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Cosa sta succedendo in Libia: da guerra civile a guerra multipolare

19 Aprile 2019 35 min lettura

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Cosa sta succedendo in Libia: da guerra civile a guerra multipolare

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Domenica 21 gennaio a Berlino la conferenza sulla Libia

Aggiornamento 15 gennaio 2020: Domenica prossima Berlino ospiterà un’importante conferenza sulla Libia e il conflitto in atto. L’obiettivo è avviare un processo di riconciliazione per arrivare a un paese sovrano, ha spiegato il portavoce del governo tedesco Steffen Seibert.

Tra i partecipanti all’evento ci dovrebbero essere Fayez al-Sarraj, presidente del governo libico con sede a Tripoli e riconosciuto dalle Nazioni Unite, e il “generale” Khalifa Haftar, a capo della parte orientale del paese nordafricano, che da aprile scorso ha lanciato un’offensiva contro la capitale libica, appoggiata anche da Egitto, Emirati Arabi Uniti, Giordania e mercenari russi. Al tavolo siederanno anche Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia, Italia, Unione Europea e Nazioni Unite. Il governo tedesco ha inoltre esteso l’invito all'Unione africana, alla Lega araba, alla Repubblica del Congo, all'Algeria, all'Egitto, agli Emirati Arabi Uniti e alla Turchia, scrive DW

Proprio Haftar, martedì 14 gennaio, ha lasciato Mosca senza firmare l’accordo di cessate il fuoco raggiunto il giorno prima, perché in disaccordo su alcuni aspetti, dopo i colloqui avvenuti in Russia tra le parti in conflitto. Al contrario, al-Sarraj ha posto la sua firma. 

Il ministro della Difesa russo ha comunque dichiarato che Khalifa Haftar si è preso due giorni per decidere. Nel frattempo la Turchia – che a inizio gennaio ha approvato una mozione per  per inviare truppe in Libia a sostegno del governo di Sarraj – ha fatto sapere che darà "una lezione" al “generale” se le sue truppe (LNA) continueranno ad attaccare Tripoli.

La scorsa settimana al Sarraj e Haftar erano stati a Roma incontrandosi con il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. I colloqui si sono svolti in giorni differenti dopo che al Sarraj aveva annullato il proprio – non confermato dalla presidenza del Consiglio, ma dato per certo da diverse fonti, riporta Sky Tg 24. Una decisione arrivata, secondo fonti libiche riportate dai media, dopo che al-Sarraj aveva saputo della presenza a Roma di Haftar e che, secondo diversi analisti, ha fatto fare una “figuraccia” all'Italia, mostrandone il ruolo marginale assunto sulla Libia, a scapito di nuovi soggetti in gioco come Russia e Turchia.

Intanto, denunciano IOM e l'UNHCR, dall’inizio del conflitto libico almeno 29.863 famiglie (circa 149.315 persone) risultano sfollate, con almeno 1 milione di persone bisognose di assistenza umanitaria.

 

Il Parlamento turco dà il via libera all'invio di truppe in Libia

Aggiornamento 3 gennaio 2020: Nel pomeriggio del 2 gennaio il parlamento turco ha approvato – 325 deputati a favore e 184 contrari – la mozione del governo di inviare truppe in Libia. "Almeno per il momento – scrive l'Ansa – non sembra essere l'annuncio di una guerra imminente, quanto piuttosto un modo per esercitare la massima pressione possibile e una forma di deterrenza su Khalifa Haftar. Se il generale che da aprile cerca di conquistare Tripoli decidesse di ritirare le sue truppe, spiegano dalla capitale turca, Ankara" non invierebbe i suoi militari nel conflitto in atto.

Messaggi di critiche nei confronti della mossa di Ankara sono arrivati da Algeria e Egitto e dalla Lega Araba. L'Unione europea ha ribadito "che non esiste una soluzione militare per il conflitto in Libia" .

 

Libia: 'Milioni di euro dell'UE sono finiti nelle mani di milizie e trafficanti di esseri umani'

Aggiornamento 31 dicembre 2019: Parte dei soldi che l'Unione europea ha inviato in Libia – oltre 327 milioni di euro – per migliorare i centri di detenzione nel paese e combattere la tratta di esseri umani, sono finiti in realtà a reti formate da milizie, trafficanti di esseri umani e membri della cosiddetta "guardia costiera libica", racconta in un'inchiesta l'Associated Press. In alcuni casi, inoltre, in base alla lettura di mail interne, "funzionari delle Nazioni Unite sapevano che le milizie stavano ottenendo i soldi dell'Ue".

La questione libica, inoltre, sta diventando sempre più importante a livello geopolitico, con nuovi attori in gioco. In anticipo sulle previsioni, nei prossimi giorni si terrà nel parlamento turco il voto sulla mozione del governo per l'invio di militari in Libia. Il 26 dicembre scorso, il presidente turco Recep Erdogan aveva dichiarato di aver ricevuto dal governo libico di Tripoli, guidato da Fayez al-Sarraj e sostenuto dalle Nazioni Unite, una richiesta di intervento militare e che per questo motivo sarebbe stata presentata al Parlamento una mozione per l'invio di soldati che sarebbe stata poi votata l'8 o il 9 gennaio 2020: "Sosterremo con ogni mezzo il governo di Tripoli (...)". Dallo scorso aprile, il governo di al-Sarraj è impegnato nel respingimento dell'offensiva lanciata dal "generale" libico Khalifa Haftar, che comanda nella parte orientale del paese nordafricano.

Il 30 dicembre, però, il ministro degli esteri turco, Mevlut Cavusoglu ha annunciato un'accelerazione del voto. Il principale partito di opposizione in Turchia ha già dichiarato di volersi opporre alla mozione perché l'invio di truppe turche nel conflitto libico porterà al risultato di peggiorare la situazione del paese.

Reuters scrive che Ankara avrebbe già inviato rifornimenti militari al governo di Tripoli, nonostante un embargo delle Nazioni Unite. Lo scorso fine novembre, inoltre, la Turchia e il presidente al-Sarraj hanno firmato due memorandum d'intesa – su "sicurezza e cooperazione militare" e sulla costituzione di "aree di giurisdizione marittima" – criticati da diversi governi, tra cui quello di Atene, che ha parlato di "minaccia per la stabilità regionale”, e dalla Commissione europea. L'intesa raggiunta, scrive Lorenzo Bagnoli sul Fatto Quotidiano, mostrerebbe come la Turchia punti a diventare la prima potenza del Mediterraneo, cercando di sfruttare il conflitto libico. Il sostegno alle forze del "generale" è arrivato invece da Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Giordania.

