Il caso delle foto di Liliana Murekatete mostra ancora una volta il sessismo dei media
6 min letturaCi sono vittime che viene più facile raccontare, perché corrispondono al nostro modello di vittima. Ma non tutte le vittime ci assomigliano, non tutte le vittime ci rappresentano e non tutte le vittime sono senza colpe.
L’immaginario comune di “vittima”, nelle dinamiche di potere interne alle nostre società, gioca un ruolo centrale nell’empatia verso una persona e nella percezione dell’ingiustizia che questo soggetto subisce. A ciò bisogna aggiungere gli eventuali tratti di quella persona che possono essere considerati rappresentativi di un gruppo sociale.
È il motivo per cui, ad esempio, nei primi mesi di questo intenso anno, abbiamo visto sfilare sui nostri schermi —con una normalità forse più preoccupante di certe affermazioni stesse — narrazioni che ponevano in antitesi gli esodi dall’Ucraina indotti dalla guerra e quelli dalle altre parti del mondo, sulla base di un paradigma non troppo velato di solidarietà condizionata dalla gradazione di colore di chi chiede aiuto.
È il motivo per cui tanti si dicono in prima linea nella lotta per i diritti umani e per la dignità di ogni individuo, ma sono magari pronti a fare un passo indietro quando le persone per cui lottare sono carcerati stipati nelle nostre prigioni, al crocevia tra fallimento del sistema e feticismo per la sofferenza. Insomma, coloro che, per circostanza o sfortuna, sono lasciati ai margini delle nostre coscienze.
Il caso di Liliane Murekatete fa solo da corredo a questa collezione di ipocrisie, ma va ad alimentare un fenomeno malsano che forse con troppa facilità lasciamo correre in nome del “se l’è cercata”, “non è certo una santa”.
Ricapitolando per chi fosse rimasto estraneo alle dinamiche di questa triste faccenda: il deputato Aboubakar Soumahoro, eletto in Parlamento lo scorso 25 settembre con la lista Verdi-Sinistra italiana finisce al centro di uno scandalo a causa di un’indagine sulla famiglia della moglie Liliane Murekatete. La madre della donna, Marie Therese Mukamitsindo è a capo di due cooperative (Karibu e Consorzio Aid), che si occupano dell’accoglienza dei migranti, ed è accusata di non aver pagato i dipendenti, di frode, di cattiva gestione delle strutture e di mancanza di conformità di alcune di esse; nei giorni scorsi, è arrivata la notizia che anche la stessa Murekatete è indagata.
Un’accusa questa che va a sporcare la tonaca troppo pulita di chi si è sempre detto portavoce e protettore degli “invisibili”, in prima linea nella difesa dei diritti dei braccianti e nella lotta al caporalato. La crociata è partita violenta e questa violenza ha dato prova, ancora una volta (non che ne avessimo bisogno), dell’inadeguatezza del nostro giornalismo e della putrefazione che aleggia all’interno della nostra politica.
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Il dibattito degenera ulteriormente quando le foto di nudo artistico di Liliane Murekatete, risalenti a una decina di anni fa, quando non aveva ancora conosciuto il compagno, né ricopriva i suoi incarichi attuali, sono diffuse da una serie di testate giornalistiche, oltre che dalla trasmissione Striscia la Notizia. La diffusione ha visto Murekatete annunciare una querela, poiché quelle immagini sarebbero state diffuse senza il suo consenso. L'autore delle foto, a sua volta, ha a sua volta annunciato querela contro Murekatete, affermando di non essere stato lui a diffonderle.
Proprio in televisione, nel programma di Antonio Ricci, si mette in scena uno spettacolo spregevole in cui gli scatti sono fatti scorrere in sequenza, allo scopo di denigrare e umiliare la persona. Seni e pube (“le vergogne” come da loro definiti), censurati con le facce di uomini di sinistra, diventato l’oggetto di scherno per milioni di utenti sintonizzati sul canale nazionale.
“Donna non si nasce, lo si diventa": questa frase di Simone de Beauvoir è stata pubblicata nel 1949. Ha fatto il giro del mondo e ha portato donne di ogni condizione, cultura, nazionalità, a prendere coscienza, forse ancora più che in passato, della loro oppressione, a denunciarla e ad organizzarsi collettivamente. Donna lo si diventa, in effetti. Lo si diventa perché la società, a immagine e somiglianza dei nostri patriarchi, insegna alle ragazze che appartengono al "secondo sesso".
E le ragazze, prima di essere donne, integrano l'idea di questa differenza di genere sotto la pressione della loro socializzazione. Pregiudizi e stereotipi che l'educazione da sempre, e i media ancora oggi, continuano a veicolare, anche nei paesi considerati i più egualitari nei rapporti sociali tra donne e uomini. Diventiamo donne, e lo impariamo a nostre spese, scoprendo i vincoli a cui ci siamo sottoposti, e il peso che accompagnerà ogni movimento del nostro corpo per il resto della vita.
