Libia, le torture e le morti. La sospensione dei diritti umani finanziata da Roma e Bruxelles
11 min letturadi Nancy Porsia
Già approvato dal Consiglio dei Ministri a inizio luglio il rifinanziamento alla Guardia Costiera libica, presto il Senato sarà chiamato a votare. Nonostante le torture, le morti e più in generale la sistematica violazione dei più elementari diritti idei migranti in Libia sia stata ampiamente documentata da inchieste e reportage, il Parlamento italiano potrebbe per il quinto anno consecutivo votare a favore per il rifinanziamento della Guardia Costiera libica.
Corpi gonfi d’acqua, con la pelle squamata per le ustioni da sole e sale, riversi in ordine sparso lungo il bagnasciuga, tornano a punteggiare le coste libiche. “Questo è un orrore che pensavamo facesse parte del passato. Invece torna puntuale”, racconta un uomo di Zwara, città sulla costa nell’estremo Ovest della Libia. Fu proprio lui lo scorso 21 maggio, a ritrovare i corpi di due bambini risputati dal mare insieme a quello di una donna. “Era l’alba, stavo facendo una passeggiata, come ogni mattina, in riva al mare nei pressi della casa vacanza di famiglia, quando ho notato quei piccoli corpi”, racconta l’uomo.
Per Ahmed, nome di fantasia, non è stato facile trovare persone disposte a recuperare quei corpi. L’organizzazione governativa Libyan Red Crescent da tempo denuncia le condizioni precarie in cui si ritrovano a svolgere mansioni delicate come questa. In sostanza gli operatori, tutti volontari, non sono neanche coperti da assicurazione medica. Anche dalla Direzione di Sicurezza locale, da due anni competente per questo triste compito, si mostrano reticenti verso operazioni così delicate. D’altronde il loro capo era stato arrestato un mese prima in una sorta di faida tra gruppi armati, e per loro tanto bastava a esonerarli dal lavoro. “Ho ricordato loro che si trattava di bambini, che non si potevano lasciare lì. Ho dovuto insistere, sì, ma poi per fortuna gli uomini della Direzione di Sicurezza sono arrivati e hanno recuperato i cadaveri che la forte corrente e la tempesta del giorno prima hanno con grande probabilità trascinato fin sul bagnasciuga”. Tuttavia altri corpi, secondo un pescatore di Zwara, sarebbero rimasti per giorni abbandonati sull’isola di Farwa, una lingua di terra di circa cinque chilometri al largo della città della comunità di minoranza degli Amazigh, o berberi.
Con la fine, lo scorso ottobre, dell’offensiva del Generale Khalifa Haftar, l’uomo forte dell’Est che nell’aprile del 2019 aveva lanciato un’offensiva sulle forze del Governo di Accordo Nazionale di base a Tripoli, sostenuto dalle Nazioni Unite, sono tanti i migranti che oggi entrano nel paese attraverso le porose frontiere del deserto a sud. Le piazze delle principali città lungo la costa libica, dove i migranti si ammassano in attesa che qualcuno li carichi su un pick-up per una giornata di lavoro, sono di nuovo gremite, raccontano residenti di Tripoli, Misurata e Zwara. Anche il relativo superamento dell’emergenza COVID-19 e la sospensione delle misure di restrizione hanno portato ad una nuova spinta alla circolazione dei migranti attraverso la Libia.
Dopo circa quattro anni, i numeri tornano dunque a salire. Nei primi sei mesi del 2021 i migranti sbarcati in Italia sono circa 19.800 a fronte dei 6.184 del 2020 e 2.397 nel 2019, creando non pochi imbarazzi tra Roma e Bruxelles, dove i governi avevano mostrato compiacimento per i risultati raggiunti dalle politiche di contenimento dei flussi migratori. Tuttavia pare che quel tappo che l’Italia e l’Europa tutta avevano sistemato alla meno peggio all’imbocco del Mediterraneo all’indomani dello scoppio della guerra civile in Libia, investendo ingenti risorse in Libia, possa presto saltare. Dal 2017 Roma ha speso circa 784,3 milioni di euro, mentre Bruxelles altri 400 milioni, quindi circa 1 miliardo e 100 milioni di euro allocati per finanziare la Guardia Costiera libica e le altre autorità competenti del paese nordafricano, teoricamente impegnate contro il traffico degli esseri umani. Oggi oltre che sulla vexata quaestio di quanto sia legittima la cooperazione con la Guardia Costiera libica, inaugurata dall’allora Ministro dell’Interno Marco Minniti con il Memorandum of Understanding e rilanciata da Bruxelles con il sostegno ai militari libici attraverso lo European Union Trust Fund to Africa (EUTFA), tocca riflettere anche sul fallimento di quella che fu venduta all’opinione pubblica europea come la linea del pragmatismo.
