Uccisi, minacciati, rapiti, in carcere: dalla Cina agli Usa peggiorano le condizioni dei giornalisti nel mondo
7 min letturaLa seconda parte del rapporto di RSF mostra che c'è stato un calo per quanto riguarda il numero di giornalisti morti mentre coprivano conflitti armati o attacchi terroristici, ma sottolinea che le vittime di uccisioni mirate sono aumentate costantemente negli ultimi anni. Quaranta dei 50 giornalisti uccisi quest'anno erano obiettivi mirati.
Ancora una volta, il Messico è in cima alla lista dei paesi più pericolosi per i giornalisti. Almeno otto giornalisti sono stati uccisi quest'anno come conseguenza delle loro indagini sulla criminalità organizzata e sulla corruzione.
In Iraq sono stati uccisi sei giornalisti quest'anno. Tre di loro stavano coprendo le proteste antigovernative nel gennaio 2020. Almeno uno era stato minacciato da uomini armati che cercavano di impedire ai media di coprire l'evento.
Al terzo posto si trova l'Afghanistan, con cinque giornalisti assassinati nel 2020. "Non penso che la situazione sia mai stata così preoccupante come adesso", dice a Deutsche Welle Najib Sharifi, responsabile del Afghan Journalists Safety Committee. "Nell'arco di sole sei settimane abbiamo perso quattro giornalisti", spiega. Sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco a distanza ravvicinata o sono morti quando le bombe attaccate alle loro auto sono esplose.
In Pakistan sono stati assassinati 4 reporter quest'anno. Il giornalista Zulfiqar Mandrani è stato trovato morto a maggio, il suo corpo presentava segni di tortura. I suoi amici e colleghi sono convinti che la morte del giornalista sia collegata alle sue indagini su un caso di droga che coinvolgeva presunti illeciti di agenti di polizia.
L'India è elencata come uno dei cinque paesi più pericolosi per i giornalisti dal 2010. Quest'anno sono stati segnalati quattro morti di giornalisti, presumibilmente collegate a gruppi locali della criminalità organizzata.
Reporter senza frontiere (RSF) ha pubblicato la prima parte del suo rapporto annuale sulla libertà di stampa: centinaia di giornalisti in tutto il mondo si trovano in carcere per non aver ceduto alla censura dei propri governi. Il rapporto annuale della ONG viene pubblicato da 25 anni e comprende casi di giornalisti e altri professionisti che lavorano nel settore dell'informazione.
Nell'ultimo anno (dati aggiornati al 1 dicembre), almeno 387 persone che lavorano nel settore dell'informazione sono state arrestate. Cinque paesi sono responsabili di oltre la metà di tutte le condanne: la Cina si trova in testa con 117 giornalisti incarcerati, seguita da Arabia Saudita (34), Egitto (30), Vietnam (28) e Siria (27).
In Cina la persecuzione del regime non si rivolge esclusivamente ai giornalisti cinesi. Cheng Lei, una giornalista australiana di origine cinese che lavora per un'emittente televisiva di Stato cinese, è stato arrestata senza possibilità di comunicare dal 14 agosto 2020. Gui Minhai, un cittadino svedese nato in Cina che viveva a Hong Kong e ha pubblicato libri basati su rapporti investigativi, è stato rapito durante una visita in Thailandia nel 2015 ed è stato portato in Cina, dove è stato condannato a dieci anni di carcere nel febbraio 2020 per "aver fornito illegalmente informazioni a paesi stranieri".
Anche a Hong Kong si assiste a una riduzione delle libertà, in seguito all'approvazione della legge sulla sicurezza voluta dalla Cina: è delle ultime settimane l'arresto di Jimmy Lai, 73 anni, fondatore e proprietario di Next Digital, editore del giornale Apple Daily, e il licenziamento di 40 membri dello staff della rete i-Cable News. Molti facevano parte del pluripremiato team investigativo; altri giornalisti si sono dimessi per solidarietà.
In Egitto, la maggior parte dei giornalisti fermati durante un'ondata di arresti nel settembre 2019 non è stata rilasciata. Altri da allora sono stati incarcerati, sempre con l'accusa di “appartenenza a un gruppo terroristico "e" diffusione di notizie false ". Tra questi Hany Grisha e Sayed Shehta, che lavorano per il quotidiano Youm 7, e Shimaa Samy e Islam Al-Kalhy, che lavorano per il sito indipendente Darab.
Al momento della pubblicazione del report, cinque giornalisti rischiavano condanne a morte. Uno di loro, il giornalista iraniano Ruhollah Zam, è stato ucciso il 12 dicembre. Gli altri quattro sono sotto la custodia dei ribelli Houthi nello Yemen.
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In totale si contano 54 membri della stampa in stato di sequestro in Siria, Iraq e Yemen. Di alcuni di loro non si hanno notizie da anni. Nel 2020 altri quattro giornalisti sono scomparsi in circostanze inspiegabili: uno in Iraq, uno in Congo, uno in Mozambico e uno in Perù.
Il numero di donne giornaliste detenute è aumentato del 35% nell'ultimo anno, con 42 attualmente detenute, rispetto alle 31 di un anno fa. Le donne ora costituiscono l'11% dei giornalisti detenuti, rispetto a 8% l'anno scorso. Mentre il 2020 ha visto il rilascio di donne detenute-simbolo come la nota giornalista iraniano e difensora dei diritti umani Narges Mohammadi (liberata il 1 ° dicembre), ci sono 17 nuovi casi di donne giornaliste arrestate dall'inizio di dicembre: 4 in Bielorussia, che ha vissuto un giro di vite senza precedenti in seguito alle contestazioni del risultato delle elezioni presidenziali di agosto; 4 in Iran e 2 in Cina (paesi in cui la repressione è aumentata con la crisi del coronavirus); così come 3 in Egitto, 2 in Cambogia e 1 ciascuno in Vietnam e Guatemala.
