Dio, patria e famiglia: il ‘sovranismo’ linguistico del governo Meloni
5 min letturaTra i vari sovranismi che insidiano il tempo presente, imbarbarendo il dibattito pubblico, ce n’è anche uno squisitamente linguistico. Contrariamente a quanto si possa pensare non è (solo o principalmente) una riedizione di quel purismo di “mussoliniana” memoria, che si abbatté contro i dialetti e i forestierismi, per altro fallendo. Consiste, invece, nel tentativo di blindare un certo uso della lingua a scopo ideologico: preservare una certa dimensione dell’identità nazionale, di impianto virilista, opponendosi a specifiche esigenze di cambiamento. Come quelle provenienti dai movimenti femministi e LGBT+, che chiedono rappresentazione (anche) nella lingua.
Possiamo definirlo “sovranismo” – e non semplicemente conservatorismo – perché non solo confligge con i cambiamenti in atto (le resistenze al cambiamento sono fisiologiche, e a volte anche salutari, in qualsiasi società), ma vi si oppone per questioni che abbiamo detto ideologiche e riconducibili a una precisa area politica: quella post-fascista e di estrema destra, salita al potere dopo le recenti elezioni di fine settembre.
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Il sovranismo, ricordiamolo, è quella «posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione». Si riscontra, in questa definizione, una dialettica oppositiva tra conservazione e mutamento. Tale dialettica si snoda, per il caso italiano, sulla tutela di un’identità nazionale da proteggere da determinate forze “esterne”. Vedremo quali.
Sulla costruzione dell’identità italiana, portata avanti dalle destre (sovraniste e non) negli anni passati, e su cui è scivolata anche una certa sinistra che ha cavalcato quel processo, si è già espresso Christian Raimo, nel suo saggio Contro l’identità italiana, a cui si rimanda per approfondire il concetto di virilismo identitario. Qui ci si limiterà a riportarne una sintesi, che si basa su tre parole: Dio, patria, famiglia.
Più in generale, la retorica della destra – che si gioca anche sulle corde del vittimismo – vede come nocivo tutto ciò che è esterno a tale identità. Contro di essa vede un avversario temibile nei soggetti non normativi, quali femministe (che combattono il potere patriarcale), movimenti di liberazione sessuale, tra cui il movimento LGBT+ (non previsti nel disegno di Dio), le stesse realtà migranti (che invadono il suolo patrio).
Per motivi, dunque, anche molto diversi tra loro: dalla salvaguardia delle cosiddette “radici cristiane” alla difesa dei confini. Ma tutte queste realtà finiscono in un calderone comune che le rende corpi estranei a un modello specifico di società. Ne consegue che, in base a quanto detto sin ora, l’identità nazionale non si coagula esclusivamente attorno a una dimensione territorialista, che può confluire in un generico nazionalismo, ma anche attorno a questioni che potremmo definire “di genere”.
Per avere da subito chiaro su quale piano si gioca la questione della costruzione di un’identità siffatta, basterà ricordare che il termine che designa gli appartenenti al partito di Giorgia Meloni è “patrioti”. Parola che ci riconduce a “patria”: la terra dei padri, appunto. E lo stesso partito della presidente del Consiglio si chiama “fratelli” d’Italia. Scelte linguistiche che escludono volutamente la dimensione del femminile. Giusto per avere una prova di quel virilismo identitario di cui si è già fatto cenno.
In questo quadro si comprende come mai molte delle scelte linguistiche dell’attuale classe dirigente vanno lette all’interno di questa cornice. A cominciare dalla scelta di Giorgia Meloni di farsi chiamare al maschile: “il presidente del Consiglio”. E contrariamente alla facili ironie che abbiamo potuto leggere sui social – c’è chi ha addirittura scherzosamente accusato la leader di FdI di scivolare su quel “gender” contro il quale dice di lottare – non c’è alcuna oscillazione da un genere all’altro. Giorgia Meloni ha rivendicato, e più di una volta, il suo essere “donna, madre e cristiana” (tutto al femminile) insieme alla sua italianità.
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Semplicemente, tale italianità si basa sul mantenimento di una dicotomia: il maschile, anche grammaticale, come dimensione del potere. Il femminile, come sfera dell’accudimento. In questa terra di padri, che sforna patrioti tra loro fratelli, anche una donna può assurgere ai ranghi più alti del potere. Purché questo potere conservi quella natura esclusivamente virilista. E purché la narrazione di essa sia in armonia con tale visione.
Altro campo di battaglia di questo sovranismo linguistico è il lessico familiare: una recente sentenza del tribunale di Roma ha imposto di eliminare la dicitura “padre” e “madre” dalle carte di identità per minori, voluta dall’allora ministro degli Interni Salvini, in quanto esclude le famiglie arcobaleno. Al posto di quei due termini si userà un più neutro “genitore”. Complice anche certa stampa, e non necessariamente di destra, abbiamo visto titoli per cui la magistratura sdoganava “genitore 1” e “genitore 2” – notizia per altro non corretta – vero e proprio fumo negli occhi della narrazione sovranista. Proprio perché l’uso del semplice “genitore” rompe quella dicotomia maschio-femmina, basata sull’asimmetria di ruoli e di gestione del potere.
Ma dietro tale crociata terminologica – che è pure diventata un tormentone in cui Meloni veniva remixata – non c’è la conservazione di un linguaggio affettivo (si potrà continuare a dire papà e mamma in qualsiasi famiglia italiana, ovviamente), bensì la difesa di un unico modello familiare, che coincide con la tradizione, con la famiglia italiana standard e che va contro i modelli importati da nazioni ben più permissive, la cui cultura è lontana dai “nostri” valori, religiosi e culturali. Un modello caro alla destra che esclude le coppie dello stesso sesso e vede come male assoluto sia le adozioni sia il ricordo alla gestazione per altri. Nella “terra dei padri”, insomma, certe cose non si fanno.
Maschile sovraesteso, scelte lessicali precise, crociate linguistiche di impianto familista e – non ultima e non citata perché se ne è parlato altrove – guerra allo schwa, ci riconducono a usi linguistici che sono ideologici. Nella lingua, in verità, le scelte non sono sempre del tutto neutre (men che mai neutrali): l’esistenza di un maschile generico, ad esempio, è riflesso del fatto di vivere in una società che per secoli ha costruito dispositivi di potere, tra cui la narrazione, attorno al modello patriarcale.
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I partiti attualmente al governo sembrano voler difendere proprio questo impianto: e non certo per la salvaguardia della nostra lingua – anzi, certe scelte risultano addirittura sgrammaticate, come in certi comunicati per cui “il presidente [...] si è recata”, poi cambiato sulla pagina Facebook di palazzo Chigi – o per reminiscenze puristiche. Il campo di battaglia è quello dei diritti e del riconoscimento delle identità che confliggono con tale visione della società. Non “sono solo parole”, parafrasando una famosa canzone di Noemi. È un disegno politico. Da contrastare, a partire proprio dalla lingua e dall’uso che intendiamo farne.
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