Era noto, non solo negli ambienti dell’intelligence, ma anche in quelli diplomatici, quali fossero i rischi connessi al finanziamento della Guardia Costiera libica, così come in generale delle istituzioni di un paese dallo Stato fallito e in piena guerra civile come la Libia. Gruppi armati che rispondono al Ministero della Difesa o dell’Interno non di rado attingono proprio dai traffici illeciti per poter finanziare la propria resistenza sul fronte, quando non si tratta invece di ufficiali libici corrotti che cercano invece nelle attività illecite una mera opportunità di business personale. Di fatto l’Italia e l’Europa hanno deciso di affidare il delicato compito della gestione dei migranti, e quindi dei diritti di persone vulnerabili, a un paese che non solo non ha mai firmato la Convenzione sui Diritti del Rifugiato del 1951, ma in cui da anni, o meglio decenni, manca totalmente lo stato di diritto. In una simile economia di guerra, l’Italia e l’Europa hanno di conseguenza chiuso accordi con esponenti di lobby politiche implicate nel traffico, e le stesse che, all’occorrenza, sarebbero in grado di fermarlo.
Tra gli ufficiali libici referenti del processo di cooperazione Italia-Libia sul fronte della lotta al traffico degli esseri umani, il capo della guardia costiera della città di Zawiya, Abdul Rahaman Al Milad, più famoso con il suo nome de guerre Bija, è stato in prima persona accusato di essere coinvolto nel traffico di migranti. Rimasto al suo posto fino al 2018, quando il suo nome è stato inserito nella lista dei cittadini libici sanzionati dal Consiglio di Sicurezza ONU perché coinvolto nei traffici di esseri umani e di diesel, e successivamente raggiunto da un mandato d’arresto del Procuratore Generale di Tripoli, era stato arrestato lo scorso ottobre dietro forti insistenze dell’allora Ministro dell’Interno libico Fathi Bashaga. Bashaga aveva fatto della lotta ai trafficanti il cavallo di battaglia della sua politica e campagna elettorale. Già nel 2019 aveva dichiarato che alcuni trafficanti come Bija erano ancora a piede libero solo perché le forze militari del suo Governo erano purtroppo impegnate a difendere Tripoli dall’offensiva di Haftar e i suoi alleati russi. Bashaga aveva promesso che una volta vinta la guerra, avrebbe fatto arrestare una serie di noti trafficanti. E a fine combattimenti, l’ex ministro dell’Interno ha mantenuto la sua parola: il capo guardacoste di Zawiya è stato arrestato.
Tuttavia, alle elezioni del governo libico ad interim tenutesi a Ginevra lo scorso gennaio, Bashaga ha perso, e con lui evidentemente la politica di intransigenza verso il network di trafficanti. Ha vinto Abdul Hamid Dbeiba, non solo businessman di memoria gheddafiana, ma addirittura uno degli uomini di punta della corte dell’ex Colonnello. Per Dbeiba la pacificazione tra le parti è una questione di affari, e parla con tutti quelli che hanno potere. Certamente tra questi c’è anche la lobby dei trafficanti. Non è un caso se a poche settimane dall’elezione di Dbeiba, lo scorso aprile Bija sia stato rilasciato per insufficienza di prove. Dettagli per l’Italia e l’Europa, da anni concentrati unicamente sulla politica del controllo dei numeri, in cui la questione dei diritti umani resta pura speculazione a carattere facoltativo.