Nel frattempo, la cancelliere tedesco Angela Merkel, in due telefonate separate, ha discusso con il presidente russo Vladimir Putin e quello turco per trovare una soluzione diplomatica per il conflitto in Libia. In Germania, inoltre, prossimamente dovrebbe essere ospitata una conferenza internazionale sulla pace in Libia pianificata dalle Nazioni Unite.

Anche l'Italia si sta muovendo, tramite contatti con la Russia e gli Stati Uniti d'America per raggiungere un consenso su un cessate-il-fuoco e viaggi diplomatici nel paese nordafricano. Francesca Mannocchi sull'Espresso spiega però che le mosse diplomatiche dell'Italia sono arrivate "fuori tempo massimo": "Di Maio (ndr ministro degli Esteri italiano) atterra in Libia quando il conflitto si è da tempo trasformato da guerra civile a guerra multipolare. L'antica contesa Italia-Francia, con i governi italiani a sostegno di Tripoli (per ragioni note: migrazione e gas) e quelli francesi a sostegno di Haftar, è un ricordo ormai sbiadito. L'Europa, così come gli Stati Uniti, nel film della nuova stagione libica sono comparse, mentre gli attori protagonisti sono diventati la Russia, la Turchia e i potenti, e ricchissimi paesi del golfo (Emirati, Arabia Saudita e Qatar) che hanno aggiunto alla partita militare anche quella religiosa tutta interna al mondo sunnita".

La situazione nel paese diventa nel frattempo sempre più critica. Lo scorso 20 dicembre, l'Alto Commissariato dell'Onu per i diritti Umani (Ohchr) ha comunicato di essere preoccupato "per il deterioramento della situazione dei diritti umani in Libia, compreso l'impatto del conflitto in corso sui civili, gli attacchi contro i difensori dei diritti umani e i giornalisti, per il trattamento di migranti e rifugiati e le condizioni di detenzione e l'impunità". Nella nota si legge ancora che "nel 2019, il nostro ufficio insieme alla missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) ha finora documentato almeno 284 morti civili e 363 feriti a seguito del conflitto armato" nel paese: "Abbiamo serie preoccupazioni sull'impatto che il conflitto sta avendo su aree densamente popolate come Abu Salim e Al Hadba, dove altri 100.000 civili rischiano di essere sfollati, oltre ai 343.000 che hanno già lasciato le loro case".

 

Libia, oltre mille morti dall'inizio dei conflitti. Liberati 350 migranti dopo il bombardamento del centro di detenzione di Tajoura

Aggiornamento 10 luglio 2019: Ieri, il governo di Fayez al Serraj ha liberato 350 migranti, trattenuti in un centro di detenzione di Tajoura, a una decina di chilometri da Tripoli. A darne conferma anche l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) che in un tweet ha aggiunto che offrirà assistenza alle 350 persone liberate.

La scorsa settimana l’area intorno a Tajoura era stata colpita da un bombardamento che ha provocato 53 morti (tra cui 6 bambini) e 130 feriti, secondo quanto riferito da un rapporto dell’ONU. Da alcuni giorni, i migranti sopravvissuti al bombardamento del centro di detenzione stavano protestando per chiedere maggiore sicurezza. Alcuni di loro, ha spiegato un funzionario del centro a Reuters, hanno deciso di non tornare negli hangar e di rimanere fuori all’aria aperta, usando i materassi per ripararsi dal sole, per paura di nuovi attacchi aerei.

Dall’inizio della guerra in Libia, sono più di mille i morti (tra cui 106 civili) e oltre 5mila i feriti (inclusi 289 civili). L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sta continuando a inviare medici e forniture per aiutare gli ospedali nelle operazioni di soccorso. In 3 mesi sono stati eseguiti più di 1700 interventi chirurgici, ha detto l’OMS.

Nelle prime ore dopo il bombardamento, il governo di unità nazionale di Fayez al Serraj aveva attribuito l’attacco alle milizie del maresciallo Khalifa Haftar. Successivamente, al Wall Street Journal, il ministro dell’Interno del governo di unità nazionale Fathi Bashagha ha incolpato dell’attacco gli Emirati Arabi Uniti, uno dei paesi che, insieme all’Egitto, appoggia Haftar.

Inoltre, secondo un’inchiesta di Eric Schmitt e Declan Walsh sul New York Times, quattro missili venduti nel 2010 dagli Stati Uniti alla Francia sarebbero finiti nelle mani di Haftar. Il mese scorso l’esercito del Governo di al-Serray ha trovato 4 missili anti-carro Javelin, costati più di 170mila dollari ciascuno, in un campo dei miliziani di Haftar, a Gheryan, a sud di Tripoli. Dopo aver verificato i numeri di serie e aver svolto altri controlli incrociati, il Dipartimento di Stato americano è giunto alla conclusione che i missili trovati nel campo di Haftar sono alcuni dei 260 Javelin venduti alla Francia circa 10 anni prima a condizione che fossero utilizzati esclusivamente dalle forze alleate con gli Stati Uniti. Un trasferimento delle armi da parte della Francia alle forze di Haftar, scrive il New York Times, rappresenterebbe una violazione degli accordi con gli USA e dell’embargo sugli armamenti delle Nazioni Unite.

Contattato dai due giornalisti, un consigliere delle forze armate francesi ha confermato che i missili trovati a Gheryan appartenevano alla Francia ma ha negato che le armi sono state vendute alle forze di Haftar violando così l’embargo. Secondo quanto dichiarato dal funzionario francese, i 4 missili, destinati a essere utilizzati per “operazioni di intelligence e antiterrorismo” dalle truppe francesi in Libia, erano stati depositati temporaneamente in un magazzino, erano danneggiati e quindi non utilizzabili. Tuttavia, aggiunge il New York Times, questo non spiega “come mai le armi siano finite in un campo” delle forze di Haftar.

Intanto, l’ISIS ha rivendicato un attacco dello scorso 3 giugno a Tripoli che aveva causato la morte di due agenti di polizia e due soldati. Secondo quanto riferito da Al Arabiya, le milizie di Haftar sono in stato d’allerta dopo “movimenti sospetti da parte di gruppi terroristici intorno alla città”.