Dallo scoppio della pandemia di COVID-19, oltre 130 membri della stampa (non solo giornalisti quindi) sono stati arrestati in relazione alla loro copertura mediatica della crisi sanitaria. Almeno 14 di loro sono ancora in carcere al momento della pubblicazione del rapporto.
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"L'alto numero di giornalisti incarcerati in tutto il mondo riflette le attuali minacce alla libertà di stampa", ha dichiarato a Deutsche Welle Katja Gloger, responsabile della divisione tedesca di Reporter Senza Frontiere. "Dietro a ognuno di questi casi c'è una persona che deve affrontare processi penali, lunghe detenzioni e spesso maltrattamenti perché non si è sottomessa alla censura e alla repressione".
Reporter Senza Frontiere presta particolare attenzione alla Bielorussia, dove almeno 370 giornalisti sono stati arrestati in seguito alle contestate elezioni presidenziali del 9 agosto. Sebbene la maggior parte siano stati rilasciati dopo un breve periodo, la repressione dei giornalisti è un grave colpo alla libertà di stampa nel paese.
Il rapporto esprime anche preoccupazione per la salute di quei giornalisti incarcerati che non hanno ricevuto le cure mediche adeguate durante la pandemia e che sono stati sottoposti agli effetti psicologici di un maggiore isolamento.
RSF si è soffermata sulla detenzione del fondatore di WikiLeaks Julian Assange, attualmente nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh nel Regno Unito. Le condizioni di Assange erano peggiorate per via della pandemia dato che, di fatto, si è ritrovato in isolamento carcerario, senza la possibilità di ricevere visite o di riunirsi con il suo avvocato. A novembre 2019, 60 medici avevano scritto una lettera aperta al ministro dell'Interno britannico sulle condizioni di salute di Assange affermando di temere per la sua salute mentale e fisica all'interno del carcere.
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L'attacco senza precedenti al giornalismo negli Stati Uniti
Anche il Committee to Protect Journalists (CPJ) ha pubblicato il suo censimento carcerario annuale, dal quale emerge una situazione preoccupante, aggravata dalla pandemia.
Si è registrato anche un grave peggioramento della libertà di stampa negli Stati Uniti, dove nel 2020 sono stati arrestati o accusati un totale di 110 giornalisti, molti dei quali durante la copertura delle manifestazioni contro la violenza della polizia. Sebbene nessuno di loro si trovi in stato di detenzione al momento della pubblicazione del rapporto, almeno 12 dovranno affrontare un processo, secondo l'U.S. Press Freedom Tracker.
Durante le proteste estive del movimento pacifico Black Lives Matter abbiamo potuto assistere a come i giornalisti venivano ammanettati, spinti e colpiti con munizioni non letali dalla polizia: una violenza senza precedenti nei confronti dei media che per molte redazioni ha rappresentato un campanello d'allarme sulla vulnerabilità della libertà di stampa nel paese.
L'estate del 2020 ha segnato un prima e un dopo per i giornalisti che operano negli Stati Uniti. Come spiega Jason Reich, direttore della sicurezza aziendale del New York Times, fino a pochi mesi fa c'era sempre stata la comune intesa che le persone che si identificavano come "stampa" durante eventi di questo tipo fossero considerate come osservatori neutrali. Questo oggi non è più valido.
La continua retorica ostile ai giornalisti portata avanti dal presidente uscente Donald Trump durante tutto il suo mandato ha collocato i membri della stampa in una posizione "antagonista" rispetto alle forze dell'ordine. Gli eventi dell'estate hanno portato alcuni media a ripensare misure un tempo considerate essenziali per il lavoro sul campo, come la classica scritta "PRESS" ben posizionata sul petto o sulle spalle. Indossare un'identificazione di questo tipo oggi può rendere i giornalisti facile bersaglio da parte della polizia o dei radicali di estrema destra.
Anche il New York Times ha cambiato la sua policy sui badge stampa. "Eravamo soliti consigliare ai nostri giornalisti di identificarsi chiaramente come tali", spiega Reich. "L'ambiente in cui ci troviamo ora è diverso... non esiste più una raccomandazione ufficiale del genere". Questo significa che la scelta se identificarsi o meno come giornalista è affidata al reporter sul campo, che deve valutare di volta in volta se ciò possa metterlo in pericolo.
Dal momento in cui ha dichiarato la sua candidatura nel 2015 ad oggi, Trump ha pubblicato tweet ostili ai media più di 2.490 volte, secondo il database statunitense Press Freedom Tracker, e gli attacchi verbali ai giornalisti non sono mai mancati in tutti i raduni pubblici ai quali ha partecipato. Questa retorica ha contribuito a creare un ambiente permissivo per quanto riguarda gli attacchi fisici ai media, spiega a CPJ Marty Steffens, membro del North America Committee of the International Press Institute e professore presso la Missouri School of Journalism.
Con l'elezione di Joe Biden, gli esperti si aspettano un cambiamento nella retorica dalla Casa Bianca, ma milioni di americani hanno ormai assimilato con convinzione i messaggi anti-media di Trump. "Non so se c'è un modo per rimettere quel genio dentro la bottiglia", ha detto Reich durante l'intervista con CPJ.
Immagine anteprima: The-movement-2000 / CC BY-SA