D’altronde Bruxelles era stata abbastanza chiara già dai tempi dell’accordo con la Turchia di Erdogan nel 2016 sulla deportazione dei richiedenti asilo siriani dall’area Schengen. “Noi vi paghiamo per tenerveli, e quello che fate non è affare nostro”, è in buona sostanza il messaggio lanciato dall’Europa ai paesi a sud del Mediterraneo. Legittimati e finanziati, gli ufficiali libici hanno dunque avuto prova inconfutabile della propria impunità. Non a caso, dal 2016 in poi la linea di confine tra i cosiddetti campi in cui i trafficanti tengono sotto sequestro i migranti e i centri di detenzione gestite dal Dipartimento Contro la Migrazione Illegale (DCIM) del Ministero dell’Interno è andata assottigliandosi. Nei campi dei trafficanti così come nei centri di detenzione ufficiali migliaia di migranti vengono torturati a scopo di estorsione e le donne spesso subiscono violenza sessuale, fino ad arrivare a casi di morte per trauma. Proprio qualche giorno fa, alcune ragazze minorenni hanno dichiarato di essere state stuprate in una prigione gestita dal Ministero dell’Interno a Tripoli.
A riprova delle pessime condizioni in cui versano le donne, gli uomini e i bambini costretti a una detenzione arbitraria, dai tempi indefiniti, nelle carceri libiche, anche Medici Senza Frontiere lo scorso 22 giugno ha annunciato la sospensione delle proprie attività di assistenza in due dei centri della capitale gestiti dal DCIM. Secondo l’organizzazione non governativa, il recente sovraffollamento dei centri di detenzione avrebbero esasperato le già condizioni precarie dei migranti lì detenuti. Nel centro Al Mabani, i detenuti sono passati da 300 a circa 2000 nel giro di un solo mese, riportavano a fine maggio i responsabili di MSF, con conseguenti tensioni tra le persone in stato di detenzione e le guardie carcerarie. A fine maggio c’è stata una sparatoria in cui è rimasta uccisa una persona e due ragazzi minorenni sono stati gravemente feriti, mentre lo scorso 17 giugno le guardie di Al Mabani avrebbero nuovamente aperto il fuoco ferendo diversi migranti.
E il sovraffollamento che si registra oggi nelle carceri DCIM in Libia è inoltre diretta conseguenza della politica di intercettazioni dei migranti in mare per mano dei militari libici, auspicata e architettata da Roma e Bruxelles e implementata dalle autorità di Tripoli con l’ausilio dei partner a nord del Mediterraneo. Dall’inizio del 2021, sono circa 14 mila i migranti intercettati dai militari libici nel Mediterraneo centrale, a fronte dei circa 10 mila riportati indietro nel corso dell’intero 2020 e dei 7000 intercettati nel 2019. Tuttavia non si tratta di migranti fermati a ridosso delle coste libiche, bensì di uomini e donne in fuga dai propri paesi prima e dalla Libia dopo e già naufraghi in acque internazionali. Infatti ai militari libici, quelli non in grado di espletare la ricerca e il soccorso in mare autonomamente tanto da necessitare il sostegno in loco dei partner europei, è stata riconosciuta la competenza della zona Search and Rescue (SAR) fino alle 80 miglia nautiche, praticamente a metà strada tra la Libia e Lampedusa.
Le migliaia di corpi ammassati senza soluzione di continuità nei centri DCIM in giro per la Libia, raccontano del processo fisiologico di un paese come la Libia che, al netto dei proclami dei Governi europei i quali dal 2016 provano a vedere le istituzioni-fantoccio libiche come partner legittimi, resta un paese senza Stato né apparato di sicurezza nazionale. In tale contesto i finanziamenti a pioggia da parte dell’Italia e dell’Europa poco potevano in un’ottica a lungo termine, se non per rimpinguare le casse di quei gruppi armati, o di quei network criminali all’interno delle istituzioni, che fanno della detenzione dei migranti il proprio business.
La stessa prigione Al Mabani – su cui MSF lo scorso 21 giugno ha chiesto all’amministrazione di aprire un’inchiesta per individuare tra le guardie i responsabili dei pestaggi ai danni dei migranti detenuti – è stata aperta illegalmente in una ex fabbrica di tabacco, nell’ovest di Tripoli, da rappresentanti della lobby della città-Stato di Zintan, cui appartiene anche il capo del DCIM, Abd Al Hafid Mabrouk. Nel corso del 2019 e 2020, spesso i migranti intercettati dai militari libici in mare e rifiutati dai direttori di altri centri venivano portati nella ex fabbrica di tabacco senza che venisse lasciata traccia. Ad oggi Al Mabani risulta tra i centri di detenzione per migranti riconosciuti dal DCIM. Tuttavia, ieri come oggi, basta pagare circa 2.000 dinari per ricomprarsi la libertà e uscire dalla fabbrica di tabacco Al Riadi, raccontano alcuni migranti passati da lì.