 

'La Libia è sull'orlo di una guerra civile'

Aggiornamento 23 maggio 2019: La situazione in Libia continua a essere fortemente critica. Secondo gli ultimi dati ufficiali le persone intrappolate nella zona di Tripoli coinvolta nel conflitto sono 100mila. I morti sono arrivati a 469, di cui 29 civili, con 2400 feriti e 75mila sfollati.

Dal 4 aprile, la capitale libica è l’obiettivo dell’offensiva di Khalifa Haftar, il “generale” che controlla la parte orientale del paese, e che punta ora alla conquista della città, sede del governo di Accordo Nazionale, guidato da Fayez al-Sarraj e riconosciuto dalle Nazioni Unite. Proprio a Tripoli, lo scorso 12 maggio un giornalista di Reuters è stato  colpito  da una pallottola a una gamba mentre copriva gli scontri, riporta il Comittee to Protect Journalism (CPJ). Due giorni dopo, un gruppo di uomini armati ha bloccato la principale fornitura di acqua potabile a Tripoli. Le forniture di acqua per 2,5 milioni di civili sono state poi ripristinate. Le Nazioni unite hanno dichiarato che l’atto era un possibile crimine di guerra. Il governo di al Sarraj ha accusato gli uomini di Haftar, ma il generale ha respinto le responsabilità per questo blocco temporaneo.

Il rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Libia, Ghassan Salamé, il 21 maggio, ha avvertito il Consiglio di Sicurezza che la Libia è sull’orlo di un guerra civile, che metterebbe a rischio la sicurezza dei paesi vicini della Libia e di quelli che si affacciano sul Mediterraneo. Secondo le informazioni in possesso del rappresentante della Nazioni Unite, «l’Isis sta approfittando della guerra per tornare in Libia. Finora ci sono stati quattro attacchi al sud, ma io credo che abbia cellule dormienti anche a Tripoli e altrove». Salamé ha anche chiesto il blocco dell’arrivo di armi nel paese libico. Nei giorni scorsi, infatti, armi e mezzi sono stati consegnati a entrambe le parti coinvolte nel conflitto. In Libia dal 2011 vige un embargo delle armi. «Senza un solido meccanismo di applicazione, l'embargo sulle armi in Libia sarà uno scherzo. Alcune nazioni stanno alimentando questo sanguinoso conflitto. Le Nazioni Unite dovrebbero porvi fine», ha sottolineato il rappresentante speciale delle Nazioni Unite.

L'UNHCR è tornata a ribadire alla comunità internazionale l’urgenza di fornire soluzioni per la sicurezza dei rifugiati detenuti in Libia, come evacuazioni e corridoi umanitari.

 

Si fa più drammatica la crisi umanitaria in Libia

Aggiornamento 10 maggio 2019: Gli scontri in Libia continuano, ma gli uomini del generale Haftar, che lo scorso 4 aprile ha lanciato un’offensiva contro Tripoli, sede del governo di al Sarraj, riconosciuto dalla comunità internazionale, non riescono ad avanzare oltre la parte meridionale della capitale libica, riporta Reuters. Uno scenario che prefigura che i combattimenti potrebbero durare per mesi.

Secondo l’ultimo bollettino dell’Organizzazione mondiale della sanità, il numero dei morti è salito a oltre 400, con più di 2mila feriti. L’Oms specifica inoltra che gli sfollati sono diventati più di 60mila.

Oltre che per i civili, la situazione resta critica anche per i migranti nei centri di detenzione libici. Durante la notte dell’8 maggio è stato colpito da un attacco aereo un edificio a meno di 100 metri dal Centro di detenzione di Tajoura, in cui sono detenuti rifugiati e migranti, ha denunciato l’UNHCR: “Le persone detenute attualmente a Tajoura sono più di 500, due delle quali sono ferite e richiedono assistenza medica. Con l’intensificarsi delle ostilità durante la notte di martedì, rifugiati e migranti sono rimasti intrappolati all’interno senza poter fuggire e mettersi in salvo”. Per le violenze in corso a Tripoli, le Nazioni Unite hanno quindi richiesto “che i responsabili dei Centri interessati autorizzino il rilascio immediato dei detenuti affinché possano essere portati in salvo”.

Lo scorso 5 maggio, le Nazioni Unite avevano chiesto alle due fazioni una tregua umanitaria che sarebbe dovuta partire lunedì 6 maggio, in coincidenza con l’inizio del Ramadan. La risposta di Haftar è stata però quella di incoraggiare le sue truppe a combattere per la conquista di Tripoli.

Pochi giorni dopo, al termine di un incontro avvenuto a Parigi tra al Sarraj e il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, la Francia – criticata in precedenza per i suoi rapporti di vicinanza con Haftar, che gode dell’appoggio di Egitto ed Emirati Arabi Uniti, e per una non chiara posizioni politica nei confronti del generale libico e della situazione libica – è tornata a chiedere un cessato il fuoco incondizionato. Il governo di Tripoli ha successivamente sospeso le operazioni di 40 compagnie straniere, compresa la multinazionale petrolifera francese Total. Secondo quanto riporta il Guardian la decisione sembra sia arrivata perché la Francia si è rifiutata, durante l’incontro tra al Sarraj e Macron, di concedere un sostegno più esplicito al governo di Tripoli. Il ministro dell'Economia, Ali Abdulaziz Issawi, ha comunque spiegato che le licenze delle imprese straniere erano scadute.

 

In Libia continuano gli scontri

Aggiornamento 30 aprile 2019: In Libia continuano gli scontri armati, dopo l’offensiva militare degli uomini di Khalifa Haftar – il “generale” che controlla la parte orientale del paese – lanciata lo scorso 4 aprile per la conquista di Tripoli, la capitale libica e sede del governo di Accordo Nazionale, guidato da Fayez al-Sarraj e riconosciuto dalle Nazioni Unite.

Secondo quanto riportato da Reuters, nonostante i pesanti combattimenti in atto, le truppe di Haftar – composte da diverse milizie – non sono riuscite a violare le difese meridionali di Tripoli. La situazione comunque rimane fluida ed entrambe le parti hanno conquistato e perso territori nel corso della battaglia, racconta ancora l’agenzia di stampa britannica.

