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Luca Traini ha commesso un attentato, smettete di chiamarla vendetta

4 Ottobre 2019 6 min lettura

Luca Traini ha commesso un attentato, smettete di chiamarla vendetta

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All’indomani dell’attentato di Macerata, su Valigia Blu abbiamo parlato apertamente di atto terroristico, invitando a fare altrettanto. Perché consapevoli che azioni di questo tipo sono facilmente derubricate a «isolati gesti di un folle», o sono attribuite a fantomatici «lupi solitari» sbucati fuori dal nulla, senza alcun background politico. Successe persino ai tempi degli attentati del 2011 in Norvegia: Vittorio Feltri sul Giornale pensò bene di domandarsi perché i giovani non si erano ribellati al solitario Anders Breivik; Marcello Veneziani, sulla stessa testata, parlò di un malato di mente. In ciò entrambi applicavano uno schema che, negli anni, di strage suprematista in strage suprematista abbiamo imparato a riconoscere, e non soltanto in Italia: quando a sparare è un maschio bianco, si tende a parlarne in termini di malattia mentale, e non di azione lucida e premeditata. Donald Trump, nel primo comizio dopo le stragi di El Paso e Daytona, ha puntato il dito contro il «problema della malattia mentale».

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Da subito, su Macerata oltre alla minimizzazione della matrice terroristica si sono messi in moto i meccanismi perversi della strumentalizzazione e della disinformazione. La segretaria provinciale della Lega alluse a una possibile storia tra Traini e Pamela Mastropietro - la giovane romana il cui corpo fu ritrovato a pezzi nel maceratese, pochi giorni prima dell'attentato. Giorgia Meloni parlò del gesto come se fosse una conseguenza diretta di un’Italia «in mano alla sinistra». Forza Nuova, attraverso un comunicato, dichiarò la propria vicinanza all’attentatore: «Abbiamo nelle orecchie il pianto straziato della famiglia di Pamela e il grido di rabbia di un’Italia che vuole reagire e non morire d’immigrazione». Tra questi meccanismi perversi scorrevano le parole dell’allora Ministro dell’Interno, Marco Minniti, che conversando con gli elettori del collegio di Pesaro-Urbino dichiarò che: «Traini, l’attentatore di Macerata, l’avevo visto all’orizzonte dieci mesi fa, quando poi abbiamo cambiato la politica dell’immigrazione». Poche le risposte politiche all’altezza, tra cui quelle del sindaco di Macerata, del segretario di Rifondazione comunista, Maurizio Acerbo e di Beatrice Brignone, segretaria di Possibile: andarono a trovare i feriti in ospedale, ricordandoci che si trattava di persone la cui unica colpa era stata di avere la pelle nera.

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È passato più di un anno da quel mattino del 3 febbraio in cui Luca Traini fece fuoco ferendo sei persone di origine straniera, facendosi poi catturare avvolto da un tricolore, mentre esibiva un saluto romano e gridava «L’Italia agli italiani». Fu colpita anche la vetrata di un bar e della sede cittadina del Partito democratico; quella «sinistra» che, appunto, si voleva far credere avesse in mano il paese. Traini è stato condannato sia in primo grado che in appello a 12 anni per strage aggravata dall’odio razziale. Eppure, da quel 3 febbraio, la copertura dell’arresto, della detenzione, del processo e della condanna di Luca Traini non è riuscita ad affrancarsi dall’idea di vendetta, dall’azione alla Travis Bickle di Taxi driver che deve vendicare l’uccisione e lo scempio del cadavere di Pamela Mastropietro.