Questo corpo che in realtà non è mai nostro, nel senso che non ci appartiene, è sempre oggetto e proprietà di altri, anche quando questo non lo vogliamo concedere, e se per sbaglio osiamo affermare la nostra libertà di usufruirne, questa ci viene strappata di mano prontamente, ribaltandone i significati, per ricordarci chi in realtà detiene il potere.
Mostrare le foto intime di una donna senza il suo consenso, in diretta nazionale, allo scopo di denigrarla e sminuirla, è violenza. In altri contesti io potrei fermarmi a questa frase, senza dover dare ulteriori spiegazioni, perché questa violenza sarebbe riconosciuta chiaramente, con i tanti “se” e “ma” che non risparmiano mai nessuna donna, ma sarebbe riconosciuta.
Sarebbe riconosciuta la similitudine tra questa tattica squadrista e la violenza di certi uomini che per punire le donne che hanno fatto loro un torto (leggi “deciso di non sottostare alla loro volontà”) diffondono le loro foto intime o prese sui social su gruppi o siti internet, per macchiarne l’immagine.
Sarebbe riconosciuto che questa non è che un’altra forma di quello che viene definito “revenge porn”, più subdola e forse più normalizzata. Io, uomo, decido di calpestare il tuo diritto di disporre liberamente della tua immagine, diffondendo le tue foto consapevole del danno che ti farò.
Eppure oggi si ride di queste “foto osè", magari parlando di “goliardia”. Forse perché Murekatete, appunto, per noi non rappresenta la vittima perfetta. “Lady Gucci”, una donna nera africana benestante (“Chissà come lo è diventata?” si chiedono alcuni), magari nemmeno tanto innocente, come può arrogarsi il diritto di essere anche vittima?
Una donna che sceglie di mostrarsi nuda, magari andando contro la nostra morale e il nostro ideale di purezza, non può rappresentare il nostro prototipo ideale di vittima. C'è sempre un motivo, un tratto dietro cui nascondersi, per partecipare attivamente alla degradazione pubblica, o per non opporsi. Boldrini per le sue politiche, Meloni perché è di destra, Kyenge perché nera.
L’ipersessualizzazione è diventata una pratica di comunicazione normalizzata in Italia, strumentale alla delegittimazione di importanti politiche e personaggi pubblici, ed eseguita non solo dalla gente comune , ma da politici - per lo più maschi - in primo luogo.
Un atto linguistico performativo che norma o reitera la violenza di genere: lo scopo è sempre lo stesso, riprodurre il dominio maschile e il controllo sulle donne.
Forse ciò che bisogna chiedersi è perché il primo mezzo per distruggere la credibilità e la dignità di una donna continua ad essere la sua sessualità, il modo in cui vive e si appropria del suo corpo e la libertà con cui lo fa. Interrogarci sul perché, anche nelle società che si dicono più egualitarie nei rapporti sociali tra uomo e donna, ancora conferiamo tanto potere all'oggettivazione dei corpi delle donne, sul perché lasciamo spargersi con tanta facilità la violenza che ne deriva. Questa percezione polarizzata delle donne, da rinchiudere in gabbie definite, come “caste” o “promiscue”, l’idea che siamo o “sante” o “puttane”.
Forse è ora di aprire gli occhi sul fatto che questo processo sociale per cui le donne sono pubblicamente esposte e svergognate per la loro disponibilità sessuale, presunta o reale, per il loro corpo o per la loro sola esistenza in quanto donne non è che uno strumento del potere patriarcale che tocca tutte, prima o poi, ed è lui il vero nemico.
Perché la destra, si sa, ha un problema con le donne, con l’autonomia dei loro corpi, la loro determinazione e autodeterminazione: riproduzione, sessualità, educazione. Ma forse questo problema non è così circoscritto a chi fa del conservatorismo la sua bandiera.
In un contesto in cui la spaccatura tra destra e sinistra in relazione alla questione dei diritti non è più così netta e precisa, forse è ora di riappropriarsi di queste lotte e interrogarci sulla necessità di smantellare e ricostruire tutto il sistema su cui fondiamo le nostre politiche che, alla fine dei conti, che sia in mano a donne o uomini, non fa altro che giovare e mantenere lo status quo.
Ed è forse su queste sue contraddizioni che dovremmo riflettere per comprendere il fallimento graduale della sinistra negli ultimi decenni. Dirsi pro-immigrazione ma poi fare o appoggiare leggi che creano le condizioni lo sfruttamento dei migranti (Legge Turco-Napolitano, Decreto Minniti), dirsi al fianco dei lavoratori, ma poi promuovere leggi che tutto fanno tranne i loro interessi (Jobs act), dirsi portavoce degli invisibili e dover rendere conto di chi è accusato di lucrarci sopra.