Intanto, il dramma umanitario nel paese continua a peggiorare. L’Organizzazione Mondiale della Sanità riporta che il numero dei morti è salito a 345, con oltre 1300 feriti. Gli sfollati sono saliti a quasi 40mila, denuncia IOM (Organizzazione internazionale per le migrazioni) Libia. A destare preoccupazione è anche la situazione dei circa 3300 migranti che rimangono nei campi di detenzione della capitale libica, sottolinea l’UNHCR. «I pericoli per rifugiati e migranti a Tripoli non sono mai stati così grandi», ha detto Matthew Brook, Vice Capo Missione dell’UNHCR in Libia. «È di vitale importanza che i rifugiati in pericolo possano essere liberati ed evacuati in sicurezza».

Lo scorso 25 aprile l’ONU ha anche comunicato di aver evacuato circa 325 rifugiati dal centro di detenzione Qaser Ben Gasheer a sud di Tripoli, dopo “un episodio di violenza armata”. L’UNHCR ha aggiunto che “anche se non ci sono stati feriti a causa dei proiettili, 12 rifugiati sono stati feriti e portati in ospedale”. In base alle testimonianze dei migranti raccolte dal Guardian nell’occasione però sono morte due persone e 20 sono rimaste ferite. Inoltre, secondo diversi testimoni a commettere questo attacco sono state le milizie di Haftar, riportano Guardian e Al Jazeera. Sull’attacco Amnesty International ha chiesto l’apertura di un’indagine per crimine di guerra: “Questo attacco illustra tremendamente ancora una volta la necessità che intervenga la giustizia internazionale e che siano attivati meccanismi per chiamare a rispondere i responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale e di possibili crimini di guerra commessi regolarmente in tutta la Libia. Il Tribunale penale internazionale dovrebbe includere nelle sue indagini questi ultimi crimini”. Proprio a causa di questa pericolosità, lunedì 29 aprile sono arrivati in Italia 146 rifugiati evacuati dalla Libia. Persone che saranno ospitate nei centri di accoglienza straordinaria (CAS) italiani.

 

L’ordine è arrivato lo scorso 4 aprile. In quella data, il generale Khalifa Haftar – che controlla con le sue truppe, note con il nome di Libyan National Army (LNA), la Cirenaica, cioè la parte orientale della Libia – ha lanciato l’offensiva militare per la conquista di Tripoli, la capitale del paese e sede del governo di Accordo Nazionale, nato nel 2016, guidato da Fayez al-Sarraj e sostenuto dalle Nazioni Unite.

La reazione di Tripoli non si è fatta attendere. Il Consiglio presidenziale del governo di accordo nazionale ha emesso un comunicato con l’ordine a tutte le forze militari, di polizia e di sicurezza di essere pronte e in allerta per contrastare qualsiasi attacco in arrivo.

via Ispi

L’annuncio dell’azione militare di Haftar è avvenuto in contemporanea con la visita ufficiale in Libia del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres. Il segretario in un tweet ha espresso preoccupazione per lo scenario di guerra che si stava prefigurando: “Solo il dialogo interno al paese può risolvere i problemi libici”.

Nonostante questi appelli, l’offensiva del Libyan National Army di Haftar è partita, con la conquista di Gharian, città a circa 80 chilometri a sud di Tripoli, dopo brevi scontri con alcune milizie alleate con il governo di al-Sarraj, scrive Reuters. Gli scontri si sono poi intensificati i giorni successivi ad Ain Zara, distretto a 15 km a sud-est di Tripoli, riporta in un tweet il sito Special Monitoring Mission to Libya.

Al-Sarraj, in un intervento in tv, ha accusato il generale di tradimento e ha annunciato l’operazione “Vulcano di rabbia”: «Abbiamo teso le nostre mani verso la pace, ma dopo l'aggressione da parte delle forze di Haftar e la sua dichiarazione di guerra contro le nostre città e la nostra capitale non troverà nient'altro che forza e fermezza».  

Sempre ad Ain Zara martedì 16 aprile, in base a fonti militari sul posto, si sarebbero verificati violenti combattimenti, ricostruisce l’Ansa: “L'area è quella dove si è registrata nei giorni scorsi l'avanzata più poderosa delle forze di Khalifa Haftar”. In altre parti del territorio libico, al contrario, gli uomini del generale sono stati respinti e accerchiati dalle forze alleate al governo di al-Sarraj, come a Suani ben Adem, a 25 km a sud-ovest del capoluogo libico, ha constatato sul posto l’inviato dell’agenzia italiana. Si sono verificati anche raid aerei da parte delle due forze in guerra. L’aeroporto di Mitiga, l’unico funzionante per uso civile di Tripoli e anche utilizzato come base base militare, l’8 aprile è stato oggetto di un’incursione aerea da parte delle forze di Haftar, con i servizi temporaneamente sospesi, ha dichiarato l’inviato di Al Jazeera dalla capitale libica (qui il fotografo di AFP Mahmud Turkia ha documentato i danni causati dal raid). Il giorno successivo è stato riaperto. Le Nazioni Unite hanno condannato l’attacco, definendolo “una grave violazione del diritto internazionale umanitario che vieta gli attacchi contro le infrastrutture civili”.

Le truppe del governo di Accordo Nazionale di al Sarraj hanno reagito con un altro raid aereo sulla base aerea di Al-Wattiyah, a Sud-est di Tripoli, vicino al confine con la Tunisia, controllata dall’LNA, da dove è partita l’incursione aerea contro Mitiga.

via The Guardian

Nella notte tra il 16 e il 17 aprile, a due settimane dall’inizio dell’offensiva del generale Haftar, sono stati registrati bombardamenti nel distretto meridionale di Abu Salim, a Tripoli. Almeno quattro persone sono state uccise e 20 sono rimaste ferite, secondo quanto riportato da un funzionario del luogo. Il distretto di Abu Salim, spiega Reuters, si trova a nord delle forze lealiste che cercano di respingere l’arrivo delle truppe LNA provenienti dal Sud. Tripoli ha accusato i soldati di Haftar di lanciare missili in aree residenziali, ma l’LNA ha respinto l’accusa dichiarando di non c’entrare nulla con il bombardamento e accusando un gruppo con base a Tripoli.

