ammette che giustamente gli abbiamo fatto le pulci (non sappiamo però se ha rettificato o meno il suo articolo), ci viene fatto notare altrettanto giustamente che questa frase non è corretta: In Italia, i laureati in discipline umanistiche, checché si pensi, non sono “più disoccupati”. Quindi per maggiore chiarezza precisiamo che è vero che sono più disoccupati, ma è anche vero come precisa il link che abbiamo segnalato che c'è mercato così come per le altre facoltà. Riportiamo qui il passaggio specifico del presidente direttore di Almalaurea a cui ci riferivamo:
Riescono a trovare lavoro prima, per esempio, di chi si laurea in biologia, facoltà scientifica. Comunque il 68% di laureati in lettere trova posto entro cinque anni dal conseguimento del titolo (la media nazionale per i laureati di altre facoltà è del 70% ) e una laurea qualsiasi è in ogni caso ancora un buon investimento, in quanto dà la possibilità di trovare un lavoro meglio pagato e più stabile rispetto a chi possiede il solo diploma.
A cinque anni dalla laurea, si raggiunge un buon tasso di occupazione anche per i laureati in scienze umane e sociali: lavora l'85% contro il 91% delle lauree tecniche-scientifiche. Prima di leggere i numeri è importante tenere presente che quando parliamo di lauree umanistiche dobbiamo considerare che si tratta di titoli di studio generalisti che hanno applicazione in diversi ambiti professionali. Al contrario, i titoli tecnici sono specialistici e interessano ambiti molto precisi.
Aggiornamento 15 agosto 2015 ore 19.53
Tra i tanti commenti ai due articoli di Stefano Feltri, segnaliamo questo passaggio di un post di Marco Viola su uninews24. A Feltri, che propone di chiudere quei corsi di laurea di area umanistica il cui tasso di disoccupazione è più alto (fa il caso di filosofia e scienze della comunicazione), Viola risponde:
In ogni caso, ci sentiamo di dover rassicurare il vice-direttore del Fatto: fatto 100 il totale dei laureati, la percentuale di quelli che hanno intrapreso percorsi umanistici o sociali in Italia è inferiore a quella di Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti (vedi questo articolo di Roars al punto 3). Peraltro, se guardasse all’ultimo bando nazionale per progetti di ricerca - il SIR 2014 - Feltri scoprirebbe che, dei 47 milioni di euro destinati ai progetti di giovani ricercatori, solo il 20% dei (già pochi) fondi complessivi sono destinati al comparto scienze umane e sociali, lasciando le scienze della vita e le scienze fisiche e ingegneristiche a spartirsi equamente il restante 80%. Il vice-direttore del Fatto pensa davvero che sia necessario tagliare ulteriormente?