Nel dare notizia della condanna in secondo grado, hanno parlato di «vendetta» tanto il Tg2 quanto il TgLa7. Il Tg2 ci informa anche del libro che l’attentatore ha scritto in carcere con l’aiuto di un detenuto, e che al momento non ha trovato editori. In entrambe le edizioni scompare lo sfondo politico, la radicalizzazione negli ambienti neofascisti di Luca Traini. Ha dell’incredibile il titolo dell’Agi: «Il primo pensiero di Traini è sempre Pamela. Anche dopo la conferma della condanna», si dà prevalenza alla connessione tra Mastropietro e l’attentatore in un modo così ambiguo che, per l'appunto, uno potrebbe pensare a una relazione tra i due, senza conoscere bene i fatti. Nel sottotitolo si riprende la richiesta fatta in aula di Traini perché si faccia «“verità" per quella ragazza». Il legame è rafforzato da un episodio raccontato dallo stesso Traini (dunque senza riscontri): prima di armarsi sarebbe stato in raccoglimento sul luogo dove era stato trovato il corpo della ragazza. L’agenzia di stampa riesce persino a superare a destra il Primato Nazionale, che su Twitter nel lanciare la notizia mette tra virgolette «vendetta», come a distanziarsi dal movente dichiarato da Traini.

Ma che senso ha parlare di vendetta per una persona che non si conosce, che non è nella cerchia delle proprie conoscenze più intime? Solo se si dà un valore politico a quel corpo ucciso e poi orribilmente occultato si può entrare nell'ottica della vendetta. Ma se si dà un valore politico a quel corpo, allora il contesto non può essere quello di una connessione emotiva, come per una relazione diretta, o di un'empatia così intensa da armare. Anche perché le persone prese di mira non c'entrano nulla con la morte di Pamela Mastropietro. Siamo perciò nel campo della rappresaglia: avete fatto scempio di una dei nostri, ora colpisco i vostri.

Guardando all'attentanto e all'iter processuale, non è però così rilevante addentrarsi nelle strategie difensive di Traini e del suo avvocato, tra pentimenti dichiarati e il bisogno di legare la propria immagine a una morte che ha sconvolto l’opinione pubblica, cercando così di esercitare una pressione emotiva attraverso la stampa. O perimetrare quanto i media prestano al fianco a un pericoloso gioco mistificatorio, come se non ci fosse il rischio di emulazione - c’era il nome di Traini, a mo’ di eroe della causa, su una delle armi dell’attentatore di Christchurch. Non serve nemmeno notare come la politica abbia sostanzialmente taciuto di fronte alla condanna, anche quella parte che si era stracciata le vesti in nome del popolo italiano, o della «povera Pamela».

Perché mentre la giustizia segue il suo corso, già possiamo vedere come l’attentato di Macerata sia ormai diventato la nostra Storia italiana X: palese la matrice ideologica, preannunciata dalla propaganda xenofoba la vampa dell’odio razziale, è impossibile distogliere lo sguardo della memoria di quell’episodio, che ha segnato una città e inciso sulla campagna elettorale. Eppure questa storia non la si vuole raccontare fino in fondo, non si vuole usare quella lingua che fende le nebbie della menzogna, che aderisce al contesto cercando di coprire ogni centimetro, senza lasciare zone oscure, ambiguità. Perché per farlo bisognerebbe parlare di odio, di quell’odio che si fa ideologia; si diffonde, arma e preme il grilletto. E ha la pelle del nostro stesso colore, magari frequenta la nostra stessa palestra, il nostro stesso bar. Questo tipo di odio è difficile da guardare in faccia, evidentemente è più facile paludarlo con altre parole. Vendetta, per l’appunto, ma anche giustizia, sofferenza, follia. Persino amore, protezione, difesa - dei confini, delle radici, dell’identità, della razza. Le uniche parole che sembra difficile accostargli sono «fascismo», «suprematismo», «terrorismo». Così la nostra Storia italiana X rimane incompleta, piena di falle, e la lunga ombra di ciò che non viene detto allunga i suoi tentacoli su di noi, mentre l’odio viene persino mitizzato, alzando una quarta parete tra noi e la realtà di un paese dove si può compiere un attentato ed essere elevati al rango di antieroi. E se è sfortunato quel paese che ha bisogno di eroi, immaginate quanto sia disgraziato il nostro.

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Aggiornamenti

Aggiornamento 7 ottobre 2019: In una precedente versione dell'articolo avevamo erroneamente riportato che Maurizio Acerbo era il segretario della sezione locale di Rifondazione comunista

Immagine via Il Fatto Quotidiano

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