Con il passare dei giorni, il conflitto in atto in Libia ha provocato un numero crescente di morti e feriti. Secondo le Nazioni Unite sono più di 200 le persone uccise, inclusi 18 civili, 913 i feriti e circa 20mila gli sfollati (molte famiglie in fuga dalle zone di conflitto si stanno dirigendo verso il centro di Tripoli, mentre oltre 14000 sfollati hanno cercato salvezza fuori dalla capitale, a Tajoura, Al Maya, Ain Zara e Tarhouna).

In una dichiarazione ufficiale, Stéphane Dujarric, portavoce del segretario generale delle Nazioni Unite, ha condannato “il crescente uso di armi pesanti e bombardamenti indiscriminati che hanno danneggiato case, scuole e infrastrutture civili” e comunicato che il rappresentante speciale del Segretario generale, Ghassan Salamé, sta continuando a chiedere una tregua umanitaria per consentire ai servizi di emergenza di raggiungere i civili intrappolati in zone coinvolte nei conflitti, dopo che una stessa richiesta fatta nei giorni passati era caduta nel vuoto. Dujarric ha aggiunto che secondo quanto riportato dalle squadre libiche di primo intervento le evacuazioni di civili sono in crescita, “con un numero significativo di feriti”: “Finora ne sono state confermate cinquanta, tra cui ci sono 14 morti”.

Il segretario generale ha inoltre denunciato che circa 3.000 migranti sono intrappolati nei centri di detenzione libici e nelle vicine zone di conflitto: "In alcuni casi le guardie hanno abbandonato i centri di detenzione lasciando i detenuti a se stessi senza beni di base per la vita come cibo o acqua".

La procuratrice capo della Corte Penale Internazionale (ICC), Fatou Bensouda, ha invitato tutte le parti e i gruppi armati coinvolti a rispettare le norme del diritto internazionale umanitario e avvertito i comandanti di essere determinata ad ampliare le indagini e i potenziali procedimenti penali, in caso di mancato rispetto delle leggi.

Per porre termine a questo conflitto interno, in Gran Bretagna è stata redatta una proposta di risoluzione e distribuita ai membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU in cui si chiede l’impegno a tutte le parti per un cessate il fuoco, scrive Associated Press. Il testo invita anche a partecipare a un dialogo favorito dalle stesse Nazioni Unite per raggiungere una soluzione politica della crisi Libia. Secondo fonti diplomatiche, però, "il Consiglio non è riuscito a trovare il compromesso su una bozza di risoluzione".

L'ascesa politica dell'"uomo forte della Cirenaica" in Libia e gli equilibri politici in gioco

“Haftar non è una figura nuova della scena politica e militare libica”, spiega l’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) in un approfondimento dello scorso 15 aprile. Nel 1969 Muammar Gheddafi prende il potere in Libia e Khalifa Haftar è uno degli ufficiali al suo fianco. Negli anni ‘80, dopo una campagna fallimentare in Ciad alla guida delle forze armate libiche, dove viene anche catturato, Haftar vive in esilio negli Stati Uniti dove rimarrà per 20 anni (tempo in cui, scrive il New Yorker, collabora per un periodo con la Cia).

Nel 2011, con le rivolte nel paese contro l’ex amico Gheddafi – durante le quali il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approvò una risoluzione che puntava a proteggere i civili, chiedeva un immediato “cessate il fuoco” e creava una no-fly zone sulla Libia e una coalizione formata da Francia, Regno Unito e Stati Uniti bombardò le forze dell’ex colonnello libico –, Haftar torna in Libia, nella parte orientale del paese, con il ruolo di uno dei comandanti delle forze ribelli .

Dopo la sconfitta di Gheddafi, in Libia nel luglio 2012 viene eletto il Congresso Generale Nazionale (CGN), che a ottobre vota come primo ministro Ali Zidan. Il primo obiettivo del Parlamento è quella di scrivere, entro un anno e mezzo, la costituzione della Libia. Questo traguardo non viene però raggiunto.

Nel 2014 Haftar torna a far parlare di sé presentandosi in tv: chiede la sospensione del CGN, che nel frattempo è bloccato dai contrasti tra i gruppi islamisti e i loro oppositori, e un nuovo governo ad interim per nuove elezioni. La richiesta viene respinta dal primo ministro Ali Zeidan.

Pochi mesi dopo, a maggio, Hatfar, con le sue truppe “Libyan National Army” e con l’appoggio militare dell’Egitto, lancia a Bengasi, in Cirenaica, l’“Operazione Dignità”, con la quale afferma di voler liberare la città dalle milizie islamiste. Tre anni dopo, nel luglio 2017, lo stesso Haftar annuncia che la città libica è stata definitivamente liberata. Proprio i successi militari di Haftar, spiega ancora l’Ispi, “ottenuti anche grazie al cruciale sostegno politico e militare di potenze regionali quali Egitto ed Emirati Arabi Uniti, interessate a prevenire l’insorgere di movimenti radicali nel Paese, hanno progressivamente incrementato la sua credibilità e il suo potere politico”, anche agli occhi dei leader europei. Questo nonostante le accuse (basate su diverse prove raccolte) di aver ordinato ai suoi soldati di commettere crimini di guerra.

Durante quegli anni prosegue la lotta interna in Libia, con Haftar che si conquista nel tempo un ruolo sempre più strategico. Appena tre giorni dopo l’avvio dell’“Operazione Dignità”, viene attaccato il parlamento a Tripoli da un gruppo di uomini armati e si verificano diverse sparatorie in alcune zone di Tripoli. In un dichiarazione letta in tv a nome dell'LNA di Haftar, il colonnello Mukhtar Fernana annuncia "il congelamento del CGN", aggiungendo che il parlamento non aveva alcune legittimità.

In Libia vengono così indette nuove elezioni a giugno 2014, che si svolgono in un contesto di violenza, con Haftar in guerra contro gruppi armati a Bengasi e con scontri tra diverse milizie in altre parti del paese. Il risultato delle elezioni consegna alla Camera dei Rappresentanti una maggioranza orientata verso i candidati "moderati" e una sconfitta dei gruppi islamisti. Ma il voto, caratterizzato da una bassissima affluenza, viene contestato dalle forze islamiste e milizie filo islamiste attaccano l’aeroporto di Tripoli. Intanto, il nuovo parlamento – riconosciuto dalla comunità internazionale – che si sarebbe dovuto riunire a Bengasi, svolge la sua prima sessione a Tobruk, città orientale della Libia e sotto il controllo di Haftar. Bengasi infatti era stata giudicata troppo pericolosa perché coinvolta negli scontri tra le milizie islamiste e le truppe del generale. Questo appuntamento, però, viene considerato illegittimo e boicottato dai deputati filo islamisti.