La Libia guarda al prossimo 24 dicembre, 70esimo anniversario dell’indipendenza della Libia, giorno in cui il governo ad interim di Dbeiba dovrebbe consegnare il paese alle elezioni presidenziali. Ad oggi, però, non è stata ancora fissata la data del referendum sulla Carta Costituzionale, né è chiaro con quale legge elettorale si andrà al voto. Di certo la data suggerita dall’allora Rappresentante Speciale per le Nazioni Unite in Libia, Stephanie Williams, potrebbe in realtà rivelarsi l’ennesimo errore della diplomazia in Libia, che a quel punto si ritroverebbe nuovamente con un Governo con mandato scaduto e quindi privo di legittimità. Nella seconda conferenza di Berlino, che si è tenuta lo scorso 23 giugno, la comunità internazionale ha insistito con i rappresentanti libici sulla necessità di andare al voto come da calendario e, preferibilmente, di assicurarsi l’evacuazione dei mercenari stranieri dal territorio libico. Ma l’Europa e l’Italia sanno di avere oramai poco potere contrattuale in un paese in cui la Russia di Putin e la Turchia di Erdogan definiscono dettagli di ben altre partite negoziali. L’arrivo del democratico Joe Biden alla Presidenza degli Stati Uniti resta l’unico spiraglio di speranza per la creazione di una cabina di regia congiunta con l’Europa. Nel frattempo i russi e i turchi mantengono le loro postazioni sul campo. Mentre Roma e Bruxelles non possono fare altro che continuare a inviare fondi per evitare, a questo punto, che i loro partner libici riaprano il mare, reclamando ulteriore sostegno. E chissà ancora per quanto il comandante di turno italiano potrà rimanere a capo del centro di coordinamento a Tripoli dell’operazione Nauras, la missione bilaterale Italia-Libia attraverso cui gli italiani sostengono i militari libici nelle loro intercettazioni di migranti in mare.
E pensare che a Zwara nel 2014, proprio agli albori della guerra civile lanciata dal generale Khalifa Haftar contro il governo di Tripoli, ci erano riusciti a chiudere il mare, o meglio a sfidare i trafficanti, spesso i loro stessi zii e cugini se non padri, pur di porre fine allo spettacolo macabro di morte sulle loro spiagge. La società civile scese in piazza contro i cosiddetti “vampiri di Zwara”. E per scoraggiare i migranti, giovani uomini e giovani donne avevano appeso nei bar in città le stampe a colori dei corpi gonfi dalla pelle bruciata risputati dal mare. All’epoca alcuni pezzi della società civile, ma anche dell’amministrazione della città, si offrirono di collaborare con gli italiani per aprire un corridoio umanitario. Ma la proposta rimase lettera morta. Mentre la guerra civile libica si è trasformata in guerra per procura fra Turchia e Russia, molti di quelle ragazze e quei ragazzi che nel 2014 erano in piazza contro i trafficanti hanno preso a loro volta la via del mare, per scappare da quell’inferno. E per chi è rimasto, quei corpi riversi in riva al mare quasi non fanno più notizia.
D’altra parte in pochi in città lo scorso 3 luglio si sono soffermati a discutere delle 43 persone partite da Zwara e morte qualche miglio più in là, al largo della Tunisia. Qui i migranti diretti via mare in Europa cercano riparo per evitare la guardia costiera libica, che vanta il sostegno di risorse e tecnologie made in Europe. Un tempo nella città Amazigh sarebbe scattata la caccia al criminale, all’uomo che per avidità si era sporcato le mani di sangue. Ma oggi no, la notizia del naufragio del barcone partito da Zwara così come la notizia dei quattordici corpi riaffiorati nelle stesse ore dal mare nella vicina città di Zawiya, non catturano l’attenzione. Forse perché per i libici oramai la migrazione, i morti, i sopravvissuti del mare sono temi confinati alla politica, e della politica loro non si interessano più.
Credits foto anteprima: Nancy Porsia – Libia, 2016. Una donna nigeriana nutre suo figlio di un mese di sola acqua, dopo aver perso la montata lattea per via delle precarie condizioni di vita nel centro di detenzione libico. Da tre settimane è rinchiusa nel carcere per migranti donne di Surman, dopo essere stata intercettata e arrestata dalla Guardia Costiera libica insieme ad un centinaio di migranti a bordo di un gommone al largo della costa.