Per questo motivo, vecchi parlamentari del vecchio Congresso Generale Nazionale e alcuni di coloro che non avevano riconosciuto il nuovo parlamento a Tobruk, convocano a Tripoli un nuovo Congresso Generale Nazionale e nominano un proprio primo ministro. L’azione viene condannata e considerata illegittima dalla Camera dei Rappresentanti di Tobruk, che poi, nel marzo 2015, nomina ufficialmente Khalifa Haftar capo dell’esercito libico.

La Libia è così divisa territorialmente in un caos politico, istituzionale e militare: da una parte il Parlamento (e il governo) uscito dalle urne, riconosciuto dalla comunità internazionale ed 'esiliato' a Tobruk e dall’altra il nuovo CGN (con rispettivo governo) di Tripoli delle forze islamiste. Due realtà che, con le loro milizie affiliate, sono anche in lotta per il controllo delle riserve energetiche del paese. A favorie ancora maggiore instabilità, la decisione della Corte suprema libica, con sede a Tripoli, che stabilisce che la Camera dei Rappresentanti a Tobruk è illegittima. I giudici accolgono il ricorso presentato dai parlamentari islamici del nuovo Congresso generale nazionale a Tripoli, che riguardava la costituzionalità delle riunioni a Tobruk della Camera dei Rappresentanti. La sentenza viene però respinta dalla Camera dei Rappresentanti di Tobruk, perché sarebbe stata emessa sotto la minaccia delle armi delle milizie che controllano la capitale libica.

A tutto questo si aggiungono le notizie del controllo dell’Isis (il cosiddetto “Stato Islamico”) di alcuni territori del paese libico: Derna, Sirte e An Nawfaliyah. Una presenza vissuta come una minaccia da entrambi i parlamenti libici e che porta ad azioni militari sia da parte del governo di Tripoli, sia di quello di Tobruk (e quindi da Haftar) alleato con l’Egitto (paese entrato direttamente in azione dopo la pubblicazione da parte di milizie affiliate all’Isis di un video in cui veniva mostrata la decapitazione di 21 egiziani di fede cristiana rapiti a Sirte).

Le Nazioni Unite cercano intanto di avviare colloqui di pace tra i due parlamenti. A ottobre l’allora inviato speciale dell’ONU, annuncia l’avvio, al termine di accordi raggiunti, di  nuovo governo di unità nazionale libico. Il 17 dicembre viene così firmato a Skhirat in Marocco l’accordo per la formazione di nuovo governo da parte di diversi esponenti dei due parlamenti libici, che però non ha l’approvazione dei presidenti dei due parlamenti. A capo del nuovo governo, con sede a Tripoli, viene comunque indicato Fayez al-Sarraj e la comunità internazionale riconosce questo esecutivo di unità nazionale come l’unico legittimo in Libia.

Nel frattempo nel paese l’Isis subisce pesanti sconfitte da parte delle forze libiche, con l’intervento anche di paesi occidentali (Stati Uniti e Regno Unito). A fine 2016 viene annunciata la perdita definitiva di ogni territorio libico da parte delle milizie affiliate all’Isis. Durante questi scontri emerge per la prima volta la notizia della presenza di soldati francesi in attività in Libia. Dopo l’abbattimento di un elicottero da parte di una milizia islamista in lotta con il generale Haftar nella parte orientale del paese, si scopre che tra le vittime ci sono tre ufficiale francesi. Il governo di unità nazionale critica la presenza di uomini francesi su territorio libico.

Il nuovo esecutivo di unità nazionale libico, però, non acquista autorità, e le divisioni nel paese restano. Tra i motivi c’è il fatto che al Sarraj “è una figura senza molto peso politico e poco carismatica”, spiegava in un rapporto del 2016 l’Istituto Affari Internazionali (IAI), ma anche il mancato appoggio da parte proprio di Haftar, descritto sempre dall’IAI come una figura con “ambizioni nazionali” che puntava a proporsi agli occhi interni ed internazionali “come ‘piano B’ in caso di fallimento di Serraj”. A novembre 2016, Haftar si reca in Russia per chiedere appoggio e aiuto nella sua battaglia contro i gruppi islamisti.  

L’esercito del generale, inoltre, si contende con Tripoli i terminal petroliferi come quelli di Sidra e Ras Lanuf. Un conflitto che si risolve con la vittoria dell’LNA e che porta a un ulteriore deterioramento dei rapporti tra i due governi.

Nel 2017 ad Haftar viene riconosciuto il suo ruolo chiave in una possibile risoluzione politica in Libia. Il ministro degli esteri francese definisce infatti il generale come "parte necessaria della soluzione" e nell’estate si svolge in Francia un incontro, alla presenza del Presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, tra al-Sarraj e Haftar. I due firmano un dichiarazione in cui si impegnano a un “cessate il fuoco”, a un uso della forza solo in ottica anti-terrorismo e a indire nuove elezioni presidenziali e parlamentari (fissate poi per il 10 dicembre 2018). La firma del testo – in un mancano però alcuni punti, come ad esempio il riconoscimento da parte di Haftar della legittimità di Tripoli – risulta una vittoria politica e diplomatica di del generale, sottolineano in quei giorni i quotidiani Liberation e Le Figaro.

Proprio sulla data delle elezioni, si sviluppa uno “scontro” a distanza tra Haftar e l’Italia lo scorso agosto. L’ex ambasciatore italiano in Libia (con sede a Tripoli), Giuseppe Perrone, in un’intervista a Libya's Channel dichiara che la Libia non era in grado di garantire uno svolgimento democratico delle elezioni e che pertanto c’era bisogno di tempo per andare al voto. Per queste parole, il generale afferma  di ritenere l’ambasciatore italiano «non più gradito alla maggioranza dei cittadini libici e che la politica dell’Italia nei confronti della Libia necessiti di radicali riforma e cambiamento (...)». Sul Sole 24 Ore Andrea Carli spiegava che l’uomo forte della Cirenaica “è convinto che uno slittamento della data delle elezioni non vada nel suo interesse”, perché ritiene di ottenere la maggioranza con un voto ravvicinato. Poco tempo dopo, a settembre, il ministro degli Esteri del governo M5s-Lega, Enzo Moavero Milanesi, si reca a Bengasi per un "lungo e cordiale colloquio con il maresciallo Khalifa Haftar" in cui si comunica è stato "rilanciato" uno stretto rapporto con l'Italia, "in un clima di consolidata fiducia”. Si legge in un comunicato ufficiale: “Fra i due vi è stata ampia convergenza per un'intensa cooperazione e sul comune impegno per una Libia unita e stabile". Perrone viene poi sostituito dal ruolo di ambasciatore italiano in Libia e al suo posto arriva Giuseppe Buccino Grimaldi (giunto nella capitale libica lo scorso 1 febbraio). Tutto questo mentre Tripoli diventa teatro di scontri tra milizie rivali, terminati dopo il cessato fuoco ottenuto dall’intervento diplomatico delle Nazioni Unite.

Ma la strada per elezioni in Libia è ancora lunga. L’inviato speciale dell’Onu per la Libia, Ghassan Salamé, annuncia che molto probabilmente le elezioni non potranno tenersi il 10 dicembre perché “c’era ancora molto da fare”. Sempre Salamé presenta a novembre al Consiglio di sicurezza "i tre pilastri" del piano di azione la stabilizzazione e la rinascita della Libia: “Il primo pilastro è il progetto per la messa in sicurezza della capitale, che prevede la formazione di una forza istituzionale che dovrebbe progressivamente andare a sostituire le milizie per il controllo del territorio. Forza che dovrebbe rispondere ad un consiglio direttivo costituito dai principali ministri del Governo di accordo nazionale. Il secondo cardine riguarda il cammino istituzionale della Libia, con la convocazione in territorio libico di una conferenza (o congresso) nazionale altamente rappresentativa che coinvolga tutte le realtà politiche del Paese, comprese le aree tribali del sud da svolgersi entro le prime settimane del 2019. (...) Terzo e imprescindibile pilastro per una stabilizzazione della Libia è anche il rilancio economico di un paese dalle ingenti risorse petrolifere, ma ancora oggi mal distribuite, e in molti casi disperse in traffici criminali”, riporta l’Ansa.

Questi punti sono anche la base discussione della Conferenza per la Libia svoltasi a Palermo il 12 e il 13 novembre scorsi, voluta dal governo italiano e sostenuta dall’ONU. Al termine della due giorni, Salamè parla di “successo” e il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, dichiara di lasciare Palermo con un sentimento di fiducia per aver dato "una prospettiva di stabilizzazione" della Libia: "Non dobbiamo illuderci, ma sono state poste premesse importanti di questo cammino". Ma per diversi analisti la Conferenza è stata un mezzo fallimento perché “non hanno partecipato né il presidente statunitense Donald Trump né quello russo Vladimir Putin, nonostante Conte l’avesse messa in calendario cercando di facilitare la presenza di entrambi. Erano assenti anche la cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha confermato che non sarebbe andata a Palermo solo poche ore prima dell’inizio dell’evento, e il presidente francese Emmanuel Macron, che negli ultimi mesi ha avviato una competizione piuttosto intensa con l’Italia per avere il ruolo di guida delle politiche europee nei confronti della Libia. Ma soprattutto non ha partecipato ai lavori Khalifa Haftar (ndr mentre è arrivato all’ultimo incontrando Conte)”, riassume il Post. Inoltre, non è stato prodotto e firmato un documento vincolante con impegni precisi.

Intanto in Libia la lotta politica e militare dei due governi per le risorse energetiche del paese continua. Al-Sarraj a dicembre annuncia la riapertura del sito petrolifero El Sharara nella regione libica Fezzan, mentre l'LNA, dopo pochi mesi, comunica di aver preso il controllo del più importante giacimento petrolifero libico, quello di Sharara nel sud-ovest del paese. Una mossa che fa parte di un’operazione militare del generale nel Sud della Libia e che provoca la reazione del governo di Tripoli che accusa l’LNA di "atti di terrorismo e crimini di guerra".

Il 28 febbraio di questa anno sembra arrivare un punto di svolta. L’UNSMIL, la Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia, annuncia che al termine di un incontro ad Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, il governo di Tripoli e quello di Tobruk hanno trovato un accordo per indire nuove elezioni, senza però specificare una data.

Il mese successivo, poi, l’ONU annuncia una Conferenza nazionale in Libia il 14 aprile e 16 aprile per arrivare alle elezioni nel paese e concordare una data. Ma tutto salta, con l’azione militare di Haftar, a inizi di aprile, per la conquista di Tripoli.

Le motivazioni dell’attacco del generale a Tripoli e le sue possibili conseguenze

Youssef Cherif su Al Jazeera scrive che “un’operazione dell’LNA per conquistare Tripoli è sempre stata solo una questione di tempo”. Il generale Hatfar, infatti, “dopo essersi assicurato nel 2017 il pieno controllo di Bengasi, nella Libia orientale, nell’ultimo anno ha continuato a espandere i territori sotto il suo controllo, parallelamente ha avviato dei colloqui con il governo di Al-Sarraj sponsorizzati da vari esponenti internazionali”. Poi, in vista delle conferenza in Libia per individuare la data delle prossime elezioni presidenziali e parlamentari, l’uomo della Cirenaica “si è affrettato a massimizzare i suoi guadagni territoriali e quindi la sua influenza sui suoi avversari a Tripoli” e anche a “capitalizzare il crescente malcontento tra la popolazione civile nella Libia occidentale” a causa dell’aumento di criminalità, insicurezza e corruzione sul territorio.

Per Cherif, inoltre, la risposta all’offensiva su Tripoli della comunità internazionale è stata timida e “dimostra che molti paesi oltre gli Emirati Arabi, l’Egitto e l’Arabia Saudita considerano Haftar la soluzione per la Libia”. I paesi "stranieri" ritenuti vicini ad Haftar sono Russia e Francia. Da dopo il lancio dell’offensiva contro Tripoli queste tre potenze hanno preso formalmente le distanze dal generale: la Russia ha dichiarato di non appoggiarla e la Francia che secondo retroscena avrebbe bloccato la condanna dell’Ue nei confronti di Haftar, ha smentito ufficialmente queste accuse. Gli Stati Uniti gli Stati Uniti che negli ultimi anni ha mantenuto un dialogo con il governo di Tobruk per il contenimento della minaccia jihadista, specifica Ipsi, hanno chiesto ad Haftar di “fermare immediatamente” la sua avanzata.

via Agi

Proprio degli interessi contrapposti degli alleati del generale “che si muovono nello scacchiere internazionale (...) e gli interessi regionali di Egitto, Emirati, e Arabia Saudita”, ne scrive la giornalista esperta di medio oriente e Libia, Francesca Mannocchi su l’Espresso. La conquista di Tripoli oltre a essere territoriale è anche una conquista economica: “Il controllo sulle risorse strategiche: gli scali aerei e marittimi, il controllo della Banca centrale libica, e altre istituzioni statali di cruciale importanza”.

La giornalista spiega così che “l'economia della Cirenaica dipende in parte da Tripoli, per gli stipendi dell'LNA e soprattutto perché, benché Haftar controlli la maggioranza dei giacimenti, non è in grado di monetizzare il petrolio, visto che gli introiti delle vendite internazionali passano da Tripoli, che controlla un bilancio annuale di 40 miliardi di dinari (29 miliardi di dollari)”. Per Tim Eaton, ricercatore esperto di Libia per l'istituto di affari internazionali Chatam House, sentito dalla giornalista, «se il Gna smettesse domani di pagare i salari nella parte orientale del paese, Haftar potrebbe ostacolare la produzione delle infrastrutture petrolifere che controlla, e che sono la maggioranza. Se Haftar avesse la possibilità di gestire le vendite internazionali del petrolio saremmo di fronte davvero a una trasformazione del conflitto, ma al momento nessuno può permettersi di bloccare né le infrastrutture né la vendita del petrolio».

Anche per questo una delle ipotesi è quella che si profilerebbe non un conflitto rapido, visto che ad oggi nessuna delle due forze in campo – composte “da un amalgama di gruppi armati male addestrati, poco coordinati tra loro, più avvezzi alla guerriglia che alla guerra vera e propria”, spiega Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera – sembra prevalere nettamente sull’altra. Una situazione che provocherebbe ulteriore instabilità nel paese e un crescente danno per la popolazione.

Chi invece sembrerebbe ricavare linfa vitale da questa situazione sarebbe l’Isis tramite operazioni dopo mesi di inattività, racconta il giornalista esperto di medio oriente Daniele Ranieri sul Foglio. Un esempio è l’attacco rivendicato dal gruppo terroristico lo scorso 9 aprile nella città di Fuqaha, dove tre persone, tra cui il sindaco, sono state uccise e altre prese come ostaggi. La speranza del cosiddetto “Stato Islamico” sarebbe così solo una: “Una guerra civile che metta l'una contro l'altra le due fazioni che danno loro la caccia, che faccia finire il paese nel caos, faciliti la circolazione di uomini e armi e produca quel materiale umano – giovani rabbiosi, senza lavoro e con molta consuetudine con le armi – che poi finisce per arruolarsi nei gruppi estremisti”.

Seri timori per eventuali ripercussioni di una nuova guerra civile in Libia sono state manifestate anche dal governo italiano. Il 15 aprile, durante una conferenza stampa, il presidente del Consiglio italiano ha espresso “forte preoccupazione per l’escalation militare in Libia”, ribadendo la richiesta di ritiro urgente dell’LNA guidato dal generale Haftar e della cessazione delle operazioni militari di tutte le parti coinvolte per un ritorno a un dialogo politico sotto l’egida dell’ONU. Proprio il primo ministro libico del governo di Tripoli, Fayez al-Sarraj ha avvertito che le conseguenze dell’attacco di Haftar si ripercuoterebbero su immigrazione irregolare e sul terrorismo: «Se l'offensiva dovesse continuare, la sicurezza finirà ancor di più fuori controllo, e già ci sono segnali di questo. Sul territorio libico ci sono 800 mila clandestini. Troveranno la loro strada verso l'Europa, e con loro si infiltreranno terroristi e criminali». Il pericolo di potenziali terroristi pronti a partire in direzione dell'Italia è stato denunciato anche dal ministro dell'Interno, Matteo Salvini.  

Queste 800mila persone pronte a fuggire dalla Libia, però, non trovano una conferma da parte degli analisti né dalle stesse autorità italiane. Matteo Villa, del Migration Programme and Europe and Global Governance dell’Ispi, spiega a Nuove radici che in base alle stime dell’OIM in Libia ci sarebbero in realtà 200 mila migranti, aggiungendo: «Non credo che la maggiore destabilizzazione in Libia inneschi le partenze, anzi. Le milizie che lucrano sul traffico di esseri umani operano, indipendentemente dai conflitti. Al contrario, i dati dimostrano che riescono a far partire le persone quando c’è maggior stabilità».

Anche il ministro degli Esteri italiano afferma che il numero citato da al Sarraj "è una cifra esorbitante rispetto ai numeri estremamente inferiori che ci risultano di migranti in senso stretto, quindi provenienti da altri stati e che si trovano in Libia attualmente". Lo stesso Giuseppe Conte in un’informativa al Senato del 18 aprile sulla situazione in Libia ha comunicato che “per quanto riguarda le possibili conseguenze sui flussi migratori verso l'Italia o altro territorio sempre dell'Unione europea, al momento, al di là delle cifre circolate nei giorni scorsi (anche a fini propagandistici), dalle informazioni in nostro possesso non emerge un quadro di imminente pericolo”. Riguardo poi al rischio infiltrazione di “malintenzionati e terroristi” nei flussi migratori, sempre il ministro degli Esteri italiano ha dichiarato che “non è una novità di queste ore e di questi giorni (...) È chiaro che aggravandosi una situazione emergenziale, di guerra in Libia, ci sia un’attenzione maggiore”.  

Intanto, la situazione in Libia non sembra calmarsi e un cessato il fuoco risulta sempre più lontano, con i paesi della comunità internazionale che non sembrano trovare un fronte compatto e unito sullo situazione libica, da quando il regime di Muammar Gheddafi è stato rovesciato nel 2011, sottolinea Reuters. Intanto, giovedì 18 aprile il governo di Tripoli ha emesso dei mandati di arresto per Haftar e altri alti funzionari dell'est, incolpandoli per i bombardamenti su Tripoli di mercoledì 16. Di contro, funzionari della Cirenaica hanno emesso altrettanti mandati di cattura contro il premier di Tripoli al Sarraj e altri funzionari occidentali.

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